Inchiesta vecchio stile di Marina Morpurgo, su Diario del 10 febbraio
Dal giugno 2005 il direttore di un piccolo quotidiano di provincia, «la Voce di Mantova», venduto insieme a una vecchia e prestigiosa testata di Torino, conduce una vergognosa campagna che ricorda in certe espressioni i brutti tempi che furono. Ma lui si difende (antisemita io? ma state zitti!) e dice che è tutto un sudicio complotto della sinistra per mettere a tacere un libero pensatore
«Non avremmo mai voluto riconoscergliela per partito preso, ma Berlusconi ha ragione piena: questa sinistra non va solo sconfitta; andrebbe cancellata proprio, quale atto di legittima difesa contro una minaccia antistorica e liberticida. Minaccia strisciante, bifida, a sangue freddo ben sapendo che solo gli animali a sangue freddo sono velenosi». (Voce di Mantova del 2 febbraio 2006. Titolo dell’apertura in prima pagina: «La sinistra vuole zittire la Voce». Occhiello: «Un libello per diffamare la stampa libera. Berlusconi ha ragione». Catenaccio: «Accuse di antisemitismo da Mantova ebraica e Istituto di storia»).
La prosa tonante appartiene a Davide Mattellini, classe 1962, direttore del quotidiano la Voce di Mantova, un piccolo giornale locale che viene venduto in abbinamento obbligatorio con la Stampa (con 1 euro il lettore si becca entrambe, la tiratura è sulle 12 mila copie) e che nel 2003 ha ricevuto 1.272.467, 01 euro di contributi statali, in quanto edito da una cooperativa. Sullo stesso numero della Voce, a pagina 14, possiamo abbinare la prosa alla faccia. Una foto ci mostra un diciassettenne Mattellini notevole la somiglianza con Michael Jackson mascherato da nazista (era Carnevale), come il principino Harry. Burlone di un direttore: la pistola impugnata dal suo io adolescente punta alle nuche di un terzetto di signori con la kippah in testa, fotografati in sinagoga il Giorno della memoria. Come dice la didascalia del collage: «Non vi è ritratto un Sinedrio, ma alcune delle massime autorità delle istituzioni mantovane… il presidente del Tribunale Giovanni Scaglioni, il presidente della Provincia Maurizio Fontanili (Margherita, ndr) e il vicepresidente Claudio Camocardi (Ds, ndr)».
A questo punto, un dubbio. Ma questo Mattellini è veramente un erede di Voltaire, un martire del libero pensiero, la vittima «di una piccola e sudicia Norimberga istruita contro di me» e «di una odiosa trama liberticida»? Oppure è come spiegato sull’opuscolo distribuito il Giorno della memoria dall’associazione Mantova ebraica e dall’Istituto mantovano di storia contemporanea uno che usa un linguaggio e dei concetti pericolosamente simili a quelli delle campagne antiebraiche del 1938? O terza ipotesi è uno di quei pensatori di provincia cui al bar i conoscenti pagano il caffè corretto sperando che vada via alla svelta e la smetta di dire scempiaggini?
Per capire bene tutta questa storia, che ci porta molto lontano (anche in Danimarca, in fondo: perfino qui parliamo di vignette), bisogna partire dalla mattina del 26 giugno 2005, domenica, giorno in cui ad alcuni ebrei mantovani capita di passare davanti alle edicole e di vedere una locandina che li fa trasalire: «Ora anche gli ebrei contro la Croce». Che cosa è successo? Che il giorno prima il commissario uscente della Croce rossa italiana, Maurizio Scelli, ha salutato i volontari a Solferino. Che è intervenuto l’eurodeputato leghista Mario Borghezio, per dire idée fixe «il simbolo crociato non si tocca».
Borghezio e la Voce si riferiscono a una vecchissima diatriba sul simbolo, finalmente risolta da un Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1949, pubblicato nel dicembre 2005 e in attesa di approvazione. Con questo protocollo, il Maghen David Adom, la società nazionale israeliana di soccorso fondata in Palestina nel 1931, potrà essere accolta nell’organizzazione, grazie all’adozione oltre alla croce rossa e alla mezzaluna rossa di un terzo simbolo «neutrale» (il cristallo rosso o rombo) in cui sarà possibile includere altri simboli, «compresa la stella di Davide». Nessuna cancellazione della croce, quindi, ma vallo a spiegare ai fan di Borghezio.
La sparata della Voce di Mantova passa sotto silenzio, in città. Ma un ebreo mantovano, Emanuele Colorni, scrive due lettere di protesta. Quella indirizzata alla Gazzetta di Mantova (quotidiano rivale e di gran lunga più diffuso: appartiene al gruppo dell’Espresso), viene pubblicata giorni dopo, ridotta a un francobollo praticamente invisibile. Quella spedita alla Voce stessa compare in versione integrale il 28 giugno, e in bella evidenza. Il tono del dottor Colorni è duro: «Signor direttore, a nome di tutta la Comunità ebraica di Mantova e a nome mio personale le invio con la presente la più vibrata e netta protesta per l’inaccettabile titolo comparso in prima pagina su la Voce di Mantova… il titolo a lettere cubitali è tanto vistoso quanto tendenzioso e falso, ma purtroppo non sembra ideato distrattamente sotto l’influsso di un colpo di sole, bensì appare studiato secondo il più becero antisemitismo e induce nella sua ambiguità a credere che gli ebrei sono contro il simbolo religioso della croce». E conclude: «Nella speranza che il caldo sole estivo attenui in qualche giornalista il verde del livore antiebraico, e in qualche eurodeputato il verde della camicia, distintamente La saluto».
Potrebbe finire qui, e Mantova potrebbe continuare a sonnecchiare tranquilla. L’antisemitismo da queste parti non è certo un problema, la Comunità che conta 128 iscritti è coinvolta in una miriade di attività culturali che ricordano i fasti del passato. I luoghi ebraici, risorsa turistica non indifferente, sono più che curati. E poi c’è un dato, fornito dal presidente della Comunità mantovana, Fabio Norsa, che la dice lunga: la provincia è quella che in tutta Italia vanta la più alta percentuale di 8 per mille destinati all’Unione delle comunità israelitiche. È come se la città stesse rendendo merito a un’opulenza e uno splendore ottenuti, nei secoli, anche grazie agli ebrei (che arrivarono a essere 3 mila su 24 mila abitanti), e alcune volte alle spalle dei medesimi. Come accadde nel caso del banchiere Daniele da Norsa, vittima, alla fine del Quattrocento, di un curioso caso di vignette dissacranti e seminatrici di zizzania religiosa. Daniele da Norsa, figlio di Leone, era stato chiamato a Mantova dai Gonzaga, e si era comprato una bellissima casa, sulla cui facciata era dipinta un’immagine sacra, che aveva chiesto al vescovo di poter cancellare a scanso di guai: temeva che qualcuno la danneggiasse, facendone ricadere le conseguenze su di lui. Permesso accordato, come scrisse il banchiere stesso: «Tolsi licentia dal Rev.do domino Vicario del Vescovo de far tore zoso esse figure et pagai tutto quello che me comise esso domino Vicario». Ma alla vigilia dell’Ascensione, il 27 maggio del 1495, ignoti forte il sospetto di una provocazione assai ben studiata tracciano sul muro del palazzo «certe figure de sanctis cum versi», la cui vista suscita la collera popolare (di lì passa la processione dei fedeli): «Ognuno guardava et molte persone cridavano et trasevano sassi in casa e credo se non fosse stato domino maestro Jacobo da Capua (il capo delle guardie, ndr) che per grazia sua fece tor zoso esse figure me averebbero tutto a sacho». Spaventato, il 29 maggio Daniele da Norsa chiede protezione al marchese Francesco. In sua assenza, la moglie Isabella d’Este dà ragione al banchiere e gli fa avere un decreto di immunità, ma poi lo scontento popolare fa sì che il marchese decida dapprima di chiedere il rifacimento dell’affresco, e poi addirittura di far distruggere il palazzo dei da Norsa per costruire al suo posto (e a spese dell’ebreo) la chiesa che avrebbe celebrato la vittoria di Francesco Gonzaga contro Carlo VIII a Fornovo. Sempre a spese dei da Norsa oltre il danno la beffa viene commissionato alla scuola del Mantegna il beffardo dipinto che si chiama La Madonna degli Ebrei, una pala ora conservata nella chiesa di Sant’Andrea: in essa la Madonna riceve un modellino della Chiesa della Vittoria, offerto da San Gerolamo. Gli angeli reggono la scritta «Debellata haebreorum temeritate», in basso si vedono due uomini e due donne un po’ mesti (i da Norsa medesimi), e i due uomini portano sull’abito il cerchio giallo imposto agli ebrei (nella realtà i Gonzaga esentarono la famiglia del banchiere dall’obbligo del cerchio: quindi anche il quadro è in fondo una vignetta satirica).
Vi ha morsi un vampiro?
Ma torniamo ai giorni nostri, e alla grande evidenza data alla protesta della Comunità. Peccato che la risposta di Mattellini a Colorni sia, come dicono i veneti «peso il tacòn del bùso». Il direttore infila una serie di battute che partono da «Io non chiedo scusa e forse in questo sono molto “ebreo”», attraversano «Ma che cosa siete, perdio? Vi ha morsi tutti un vampiro, se alla vista di una croce scappate via?» e giungono all’apoteosi nell’ultima colonna: «A me comincia a nascere il sospetto che un popolo, per aver subìto 40 persecuzioni in 2 mila anni, sempre “vittima” non deve essere stato. Quantomeno un po’ rompicoglioni lo è…».
È il topos di ogni antisemita, la colpa della vittima: non sono io che li odio, sono loro che sono odiosi. Ed è anche un messaggio molto infettivo, nella sua banalità. Non a caso è quello che pensano parecchi ragazzini di Mantova, «la punta estrema della lunga ombra proiettata dalla Shoah sugli ebrei fino a oggi», come risulta dalle interviste che danno vita all’interessantissimo libro Auschwitz, il passato e il presente e il possibile. Dialoghi sulla storia tra infanzia e adolescenza, scritto da Maria Bacchi dell’Istituto di storia contemporanea di Mantova e da Fabio Levi, docente di storia contemporanea all’università di Torino. Pagina 353, parla Marco: «… se qualcuno lo ha perseguitato c’era una ragione. Questa cosa non giustifica che c’è stato quasi un genocidio da parte di Hitler, però comunque qualche cosa che l’ha spinto a farlo c’era: un sentimento di rabbia nei loro confronti c’era».
A questo punto la Comunità ebraica di Mantova, ritenendo che il diritto di critica sia stato oltrepassato, manda una lettera di protesta alle autorità locali, al presidente dell’Ordine dei giornalisti Franco Abruzzo e all’allora direttore della Stampa Marcello Sorgi.
Siamo arrivati all’8 luglio, e il peggio deve ancora venire, nelle forme di una lettera pubblicata il 2 agosto sotto la dicitura «Libertà di parola». Il titolo è a caratteri cubitali: «Non accetto alcuna lezione dagli ebrei». L’occhiello è ancora più finemente allusivo: «Fin da ragazzo mi dicevano: quelli piangono il morto per fregare il vivo». Autore del contributo al dibattito è Valter Malacarne, coordinatore provinciale di Alternativa sociale, il partito di Alessandra Mussolini. Malacarne scavalca a destra Mattellini: macché rompicoglioni, quelli sono farabutti. E cita un episodio di vita vissuta: lui, che di mestiere fa il pavimentista, aveva posato un pavimento fatto con pietre di recupero nel bagno «di un noto cittadino ebreo mantovano, un personaggio che oltre che combinare imbrogli come andrò a spiegare dopo, esercita una professione di alta responsabilità». Il noto ebreo però si è rifiutato di pagarlo, accusando il Malacarne di aver eseguito male il lavoro, e per far valere queste sue ragioni ha chiamato in tribunale due testimoni, un ingegnere e un’architetta: «Ah… dimenticavo, pure loro sono ebrei…Vede direttore, sono nato nel primo dopoguerra e mi ricordo che fin da ragazzino quando gli adulti parlavano di ebrei dicevano “quelli piangono il morto per fregare il vivo… se hai bisogno non contare su un ebreo, quello di certo non ti aiuta”». E saluta: «Non accetto nessun tipo di razza padrona, tantomeno l’ebreo». Mattellini risponde bonario che i gaglioffi c’erano anche nelle Ss, ribadisce «son certo di non essere tacciabile di razzismo» e già che è in argomento rincara la dose sulla «tracotanza ebraica».
La lettera di Malacarne è ignobile, tanto più che «il noto cittadino ebreo» non è affatto ebreo, come non lo sono i due testimoni. Unica attenuante personale che può essere concessa al coordinatore provinciale di Alternativa sociale alle elezioni regionali del 2005 Malacarne ha preso 7 voti è che si mormora che la lettera non l’abbia scritta lui, per motivi di competenza linguistica.
La Comunità ebraica di Mantova decide di rivolgersi a un avvocato, e intraprende un’azione civile, seguita a ruota dall’Unione delle comunità. Chiedono ognuna 50 mila euro di danni, da destinare a borse di studio sulla Shoah e l’antisemitismo e a istituti di storia contemporanea come quello di Mantova o come il Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano. L’avvocato dellaVoce di Mantova, Daniele Benedini, che lavora a Milano, comincia a sudare freddo: questa volta Mattellini l’ha fatta veramente grossa.
Incredibilmente, l’unica reazione istituzionale resta quella della Comunità. Il fatto sembra inspiegabile, in una città che per esempio ha prima tra tutte le città italiane un sinto, Yuri Del Bar, in Consiglio comunale. Neanche dalla Stampa di Torino per ora arrivano risposte, eppure il «panino» editoriale rischia di diventare davvero indigesto. Che la presenza in massa alle iniziative del 25 aprile e del 27 gennaio sia solo una ritualità di copertura? Che il benessere diffuso la provincia vanta tra l’altro 20 polli e 8 maiali a testa abbia addormentato le coscienze della gente, che corre a seguire i festival di letteratura, ma ormai ha poca propensione al confronto? Che l’apparentemente solida ossatura democratica sia stata in realtà edificata sulle sabbie di una pronta rimozione, che ha cancellato le tracce delle colpe e non ha dato tempo alla formazione degli anticorpi? Maria Bacchi dell’Istituto di storia contemporanea mentre raccoglieva qualche anno fa testimonianze per il libro Cercando Luisa. Storie di bambini in guerra. 1938-1945 (Luisa è Luisa Levi, arrestata con la sua famiglia in seguito a una delazione, deportata quattordicenne e morta a Bergen Belsen), all’inizio non riuscì a trovare riscontri, nei ricordi degli ex scolari di Mantova i non ebrei delle tristissime esperienze di segregazione e umiliazione patite dai bambini che dopo il 1938 furono ammassati in un’unica classe speciale in via Vescovado e subirono il dileggio dei coetanei («Per la strada, andando verso piazza Sordello, c’erano dei bambini che ci buttavano sassi e dicevano: Dài all’ebreo, dài all’ebreo!»). Tanto che, racconta, cominciò ad avere pensieri revisionisti: «Nessuno ricordava la classe speciale e così mi venne il dubbio che gli scolari ebrei di allora si fossero inventati tutto. Poi finalmente trovai uno che si ricordava della classe speciale, e di quando andava in giro a picchiare i bambini ebrei. Ricordava nomi e cognomi, ed episodi specifici: la volta che buttarono un loro coetaneo giù dalla bicicletta, accusandolo di essere una spia americana, la volta che insultarono quell’altro… era tormentato dai rimorsi, lo era sempre stato da dopo la fine della guerra. Pensi che era un uomo semplice, faceva il carrozziere, ma quando è andato in pensione ha voluto studiare l’ebraico a Venezia. Non a Mantova perché si vergognava a farsi vedere…».
E tuttavia, esiste anche una spiegazione più semplice (e indubbiamente più rassicurante) al silenzio che fino al 27 gennaio, Giorno della memoria, circonda le sparate della Voce di Mantova. La sintetizza Renato Sandri, mantovano, ex parlamentare comunista, autore con Enzo Collotti e Frediano Sessi del Dizionario della Resistenza, Einaudi (come dire, una garanzia): «In estate in città non c’era quasi nessuno. E quel giornale lo leggono nelle osterie e nei caffè, ha scarsa eco, è un angolo putrefatto con residui di vecchio fascismo. Parlarne sarebbe stato portare inutilmente fieno a quelle idee da feccia…».
Il Giorno della memoria.
Il 27 gennaio, però, la situazione precipita. Le performance estive della Voce ma sarebbe meglio dire del direttore Mattellini, perché fa tutto lui non sono state dimenticate da Mantova ebraica, il cui direttore scientifico è Frediano Sessi, e dall’Istituto di storia, la cui direttrice scientifica è Maria Bacchi. Nel giorno della Shoah, distribuiscono un opuscolo («l’infamante libello», nella lingua di Mattellini) su cui Bacchi, Sessi e Fabio Levi analizzano l’accaduto e soprattutto accostano la Voce di Mantova di oggi a quella del periodo delle leggi razziali: stessa testata, e ahinoi toni che si assomigliano in modo imbarazzante. Informato del «libello» Mattellini insorge e sposta il tiro: non se la piglia più tanto con «l’arroganza ebraica», quanto con una sorta di complotto giudaico-comunista per diffamare e zittire un cultore della libertà di pensiero, un fiero e originale nemico dell’abietta, nauseante politically correctness. Come si permettono di accusarlo di antisemitismo, questi intellettuali di sinistra «con gli occhialini rotondi»? Nel frattempo, mentre si discolpa a gran voce e in toni un po’ puerili («Antisemiti noi? Ma statevene zitti!») riesce ancora a scrivere è più forte di lui che «Boccaccio nell’Amorosa visione usa il sintagma “parole ebree” a significare parole false. Ci provino allora i signori Norsa, Colorni e Levi a dimostrare che la parola ebrea è invece parola franca e riconoscano (con l’onestà intellettuale che nego invece per principio all’intellettuale di sinistra) che tutta quella manfrina israeliana della Croce rossa altro non è se non una tirata contro quel particolare simbolo».
Il suo avvocato, Daniele Benedini, spiega che il direttore lui lo considera solo un tipo goliardico, privo di senso della misura ha perso la testa nel vedersi accostato alla Voce di Mantova del 1938. Mattellini non si considera un fascista e un nazista, e in questo ha ragione: il suo giornale la fascistissima Voce di Mantova, chiusa il 21 aprile del 1945, era stata riportata in vita nel 1993 da un gruppo di industriali del posto è assolutamente di destra, pesca lettori tra leghisti e nostalgici, ma ha dato spazio negli anni a voci diverse. Mattellini firma petizioni a favore della messa antica e non sopporta «messe glorificate dalle chitarre grattate da due o tre accordini rantacosi, o matronei frequentati da nonne sbracciate, o i riti partecipati da gente in braghette corte», ma poi prende posizione a favore dei Pacs. È un Feltri dei poveri, con in più un problemino personale di insofferenza intermittente verso gli ebrei.
La sparata del 2 febbraio, finalmente, provoca una reazione collettiva. Il neosindaco diessino Fiorenza Brioni, che pure qualche giorno prima aveva concesso un’intervista alla Voce di Mantova, in controtendenza con l’ostracismo delle giunte precedenti e in un vano tentativo di appeasement, è fuori dalla grazia di Dio: «Prenderemo provvedimenti. Adesso so come regolarmi. Stamattina (sabato 4 febbraio, ndr) sono venuti persino due di Forza Italia a dirmi che si era passato il segno».
In piazza Sordello la redazione è in un magnifico palazzo antico comincia a serpeggiare dell’inquietudine. Inespressa, perché molti dei redattori sono giovani e assunti da poco e pertanto ricattabili: in ogni caso il direttore è stato riconfermato in tempi recentissimi dai 9 soci della cooperativa editrice, la VidiEmme. 100 mila euro di danni li avevano chiesti la Comunità di Mantova e l’Ucei, adesso si suppone arriveranno le richieste delle altre parti offese. E in più la faccenda arriva all’orecchio della direzione della Stampa, che prende coscienza del problema di uscire insieme a un foglio diretto da una mina vagante. Da Torino parte un aut aut: o Mattellini si scusa pubblicamente e poi la pianta, o noi siamo pronti a rompere il patto commerciale, rinunciando a quelle 5 mila copie che vendiamo in provincia di Mantova.
Le scuse arrivano in un editoriale contorto, e non sono per nulla convincenti. La sostanza è sempre identica: io non sono antisemita, sono gli altri che sono dei diffamatori che non capiscono l’ironia (leggi: la pagina in cui lui travestito da nazista affianca i tre con la kippah) e non apprezzano il dardo del libero pensiero. Il 4 febbraio, in calce a una pagina di lettere di solidarietà («La sinistra non mira solo a zittire il suo giornale, ma tutte le voci non orchestrate dai dittatorelli di turno. La grande maggioranza della stampa nazionale è già saldamente nelle loro mani, ne consegue che per loro Lei è una fastidiosa mosca bianca da schiacciare. L’arcipelago gulag è da tempo in disarmo, ma i caporioni della regia sopra descritta, da quella scuola delle frattoc… pardon delle frattaglie sono stati indottrinati e inquadrati…»), Mattellini scrive: «Solo un nazista può accusare di nazismo la libertà. Viene il dubbio che Voltaire abbia scritto per niente il suo Candido…». Sì, in effetti il dubbio è venuto anche a noi. Nel frattempo chiama anche la nostra redazione ha saputo che stiamo facendo un’inchiesta e ci prega di essere cauti, perché «ci sono in ballo dei posti di lavoro». E ribadisce per telefono: macché antisemita, ho sempre fatto scrivere articoli sulla cultura ebraica (vero), ho un sacco di amici ebrei e sono andato molte volte alle cerimonie per la Shoah in sinagoga. Il particolare delle visite in sinagoga, in effetti, se lo ricorda anche Fabio Norsa, presidente della Comunità mantovana: «Anni fa, prima del 1995, era la ricorrenza di Tishà Be Av, stavamo commemorando i mantovani morti nei lager, io stavo leggendo i nomi, quando ho sentito un gran trambusto. Era arrivato Mattellini, che era andato proprio da mia mamma, Bruna Namias, sopravvissuta ad Auschwitz, a dirle “Ma come, signora, lei che è anziana e c’era, crede ancora che queste cose siano successe?”. Insomma, il trambusto è che lo avevano preso di peso e buttato fuori…».
(Si ringrazia per la storia del banchiere il professor Ugo Bazzotti, direttore del museo di Palazzo del Te)
Ringraziamo Diario per la gentile concessione