La Torah non è un testo da leggere, ma un’esperienza da vivere. Non una lettura antica, ma una lettura dentro noi stessi. Ogni parashà è uno specchio, ogni parola un battito del cuore ebraico. E oggi, la Torah ci mostra Pinchas, che solleva una lancia e riceve in cambio da D-o un patto eterno di pace. Uno strumento di guerra per la pace? Un paradosso. Uno strumento che trafigge e separa diventa segno di unione e di Shalom? Per capire il testo non bisogna leggerlo, ma ASCOLTARLO. Solo se ascoltiamo con l’orecchio dell’anima, la Torah, OGGI, ci racconta della nostra coscienza più profonda: la pace vera nasce quando lottiamo con noi stessi per la verità, per la purezza, per l’unità con Hashem dentro di noi. Yaakov che si azzuffa con l’angelo di Esav è la lotta tra gli istinti: se ne uscirà con la benedizione del nome di “Yisrael”, cioè, “Yiashar-E-l”, colui che è retto davanti a D.o (E-L).
La lancia di Pinchas non è un’arma sanguinaria ma il simbolo di un atto interiore: il coraggio di colpire, con precisione, il punto in cui il male esiste nel cuore dell’uomo. Zimri e Cozbi , che provocatoriamente interrogano Halachichamente Moshè, prima di peccare pubblicamente, non sono solo figure storiche trasgressive, ma rappresentano le maschere che lo yetzer hara indossa dentro ciascuno di noi quando il desiderio si traveste da idealismo, e la disconnessione, da verità interiore. Pinchas non uccide due persone: trafigge il caos interiore. E lo fa con una lancia chiamata, romach – רמח. Romach ha valore numerico 248, come le membra dell’uomo, come le 248 mitzvot positive, come le 248 parole dello Shemà Yisrael. Una lancia fatta non di metallo, ma di Spirito che diventa “Essere Umano”. Un’arma che non distrugge, ma che rende il corpo strumento di Santità. Per questo Hashem sigilla quell’atto con un Berit Shalom – un patto di pace, perché, quando il corpo e l’anima si unificano nella verità, la pace non è più lontana. Ogni giorno, quando un ebreo chiude gli occhi e recita: “Shema Yisrael Hashem Elokeinu Hashem Echad”, ripete il gesto di Pinchas. Senza alzare la mano. Ma con tutto il suo corpo, con tutte le sue 248 membra.
Lo Shemà è struttura spirituale e materiale: una parola per ogni parte del nostro essere, perché non basta dichiarare l’unità di Hashem. Bisogna viverla, incarnarla, diventare noi stessi “Shemà” vivente. Ecco allora che il comando non è “parla”, ma “Shema” – ascolta. Ascolta con il cuore, con la pelle, con il silenzio. Perché l’anima conosce la verità prima della mente. Il vero Shemà non si dice: si ascolta da dentro, come un’eco eterna che viene da Avraham il cui nome, non a caso, in ghematria fa 248. Nel Ben Ish Chai (Vaerà 1), leggiamo un insegnamento prezioso. Il versetto “Lemachar yihyeh ha-ot hazé” – “Domani ci sarà questo segno” – contiene nelle lettere di machar (anagrammato) le parole lancia (רמח) e grembo (רחם). La lancia… e il grembo. L’arma… e la sorgente della vita. Un gesto che taglia via il male, e al tempo stesso prepara spazio per concepire il bene. Non basta colpire il peccato: bisogna generare futuro. Lo Shemà non solo spezza le forze oscure, ma è anche grembo spirituale da cui nasce il machar, il domani redento. I chachamim insegnano che la Keriat Shemà (in particolare quella prima di addormentarsi) distrugge miriadi di entità negative riportandole in questo mondo come anime rettificate(la kavvanà dello Shemà al Hamittà è legata ai concetti di spada grembo, ma non lo spiegherò ora).
Alcuni siddurim, mostrano uno schema chiamato Tikun HaNefesh, dove i Nomi di Hashem compongono le parti del corpo umano. L’essere umano non è solo immagine di Dio (Betzelem E-lokim ha valore 248). È lettera vivente del Suo Nome. Se scrivessimo il Tetragramma in verticale, vedremmo una struttura simile all’essere umano: La Yud, la Testa; la Hey, le braccia; la Vav, il busto, la Hey finale le gambe. Ogni volta che diciamo lo Shemà, queste lettere si illuminano dentro di noi. Ogni parola è un fuoco. Ogni organo si riaccende. E se a volte arriva la paura, la confusione, la solitudine? La Ghemara ci insegna che: “chi è colto da timore improvviso reciti lo Shemà”. Perché lo Shemà è più di una tefillà: è uno scudo spirituale che risveglia angeli che proteggono e salvano non a caso è scritto in parte anche nella mezuzà. È la voce che ricorda chi siamo, anche quando tutto sembra buio.
Nella storia, quando un bambino veniva rapito, lontano dal popolo e dalla Torah, bastava un sussurro: “Shema Yisrael…” — e l’anima rispondeva. Lo Shemà non si dimentica. È inciso nel corpo e nel sangue, nella memoria delle ossa. Pinchas, è l’angelo Eliahu Hannavi, il profeta che imparò a riconoscere Hashem nella voce sottile e silenziosa (Kol Demamà Dakkà-Melachim 1). Colui che è presente ad ogni BRIT milà (vedi anche Tzipporà con il Brit del figlio e la salvezza di Moshe dalla morte del serpente), vive tra noi, insegna ai chachamim, si incontra nei canti dell’Havdala all’inizio della settimana, e sarà colui che annuncerà la venuta del Mashiach, quando? Quando impareremo ad ASCOLTARE.
Shabbat Shalom e Buon Ascolto!