Ramchal, il grande talmudista, moralista e cabalista nato nel 1707 in un’agiata famiglia padovana, è oggi giudicato uno dei protagonisti assoluti del rinnovamento del pensiero ebraico agli albori dell’età moderna, ancorché ebbe vita assai breve e travagliata: fatto che peraltro non gli impedì di lasciarci numerosi scritti. La sua figura e i suoi scritti furono completamente dimenticati in Italia, compreso il Messillat Yesharim che ebbe invece una ben diversa fortuna nel mondo delle Yeshivot ashkenazite. Giocò forse a suo sfavore la parziale omonimia con Shemuel David Luzzatto, il filologo e biblista dell’Ottocento che sostenne il partito razionalista.
I due personaggi non vanno confusi. La querelle fra razionalismo e misticismo in seno all’Ebraismo è di lunga data. Ramchal scrisse fra l’altro una confutazione dell’opera anticabalistica di un Rabbino veneziano del Seicento, Leon da Modena (Choqèr u-Mqubbàl, “Filosofo e cabalista”)) e un’esposizione sistematica della Qabbalah secondo l’insegnamento di R. Itzchaq Luria (Kelàch Pitchè Chokhmah, “Le 138 porte di saggezza”).
R. Moshe Chayim Luzzatto si distinse in tre campi: come poeta, come cabalista e come moralista. Il primo libro scritto da Ramchal è il trattato di retorica Leshon Limmudim (“Lingua colta”), stampato a Mantova nel 1726, quando l’autore aveva 19 anni. Il testo dimostra da parte di Luzzatto una vasta conoscenza nel campo della retorica classica e medioevale e della teoria del linguaggio (A. Rathaus). Fu autore di due drammi in versi: “Sansone” e La-yesharim tehillah (”Ai giusti la lode”) in cui mise in pratica i propri insegnamenti poetici. Nel primo egli scelse un soggetto biblico che si prestava facilmente alla drammatizzazione: la storia di Sansone contiene un conflitto tra l’amore sensuale e l’impegno religioso-patriottico dell’eroe, rappresentati rispettivamente dalle figure allegoriche dell’Amore e della Prodezza.
Il secondo dramma è un’allegoria della lotta cosmica fra bene e male, impersonati rispettivamente da Yosher (rettitudine) e Rahav (Prepotenza) per avere la mano di Tehillah (Lode, Gloria). Il padre di Tehillah si chiama Hamòn (Massa, Popolo), perché la gloria dipende dall’acclamazione delle folle e queste ammirano spesso stoltamente i prepotenti bugiardi più che i probi. Se alla fine Yosher ottiene la mano di Tehillah è per intervento del Cielo che non permette mai il trionfo definitivo dei malvagi. Un terzo dramma, Migdal ‘Oz (“La torre possente”), è invece un rifacimento ebraico del Pastor Fido di Guarini. Esso è peraltro costruito su un passo dello Zohar che paragona la Qabbalah a una principessa che risiede in un castello inaccessibile e che si rivela soltanto a chi l’ama con tutto il cuore. Anche in questo dramma si sviluppa il duello d’amore fra la Pace e la Falsità per la mano della principessa (S. Avisar).
Il Derekh Tevunot (“Via dell’intelletto”) da non confondersi a sua volta con il Da’at Tevunot dello stesso autore, è un trattato di ermeneutica talmudica. Sforzandosi di applicare allo studio del Talmud criteri logici extratestuali, vi si possono identificare tematiche dalla logica medioevale fino a Cartesio. Il libro comprende 11 capitoli preceduti da una breve introduzione dell’Autore, In essa egli parte dal principio che “è naturale, per l’anima razionale che è in noi, l’anelito a conoscere la verità”. Come perseguirla? La nostra mente dovrà scoprirla in tutto quello che si osserva senza limiti, senza a quanto pare escludere la stessa osservazione scientifica. Luzzatto è infatti consapevole che “non tutti gli oggetti rivelano tutti i propri aspetti permettendo con la semplice osservazione di raggiungere la loro verità”. Dall’osservazione della natura all’analisi del testo, ovvero i sei ordini della Mishnah e la discussione nella Ghemarà, con una dettagliatissima classificazione delle categorie del discorso che supera abbondantemente il centinaio (A. Luzzatto).
Se il più noto Messillat Yesharim può essere considerato il compendio dell’etica ebraica secondo Ramchal, il Derekh ha-Shem (“la via del S.”) lo è certamente della “teologia”. Scritte entrambe negli ultimi anni della sua vita con un linguaggio apparentemente semplice, chiaro e conciso, esse rivelerebbero il doppio piano cosmico secondo la visione cabalistica di Ramchal: il governo del cosmo da parte di D. attraverso la Sua bontà e il governo del proprio micro-cosmo da parte dell’uomo. Nella prima delle sue quattro parti il Derekh ha-Shem prende le mosse dall’esistenza di D. e dallo scopo per cui ha creato il mondo e dimostra come gli altri insegnamenti dell’Ebraismo stesso non sono che logiche conseguenze di queste premesse. Il lettore viene trasportato da un’idea all’altra finché gli si dischiude l’intera struttura del pensiero ebraico come un tutto logico. Si parla così dell’Uomo e della sua responsabilità, del Peccato del Primo Uomo e del rapporto fra determinismo e libero arbitrio. Nella seconda parte egli si sofferma sulla Provvidenza, sul Giudizio Divino e sulla ricompensa dell’anima, per poi passare al rapporto fra Israele e gli altri popoli. La terza parte parla della profezia e degli eventi soprannaturali, mentre la quarta si sofferma sull’importanza dello Studio della Torah, sulla Tefillah e sulle varie osservanze. Il titolo allude alle vie con cui D. dirige noi e tutte le sue creature, ma è evidente che Ramchal intendeva gli insegnamenti “teologici” come il fondamento stesso dell’etica ebraica. E’ già stato osservato che la visione luzzattiana della Divina Provvidenza in azione attraverso la Storia presenta sorprendenti affinità con il pensiero di Giambattista Vico.
L’opera forse più originale di Ramchal può essere peraltro considerata il Da’at Tevunot (“conoscenza dell’intelletto”) in cui egli affronta i principi della fede ebraica, immaginando un dialogo in cui l’anima (neshamah) interroga l’intelletto (sekhel). La tesi di fondo è che D. è buono per definizione e in quanto tale aspira solo a fare del bene agli altri: a questo scopo egli creò il mondo, “perché se non c’è chi riceve il bene, non esiste beneficio”. Ma per evitare che il ricevente debba vergognarsi del bene che riceve sotto forma di carità senza aver fatto nulla per meritarlo, D. ha voluto che gli uomini dovessero darsi da fare per conseguirlo. Solo a condizione che non rimanesse nell’Uomo dispiacere alcuno il beneficio può dirsi completo. Il mondo è stato perciò creato imperfetto in modo che l’Uomo, chiamato a collaborare con D. nell’opera di riparazione (tiqqùn), giunga a meritarsi in questo modo la sua ricompensa. Così facendo D. ha dovuto limitare il proprio potenziale creativo. Non solo. I difetti stessi, in quanto parte integrante del piano della creazione, non vanno disprezzati ma corretti. Il male ha in questa prospettiva una finalità positiva: “la luce si distingue solo attraverso il buio”. Il tiqqùn coinciderà con il ghilluy ha-yichud (“rivelazione dell’Unità Divina”) con cui il processo giungerà a conclusione. Strumento fondamentale per giungere a conseguire questa finalità ultima è la Torah con le Mitzwòt.
Spetta in primis all’Uomo stesso, attraverso l’uso del libero arbitrio, portare il mondo attraverso passaggi graduali (hadragah) e attraverso una procedura dialettica al superamento del male e alla perfezione. La sofferenza dell’Uomo, secondo Ramchal, non è dunque necessariamente proporzionale alle sue colpe. A volte il giusto soffre per gli errori degli altri nello sforzo di elevare il livello spirituale di coloro che lo circondano. Se infatti D. rimunerasse l’uomo solo in base alle sue azioni bene e male continuerebbero a coesistere. Solo nel concedere al male la massima forza possibile si potrà giungere infine alla sua eliminazione radicale che è lo scopo fondamentale dell’azione tanto divina che umana nel mondo.