Un tempo le porte degli uffici si dividevano in due categorie: quelle su cui compariva la scritta: “Avanti” e quelle la cui targhetta diceva: “Si prega di farsi annunciare”. Le leggi sulla privacy non sono un’invenzione dell’età contemporanea. Già nella Torah si prescrive che chi si presentava a casa del debitore per effettuare un pignoramento doveva rimanere all’esterno: “sarà lui a portarti fuori il pegno” (Devarim 24,11). La medesima regola vale per il lavoratore che si presenta al datore di lavoro per incassare la sua paga (Sifrè ad loc.). Non si può infrangere la privacy neppure per ottenere ciò che legittimamente ci spetta.
Nelle Parashot del mese appena trascorso abbiamo letto degli abiti del Kohen Gadol. Il suo mantello (me’il) recava ai bordi delle campanelle “affinché se ne udisse il suono ogni volta che entrava nel Santo” (Shemot 28,35). Spiega R. Bachyè che per entrare a casa del Re persino il suo più fido Segretario (il Gran Sacerdote, appunto) aveva l’obbligo di annunciarsi. Tanto più chiunque di noi, anche allorché entriamo a casa nostra. C’era un solo giorno all’anno in cui ciò non accadeva: Yom Kippur, in cui il Kohen Gadol non indossava il me’il e dunque non produceva scampanio. Egli entrava nel Qodesh ha-Qodashim, per così dire, senza permesso.
I nostri Maestri dicono che Kippurim è ke-Purim, “come Purim”. E’ questa certamente, fra le evidenti differenze fra le due date, una delle tante analogie. Nella Meghillat Ester gli eventi vengono decisi in definitiva a favore del popolo ebraico nel momento in cui la regina a sua volta accoglie l’invito di Mordekhay e si risolve a presentarsi al re asher lo kha-ddat, “senza permesso”. Sembra una lode del non-politically correct. Spiegano i nostri Maestri che per sconfiggere il Male non si deve chiedere alcuna autorizzazione: è un dovere e basta. Si può piuttosto ragionare sul fatto che per raggiungere lo scopo ci sono due vie differenti. Anzi tre, ma una non è percorribile.
Il Male può essere sconfitto combattendolo frontalmente, ma non è il caso. Potremmo esserne sconfitti noi e trovare il Male rinforzato anziché battuto. La scelta si riduce perciò a due ulteriori possibilità. O mettiamo il Male da parte, o ci prendiamo gioco di lui. Seguiamo la prima opzione il giorno di Kippur, appunto. Ignoriamo la materia attraverso il digiuno e la rinuncia agli altri piaceri del corpo e ci dedichiamo alla preghiera, che è una funzione della nostra anima. La seconda opzione è quella che ci offre il giorno di Purim: annichilire il Male scherzandoci sopra.
Certo, è un’opzione facile solo in apparenza. La lingua ebraica è ricca di spunti semantici e di analogie. La stessa radice ch.f.s. ha tre significati differenti: “mascherarsi” (tachposset), “mettere allo scoperto, a nudo” (nella sua variante ch.s.f.) ed infine, più comunemente, “cercare”. L’idea di mascherarsi a Purim non è dunque un divertimento fine a se stesso. E’ un coprirsi in modo diverso dal solito per “mettere allo scoperto” qualcos’altro di noi. Potremo arrivare a dire: un “motore di ricerca” nelle pieghe più recondite dell’io. Si combatte il Male deridendolo. L’essenziale è combatterlo, senza però lasciarsi prendere eccessivamente la mano. Semel in anno licet insanire!
“La voce è la voce di Ya’aqov, le mani sono le mani di Esaù” (Bereshit 27,22). Lo Sfat Emet di Gur, un commento chassidico, dice che le due opzioni di cui abbiamo parlato sono rappresentate rispettivamente da Ya’aqov ed Esaù. La preghiera di Yom Kippur è espressione della voce di Ya’aqov, mentre l’esaltazione della materialità che ogni anno compiamo a Purim mangiando e bevendo viene da Esaù. Ma non dobbiamo averne paura, almeno in questa occasione. Haman, di cui ricordiamo la sconfitta, era un discendente di ‘Amaleq, che a sua volta era nipote di Esaù! Possiamo dunque indossare i suoi mentiti panni, come già fece Ya’aqov allo scopo di stornare da lui la benedizione paterna. Senza permesso. Cosa sarebbe successo altrimenti? Non ci resta che dire: Avanti!
Rav Alberto Moshe Somekh