Un volume con spunti ferraresi dedicato al grande filosofo e pensatore famoso per la sua memoria e la mostruosa cultura
Micaela Torboli
Nel 1961 la Walt Disney presentò il nuovo personaggio di Paperopoli, un coltissimo immigrato austriaco, zio di Paperino, ispirato dalla figura di un famoso economista di cui riecheggiava nome e cognome: per l’Italia, dovendo far capire a tutti e subito che si trattava di uno straordinario genialoide, il bizzarro pennuto venne ribattezzato professor Pico de Paperis. Pico, come Giovanni Pico della Mirandola, conte di Concordia (1463-1494), filosofo e pensatore noto anche ai sassi per la sua proverbiale memoria e la cultura mostruosa.
A Pico è dedicato un libro di Giulio Busi e Raphael Ebgi, appena uscito presso Einaudi, . Giovanni Pico della Mirandola. Mito, magia, qabbalah, un testo paragonabile ad una piccola enciclopedia pichiana, però di taglio insolito e perfettamente in linea con le caratteristiche eccentriche del pensiero del suo protagonista. Busi insegna Cultura ebraica alla Freie Universität di Berlino ed Ebgi è ricercatore presso il medesimo ateneo, ma sono entrambi emiliano-romagnoli. Busi ed Ebgi, nella loro nuova fatica, si concentrano su alcuni punti focali della filosofia pichiana. Duro campo di battaglia.
Perché con gli scritti di Pico mito e magia giungono al loro esito più labirintico, e, per quanto riguarda la qabbalah, ben pochi sanno cosa sia esattamente, così che renderla chiara in modo accessibile non è agevole. Ricordo un pomeriggio di qualche anno fa, in Castello parlava Moni Ovadia. Una signora del pubblico, forse interessata all’argomento qabbalah perché in quel periodo la cantante Madonna dichiarava con frivolezza di esserne affascinata, chiese ad Ovadia di spiegare brevemente in cosa essa consistesse.
Lui diede una risposta sferzante: se dovessi anche solo far capire assai in modo superficiale cosa sia la qabbalah, disse, non basterebbero molti mesi di tempo per farlo, altro che qualche minuto come chiede lei, mi creda. Senza radicalizzare, un buon inizio per avvicinarsi alla qabbalah, che il vocabolario definisce “complesso delle dottrine esoteriche e mistiche dell’ebraismo”, è prendere in mano il libro di Busi ed Ebgi.
Pico, convinto di avere una missione civilizzatrice da svolgere, fece uno sforzo disumano per aprire ai volonterosi i misteri qabbalistici che gli ebrei tenevano custoditi come preziosi segreti, per poi adattarli al mondo cristiano. Obiettivo solo in parte riuscito, per gli ostacoli connaturati ad esso come l’ignoranza generale della difficile lingua ebraica, da Pico medesimo appresa a malapena, e anche per l’ostilità di papa Innocenzo VIII dalla quale il conte dovette difendersi con le unghie e con i denti. Busi ed Ebgi spiegano l’ostica materia alternandosi, scrivendo in modo impeccabile nella tecnica ma insieme (e questo sorprende data l’atmosfera rarefatta) accattivante, vivace e affatto rigido o accademico. Per far comprendere la nuova mistica del mirandolano, ad esempio, Busi la definisce figlia di un tentativo di meticciato tra vari concetti, con «un irresistibile fascino da creola» (p.304). Ai ferraresi interesserà il ruolo della capitale estense, dove Pico era di casa, nella sua vita e nell’opera.
Scorrendo l’indice analitico, tanti sono i nomi noti di concittadini o di sudditi estensi che conobbero o influenzarono Pico. A partire da suo cugino, Matteo Maria Boiardo, poi la famiglia ducale, gli ebrei Mordekay ed Avraham Farissol, l’immancabile Pellegrino Prisciani, Girolamo Savonarola ed altri. Manca nell’elenco, e dispiace, Battista Guarini. Figlio del grande educatore Guarino da Verona del quale proseguì la scuola, Battista, poco e male studiato finora, fu «stimato molto da quel gran Pico Mirandolano, che per l’unico suo ingegno, e singolare dottrina venne detto la Fenice, il quale non isdegnò di chiamare questo con il nome di Maestro» (Guarini 1621, p.177).
Pico attinse a piene mani alle sofisticate risorse intellettuali di Battista, soprattutto per quanto riguardava le dottrine pitagoriche nelle quali Guarini era esperto al pari, e forse più, dei dotti fiorentini (già suo padre venne paragonato a Pitagora nell’orazione funebre composta da Ludovico Carbone per il decesso del Veronese, 1460) che vengono spesso citati come i veri maestri di Pico, trascurando ingiustamente Battista.
Sul versante della storia dell’arte, numerosi sono gli approfondimenti del libro di Busi ed Ebgi sugli interessi artistici pichiani, ed in specie è gustoso il capitolo «Pico visivo», firmato da Busi.
Quasi ogni voce trattata come singola cellula di significato (Amore-occhi, Le Muse, Paradiso, Saturno ecc.) ricade direttamente nel campo dell’iconologia ed è funzionale all’interpretazione di molti dipinti rinascimentali. Pico non fu un mecenate, ma la sua opera stessa parla per immagini. Tra i capolavori che Busi segnala in relazione al mondo pichiano, spicca la sfolgorante Madonna con il Bambino ed angeli musicanti di Cosmè Tura, già cuore della smembrata Pala Roverella eseguita per la chiesa ferrarese di San Giorgio nel 1474, e ora di proprietà della National Gallery di Londra. Il trono della Vergine è ornato da elaborate Tavole della Legge mosaiche, con il decalogo sciorinato in corretti caratteri ebraici incisi nella pietra e non rilevati, “in accordo con il dettato scritturale”. Alcuni segni espressivi di questo “esotismo” si riscontrano in altri manufatti ferraresi, come il sarcofago di Prisciano Prisciani (1473), il cui figlio Pellegrino viene ritenuto l’inventore dei temi pagani del ciclo di Schifanoia, ed il sarcofago paterno, di intonazione antiquaria e con dedica al dio Mercurio, è uno dei più interessanti prodotti del Quattrocento estense.
Fu salvato nel 2000, quando lo si tolse dalla Certosa dove serviva da fioriera, con tanto di foro praticato per scaricare l’acqua in eccesso delle annaffiature. Oggi fa bella mostra di sé proprio a Palazzo Schifanoia. Quanto a Schifanoia, non posso credere che non sia alla base dell’immaginario pichiano il terzetto delle Grazie che compare nel Mese di Aprile ed è tanto simile allo stesso tema prescelto da Pico per il retro della sua medaglia personale, opera di Niccolò Spinelli e che reca al dritto il solo ritratto certo di Pico.
Si preferisce cercare in qualche raro oggetto antico questo spunto figurativo, quando invece Pico poteva ammirare e far copiare le Grazie estensi con la massima facilità. Bellezza, amore e piacere: questo si legge sulla programmatica medaglia di Pico. Desiderabili doni, ma fugaci, mentre la filosofia resta, e consola.