Il numero 53 di Torat Chayim è un numero monografico dedicato alla figura di Rav Elia Samuele Artom, uscito nel 1970, per via di una esplicita richiesta di Rav Artom, a cinque anni dalla sua scomparsa. Nel 1937 scriveva: “i giornali ebraici sono vivamente pregati di non formulare nessun giudizio in nessun senso riguardo a me in occasione della mia morte… Solo dopo cinque anni dalla mia morte essi potranno dare giudizi su di me, ma solo nel caso che chi scrive si senta di dire tutto quello che pensa, bene e male”.
Nell’articolo introduttivo David Cassuto scrive che già questo desiderio espresso da Rav Artom sintetizza i tratti fondamentali della sua figura, il non essere un uomo di compromessi, una durezza e un’aggressività difficilmente sopportabile dal pubblico, non volta tuttavia a difendere il proprio prestigio, ma quello della Torah. Gli articoli presentati, scritti da amici e allievi di Rav Artom, si interessano non molto sugli aspetti pubblici della figura di rav Artom, come ad esempio la sua produzione letteraria, ma su aspetti più intimi e personali.
Rav Artom nacque a Torino nel 1887. Suo nonno, di Asti, era fedele alla religione ebraica. Si narra che una volta venne incarcerato perché rifiutò di inchinarsi ad una processione cattolica. Il padre invece era un sostenitore della cosiddetta “religione del cuore”, senza cioè bisogno dell’osservanza di riti. Era tuttavia versato nella cultura ebraica, e frequentava gli incontri bisettimanali della Confraternita Ohavè Torah del Rabbino Giacomo Bolaffio. Moisè Foa, amico di gioventù di Rav Artom, ritiene che questa iniziativa diede una scossa all’ambiente assimilato di Torino, dando una spinta al giovane Artom di tornare alla pratica religiosa. Si affiliò al Rabbino Bolaffio e fu avviato alla formazione rabbinica. Studiò con Rav Margulies presso il Collegio Rabbinico di Firenze. Assunse incarichi rabbinici a Ferrara, Tripoli, Alessandria e Firenze. Fu vicerabbino a Torino, ma presto comprese che la sua vera vocazione era quella per l’insegnamento, non volendo scendere a patti con i suoi turbolenti correligionari.
Rav Belgrado narra di un suo colloquio con Rav Artom, durante il quale quest’ultimo gli riferì quale fosse la sua visione dell’insegnamento nelle scuole ebraiche: l’insegnamento di ogni materia doveva essere permeato di nozioni ebraiche. Rav Artom propose al futuro Rav Belgrado di abbandonare gli studi ginnasiali, per intraprendere sotto la sua guida quelli magistrali e rabbinici. Artom gli insegnò privatamente il latino, la matematica, l’italiano, e quasi tutte le materie previste per l’indirizzo magistrale, perché intendeva fare di lui un insegnante ideale della scuola ebraica, e Belgrado lo seguì con entusiasmo, tanto che divenne per lui quasi un figlio. La frequentazione non avveniva solo durante le lezioni, ma anche durante gli shabbatot e le vacanze, tanto che Belgrado divenne quasi un membro della famiglia Artom.
Nel numero è contenuta anche una testimonianza di Rav Toaff, che ebbe modo di conoscere Rav Artom a Firenze, anche se spesso ne aveva sentito parlare in casa dal padre, Rav Alfredo Sabato Toaff, che lo apprezzava come uomo, per via della sua dignità, e come rabbino. Rav Toaff ricorda con affetto gli anni in cui Rav Artom ritornò in Italia per insegnare al Collegio Rabbinico a Roma, e come rimase colpito dalla sua grande modestia. Ogni volta che Rav Toaff entrava per qualche motivo nella classe in cui Rav Artom insegnava, quest’ultimo si alzava in segno di rispetto, sebbene fosse molto più anziano, e sebbene Rav Toaff gli avesse confidato che questo atteggiamento lo mortificasse. Nel 1963, quando morì il padre di Rav Toaff, Rav Artom acconsentì a divenire consigliere e guida di Rav Toaff per il suo magistero rabbinico. Rav Toaff voleva poi che Rav Artom assumesse la guida del Collegio Rabbinico, ma non accettò mai, anche se Rav Toaff cercò sempre di adeguarsi alle sue proposte e i suoi programmi.
Sin dalla prima gioventù abbracciò gli ideali del sionismo. Nel 1907 fu fra i fondatori del Gruppo Sionistico Piemontese. Il rapporto di Rav Artom con Eretz Israel fu fonte di consolazione per via della perdita di tre dei suoi quattro figli e due dei suoi nipoti. Quando era a Tripoli perse una figlioletta di appena sette anni. Il fatto che uno dei suoi figli e molti nipoti sopravvissero fu però fonte di sollievo.
L’approccio di Rav Artom nei confronti della halakhah, modificatasi nei secoli di esilio, era critico, e riteneva che la struttura dell’epoca non fosse adatta ad uno stato giovane come Israele. Indipendentemente dal suo pensiero, non si discostò mai dalla halakhah vigente.
Ispirò la fondazione della società Torat Chayim. Pubblicò sulla rivista numerosi articoli, nei quali espresse con forze le sue idee, anche quando si discostavano dalla linea ufficiale.
Poco dopo la creazione dello Stato scrisse la “Nuova vita d’Israele”, ma non ebbe la soddisfazione di vederlo pubblicato. I problemi sollevati in questo testo sono di sicuro interesse, anche chi per non ne condivide le conclusioni.
La testimonianza di Augusto Segre si rivela molto interessante perché contiene l’ultimo colloquio del Rav, molto significativo: l’argomento principale era quello dalla consegna delle bozze del terzo volume di storia ebraica. Segre mostrò al Rav un foglio ciclostilato giunto presso il Collegio Rabbinico, che conteneva messaggi antisemiti in cui si annunciavano come prossime, nuove e questa volta definitive persecuzioni contro gli ebrei. Rav Artom rispose “Cosa vuole? Sappiamo molto bene come la pensa questa gente… sono fatti così, la pensano così e sono liberi di pensarla così, e lei cosa vorrebbe fare? Sta a noi invece cercare di educare gli ebrei e la nostra gioventù, in particolare, a vivere in modo attivo il loro ebraismo e prendere coscienza del loro patrimonio spirituale. Questa è la migliore difesa che possiamo opporre contro questa gente.”