“Il Signore Iddio fece cadere del sonno sull’uomo che si addormentò e poi gli prese una delle costole e richiuse la carne al suo posto” (Gen. 2, 21). Come osserva esplicitamente ‘Ovadyah Sforno, il sonno fu procurato ad Adamo “perché non accusasse timore né dolore” durante l’intervento che avrebbe permesso a D-o la creazione di Eva. Con quattro parole, nel suo Commento biblico, egli attribuisce all’iniziativa Divina le due finalità con cui sarebbe stata concepita la moderna anestesiologia: alleviare la sofferenza psicologica e quella fisica del paziente.
Sforno scriveva con cognizione di causa: nato a Cesena verso il 1475 da una famiglia di facoltosi banchieri, aveva studiato medicina a Roma, per poi trasferirsi a Bologna dove esercitò la professione. Si era laureato a Ferrara nel 1501, caso quasi unico nei primi 150 anni di storia dell’ateneo: a quel tempo il titolo era ancora concesso agli Ebrei per dispensa pontificia, su base individuale. Per mantenersi agli studi era stato insegnante di ebraico: fra i suoi allievi si annovera l’umanista cristiano Johannes Reuchlin. Aveva anche scritto una grammatica ebraica che però non fu mai pubblicata.
Oltre che medico, grammatico e esegeta, Sforno godeva del prestigio sociale per rappresentare la propria Comunità di fronte alle autorità pontificie: “così è Issakhar (scrive nel suo commento a Gen. 49,14) che trasporta su di sé il giogo della Torah e il giogo della politica (hanhagat ha-medinòt) come si conviene ad un sapiente perfetto nelle virtù e nei concetti (shalem ba-middòt u-va-muskalòt)”.
Erano tempi difficili. Il mondo ebraico, scosso dalla Cacciata dalla Spagna nel 1492, fu accusato di diffondere la peste. Il panorama interno italiano era segnato dalla predicazione antisemita dei francescani: dopo che per secoli la Chiesa aveva confinato gli Ebrei a esercitare il prestito a interesse, considerato immorale per i propri fedeli, i frati minori sostenevano l’istituzione dei “monti di pietà” per attirare a sé proventi e ricchezze. Ma erano anche gli anni della Riforma protestante e la Chiesa preparava la propria difensiva. Nel 1516, esattamente cinquecento anni fa, nasceva a Venezia il primo ghetto, seguito da quello di Roma nel 1555, due anni dopo il rogo del Talmud al Campo dei Fiori. Questi tristi avvenimenti furono però risparmiati a Sforno che morì molto probabilmente nel 1550: la sua sepoltura non è conosciuta. Già nella prefazione al suo Commento, si avverte l’eco della crisi: “I figli del nostro popolo per l’impazienza, la servitù e le preoccupazioni in una terra non loro, a causa degli oppressori che ogni giorno si affrettano a confonderli e a perderli, hanno dedicato tutto se stessi al profitto… fino a non lasciare spazio né tempo adeguati per contemplare le meraviglie della nostra Torah. E così sono diventati simili a sognatori in seno ai popoli” (Commento alla Genesi a cura di R.M. Ravaglia, Valleripa, 2007, p. 2-3).
Oppure, si veda il suo commento alla promessa di Giacobbe (Gen. 28,11 e 20): “Se D-o sarà con me’, risparmiandomi le ‘tre cose che portano l’uomo a venir meno alla propria volontà e a quella del Creatore’ (‘Eruvin 41b): ‘mi proteggerà’ dagli uomini malvagi; ‘mi darà pane da mangiare e abiti da indossare’ a scanso della povertà; ‘e potrò tornare in pace alla casa di mio padre’ a scanso delle malattie: l’atmosfera cattiva di cui parlano i Maestri”.
A rispondere agli interrogativi esistenziali dei suoi contemporanei è dedicata la sua opera più nota: il Commento alla Torah. Al centro della sua analisi non sono tanto le singole difficoltà linguistiche del testo, a differenza dei suoi predecessori. Come egli stesso scrive nella sua prefazione, le obiezioni dei suoi lettori erano essenzialmente due. Anzitutto la presenza di ripetizioni e di inversioni cronologiche nel testo biblico, apparentemente senza motivo, che non trovava spiegazione nei commenti precedenti.
Il secondo interrogativo riguardava invece la nozione di premio e castigo che, stando a una lettura piana della Torah, sembra legata al mondo materiale, come se la tradizione ebraica, a differenza di quella cristiana, non coltivasse la speranza in una vita oltre la morte.
Sul primo argomento, Sforno si sforza di mostrare che la Torah segue un ordine logico e non cronologico: se un precetto viene ripetuto, significa che è necessario ripeterlo. Non è ammissibile, come credevano di fare soprattutto i sapienti cristiani, interpretare le Mitzwòt in chiave puramente allegorica. Ogni precetto deve essere compiuto così come è scritto, perché dotato di un senso profondo che va ricercato. Valga per tutti il commento a Deut. 14, 1: “Voi siete figli del S. D. vostro, non rasatevi… per il morto”: “Non è opportuno mostrare il massimo del dolore per il parente defunto allorché rimane in vita un altro Parente più ragguardevole di lui. Dal momento che siete figli del S. D. vostro ed Egli vive in eterno non è il caso che mostriate il massimo del dolore per nessun morto”. D’altronde “la ricompensa delle Mitzwòt non è in questo mondo” (Qiddushin 39b): D. ha così voluto risparmiarci una preoccupazione che già in questo mondo costituirebbe castigo!
Per comprendere a fondo l’insegnamento di Sforno non si può disgiungere i suoi commenti da quella che egli considerava la sua opera più importante: il trattato filosofico Or ‘Ammim (“Luce dei popoli”), pubblicata inizialmente in ebraico nel 1537 e successivamente in versione latina con il titolo Lumen Gentium nel 1548, per accontentare i suoi lettori cristiani: essa è dedicata al Re di Francia Enrico II, cultore di testi sacri. Sforno “è l’ultimo degli scolastici fra gli israeliti che ha sentito il bisogno di correggere le mancanze del pensiero aristotelico e di farne lo strumento della sua ricerca filosofica… Secondo lo stile dei Saggi del Medioevo, Sforno ha trattato quindici quaestiones fondamentali” (Ravaglia, p. XLVII), portando per ciascuna i passi biblici utili alla confutazione degli eretici su quell’argomento. “La quattordicesima questione consiste nell’investigare se la perfezione morale per l’anima umana intellettiva si ottiene esclusivamente per forza umana e non si raggiunga affatto per virtù divina o naturale… Se ciò fosse possibile non sarebbe concepibile che la virtù divina o naturale fossero così avare da non concedere questo risultato che a pochi esseri umani. Dissipiamo perciò il dubbio dicendo che la perfezione morale per l’anima umana intellettiva si ottiene solo per virtù della volontà umana, allorché manifesta l’intenzione di assomigliare al Creatore nello Studio (‘iyun) e nell’Azione (ma’asseh)”. (Or ‘Ammim, cap. 18). A sua volta questa distinzione deriva dalla creazione dell’Uomo a immagine e somiglianza della Divinità: “’facciamolo a nostra immagine’: si riferisce alla sostanza intellettiva ed eterna; ‘e a nostra somiglianza’: nelle cose pratiche. Ma se l’uomo non riflette su ciò, egli manca di tutta la perfezione che è stata preparata per lui e non si potrà chiamare “ad immagine di D.”; e il versetto dice di lui: “è paragonabile agli animali” (Sal. 49, 21 – Commento a Gen. 1, 26).
Sforno è l’immagine tipica del Rinascimento italiano in cui si trovano frammisti Torah e sapienza, fede profonda e desiderio di conoscenza della verità fin dove l’umana intelligenza può giungere. Il ruolo dell’Uomo è al centro del suo interesse (Wohlgemuth). Secondo Bonfil, la prassi ideale dell’ebraismo resta per lui la realizzazione di un sano equilibrio fra vita contemplativa e vita attiva (si veda ancora il commento a Gen. 6, 9: “Noè era uomo giusto e retto’: ‘Giusto’ nelle azioni -ma’asseh-; ‘e retto’: nei concetti –muskalòt-”), fermo restando il principio che l’uomo verrà giudicato e ricompensato in funzione delle sue opere.
Fu forse l’ultimo dei grandi autori ebrei dell’Europa occidentale a scrivere di filosofia prima che cominciasse l’età della Controriforma e dei ghetti. Anche se si trattava in realtà di ribadire la visione ebraica del mondo nella sua purezza – e in questo senso qualcuno lo considera un “anti-filosofo”, in epoca posteriore “la filosofia non ha più bisogno di essere combattuta: sono gli eventi stessi che si incaricano di cacciarla definitivamente dall’orizzonte del pensiero ebraico” (V. Colorni, Iudaica Minora, Giuffrè, 1983, p. 469).