Nel sabato di Chol Hamo’èd di Pèsach si usa leggere nel bet ha-kenèsset il Cantico dei Cantici (Shir Ha-Shirìm) composto da re Shelomò. A Shavu’òt si legge la meghillà di Rut e a Sukkòt si legge l’Ecclesiaste (Kohèlet), anch’esso composto da re Shelomò. Pèsach è la festa della liberazione dall’Egitto e dello “sposalizio” tra il Creatore e il popolo d’Israele; il Cantico dei Cantici che si legge a Pèsach è un’allegoria di questo amore tra l’Eterno e Israele.
A Shavu’òt, quando Israele ricevette la Torà dal monte Sinai e gli israeliti divennero per così dire proseliti, si legge la meghillà di Rut, la proselita per eccellenza, dalla cui storia i maestri derivano le regole per chi vuole diventare ebreo.
Sukkòt è la festa finale dell’anno quando è terminata la stagione del raccolto. Nella Torà è scritto “Per sette giorni farai festa in onore dell’Eterno tuo Dio, nel luogo che l’Eterno sceglierà, perché ti benedirà l’Eterno nei tuoi prodotti dei campi e in tutte le tue azioni e sarai quindi completamente felice (Devarìm, 16:15).
Eliora Katz, in un articolo di spalla sul Wall Street Journal del 27 settembre 2018, osservò che era strano che proprio in questa occasione felice si legga Kohèlet che inizia con le parole: “Caducità delle caducità (havèl havalìm), tutto è caduco”. In effetti la parola “hèvel” significa letteralmente il fiato che esce dalla bocca e che se ne va in un attimo. È così che vogliamo festeggiare la festa per eccellenza? Eliora Katz scrive che a Sukkòt riconosciamo la transitorietà del mondo fisico abitando per sette giorni nella Sukkà (capanna) che è un’abitazione provvisoria. E questo serve a rendersi conto che non dobbiamo essere troppo legati alle cose materiali.
Rav Jonathan Sacks (Londra, 1948-2020) fa notare un altro aspetto di Kohèlet. Pochi hanno esplorato più profondamente dell’autore di Kohèlet la morte e l’ombra tragica che getta sulla vita (3:19-20): “Il destino dell’uomo è come quello degli animali; lo stesso destino li attende entrambi, la morte dell’uno è come la morte dell’altro, i loro spiriti sono gli stessi, e la preminenza dell’uomo sulla bestia non è nulla, perché è tutto respiro superficiale. Tutti finiscono nello stesso posto; tutti escono dalla polvere e tutti tornano alla polvere”. La consapevolezza di essere morituri priva Kohèlet di ogni senso del significato della vita. Non abbiamo idea di cosa accadrà, dopo la nostra morte, a ciò che abbiamo realizzato nella vita. La morte si fa beffe della virtù: l’eroe può morire giovane mentre il codardo vive fino alla vecchiaia. E il lutto è tragico in un modo diverso. Perdere coloro che amiamo è avere il tessuto della nostra vita lacerato, forse irrimediabilmente. La morte contamina nel senso più semplice e crudo: la mortalità apre un abisso tra noi e l’eternità di Dio.
Questo messaggio non è esclusivo di Kohèlet. Già i maestri facevano notare che prima di addormentarsi si legge il versetto che dice: “Trepidate e non commettete peccati, pensateci in cuor vostro sul vostro giaciglio e v’acquetate” (Tehillìm, 4:5). Nel Talmud i maestri insegnano che un uomo dovrebbe sempre incitare l’impulso del bene a combattere contro l’impulso del male perché è scritto: trema e non peccare. Se non ci riesce, ricordi il giorno della morte (Berakhòt, 5a).
Rashì (Troyes, 1040-1105) spiega che la parola “v’acquetate” (dòmu in ebraico) ricorda il giorno della morte che è la quiete, il riposo eterno.
R. David Abudrahm (Spagna, XIV secolo) scrisse che il re Shelomò lesse di proposito per la prima volta Kohèlet a Sukkòt, proprio perché era la grande festa a conclusione dell’anno, allo scopo di evitare che troppa felicità portasse a eccessi.