Ancor prima che vengano pubblicati i risultati, il sondaggio milanese sulla scuola ebraica pone seri quesiti sulla sua effettiva utilità.
David Piazza
Il 6 dicembre nelle caselle email di molti ebrei milanesi, è arrivato il bizzarro invito a compilare nuovamente il lunghissimo questionario sulla Scuola ebraica già inviato elettronicamente nelle scorse settimane. Nel testo si faceva notare che nonostante il “successo” di 250 risposte (su 4.000 inviti), ci si è accorti che “alcune persone hanno risposto più volte al questionario e questo ha inciso sui risultati”. Ohibò. Di qui l’invito a ri-compilarlo aggiungendo anche un indirizzo email “esclusivamente per evitare risposte multiple”. Fortuna che nel primo invito si sottolineava l’assoluto anonimato della compilazione e dimenticando anche che è raro trovare oramai utenti internet che ne abbiamo meno di tre a testa, per tutta una serie ragioni pratiche.
A partire dal tragico fallimento del primo vero sondaggio che il popolo ebraico abbia mai conosciuto, quello dei 12 esploratori, e conclusosi con 40 anni di passeggiate nel deserto, questa tecnica di consultazione su questioni cruciali, raramente ha dato risultati utili.
Anche dal punto di vista strettamente aziendale-commerciale, il recentemente scomparso Ceo di Apple, Steve Jobs amava citare l’inventore del trasporto personale di massa, Henri Ford, che sosteneva che se avesse interrogato i suoi futuri clienti circa i loro bisogni, probabilmente avrebbero risposto: “Una carrozza con 4 cavalli”. Jobs infatti aborriva l’utilizzo dei focus-group, cioè i gruppi sperimentali di consumatori, perché li riteneva sostanzialmente incapaci di poter giudicare dei prodotti veramente innovativi. Eppure Steve Jobs è riuscito a rivoluzionare cosettine tipo i mercati della musica, della telefonia mobile e del personal computing…
Ma per ritornare nella piccola Milano, quali potrebbero essere i veri limiti della costosa e ambiziosa operazione del sondaggio?
A parte la sua estenuante estensione, maggiore addirittura del Censimento Istat 2011, hanno forse negativamente pesato la fiducia nel mezzo tecnologico, che tagliava fuori tutti gli utenti non-digitali, e la sua assoluta anonimità, che invece di rassicurare, avrebbe dovuto essere una grande fonte di preoccupazione.
Per esempio, la newsletter della Comunità di Milano, che viene ricevuta anche da molti non iscritti, è stato uno dei mezzi (sempre elettronici) tramite i quali si poteva accedere al sondaggio. In teoria non ci sarebbe potuto stupire se i risultati avessero chiesto, che ne so, l’introduzione dell’insegnamento obbligatorio della Storia dell’Islam o l’abolizione del Disegno Tecnico, terrore della Scuola ebraica milanese. Per non parlare di cose molto più serie, al centro del vero dibattito sulla scuola, come l’insegnamento delle materie ebraiche.
Purtroppo, come dimostra anche il triste precedente milanese dell’indagine Finzi, abortita nel lontano 2003 tra mille polemiche, la Comunità avrebbe certamente bisogno di conoscersi meglio e a questo potrebbe per esempio contribuire notevolmente un’informazione comunitaria che si occupi non solo di questioni nobili, ma lontane, ma che invece cerchi attivamente e dia vera voce a tutti i componenti della sua composita base.
Dovrebbe invece essere compito della leadership quello di sapere e intuire (meglio degli iscritti) quali siano di volta in volta le soluzioni capaci di assicurare non solo la continuità delle istituzioni comunitarie, ma anche la loro crescita. Di numeri e di contenuti.
Essere ebrei è difficile, essere buoni leader è quasi impossibile, ma bisognerebbe forse guardare un po’ più a quello che si vorrebbe essere, guadagnandosi apertamente il consenso, e un po’ meno a quello che, inevitabilmente, siamo oggi.