Un paio di settimane fa ero a Gerusalemme. Da poco è stata aperta al pubblico la Valle delle Gazzelle, un parco naturale intra-urbano, e non ho perso l’occasione per visitarla. Conoscendo le abitudini di questi animali, sapevo che per poter vedere le gazzelle bisogna aspettare il tardo pomeriggio. Sono arrivato verso le 17.00 e sul cartello all’entrata era scritto “Apertura fino alle 19.30”, quindi stavo sereno. Alle 18.15, dopo aver girato il parco in lungo e in largo senza nessun avvistamento, il giovane e unico custode mi dice da lontano che entro mezz’ora avrebbe chiuso il parco.
Gli chiedo come mai così presto ma non capisco la risposta. Un po’ contrariato, riprendo a scrutare fra l’erba alta e finalmente vedo un paio di gazzelle che escono dalla macchia, e poi altre due ancora. Emozionato (chi ha mai sentito di gazzelle che vivono in città?), inizio a fotografarle con il tele-obiettivo in tutte le pose e posizioni immaginabili. Sarei rimasto lì ancora per molto se il custode non fosse tornato, poco dopo, a richiamare verso l’uscita tutti i visitatori (non molti a dire il vero). Parecchie proteste, anche se mi sembra io fossi l’unico realmente interessato a vedere gli animali.
Gli chiedo se solo quel giorno chiudeva prima e mi dice: “Fino a che dura il Ramadan” (ecco qual era la risposta che non avevo capito prima). Poi aggiunge: “O fino a che non trovano un custode ebreo”.
La gente inizia a rumoreggiare. Una coppia dice che è venuta apposta da Tel Aviv e chiede di entrare almeno per un giro rapido. Un altro tizio, appena arrivato, tipico israeliano un po’ ruvido, dice con arroganza al giovane arabo: “La libertà religiosa non mi interessa, non è un problema mio; sul cartello c’è scritto che il parco è aperto fino alle 19.30, io entro”. E si incammina all’interno nonostante le vivaci proteste del custode, il quale dice, implorando: “È da stamani che sono a digiuno, fra un’ora è il tramonto e devo andare via”. Il tizio replica: “Chiama la polizia, vengano loro a tenere aperto”. A quel punto capisco che le cose si complicano. Una signora ebrea, religiosa (a giudicare dall’abbigliamento), dice all’israeliano arrogante: “Ma un po’ di sensibilità!”. Intervengo anche io e gli dico: “Signore, io sono un ebreo religioso e osservante e so cosa significa rispettare le regole della religione, il giovane custode ha diritto ad andare a casa per mangiare”. A quel punto l’israeliano si volta, mi guarda e mi dice: “Mi hai convinto”. Ed esce dal parco senza ulteriori polemiche. Anche io me ne vado, contento per essermi guadagnato la mia mitzvah quotidiana, in senso stretto e in senso lato.
L’altro giorno, in occasione del digiuno del 17 di Tamuz, leggo su Ha’aretz (grazie alla segnalazione di Reuven Ravenna) che il problema è generale. Per la legge israeliana, coloro che digiunano, ebrei e musulmani, hanno diritto nei rispettivi giorni di digiuno ad andare via dal lavoro due ore prima del solito. Solo che la cosa sta suscitando le proteste degli altri lavoratori, non religiosi, che affermano che quelle ore di lavoro mancate sono a spese della collettività. Ecco un non comune caso di solidarietà fra arabi ed ebrei.
*Collegio rabbinico italiano
http://moked.it/blog/2015/07/10/il-ramadan-e-le-gazzelle/