Da 2000 anni i rabbini duellano su Israele, da due sul ritiro di Sharon. Il leader spirituale dello Shas annuncia la morte del premier. Smentite, polemiche. Liti sulla sacralità di “Terra” e “Territori”
Dan Segre
Milano. Ovadia Yossef, il più influente rabbino sefardita d’Israele, avrebbe annunciato la morte del “diavolo” Ariel Sharon e del suo piano di disimpegno. Sono seguite la richiesta laburista di un’inchiesta e le smentite dell’entourage del rabbino, ma la decisione del primo ministro di ritiro unilaterale da alcuni territori non solo ha spaccato il governo e lo stesso partito del premier, il Likud, rappresenta anche un problema su cui i rabbini discutono da tempo.
Lo stesso ritorno in Israele è stato oggetto di riflessione. A differenza che nella politica, quando si entra nelle dispute sull’Halachà, la legge rabbinica, ci si accorge che non vi sono contrapposizioni nette di schieramenti, ma che ciascuno tiene conto delle opinioni altrui, anche quando sono espresse in luoghi e tempi diversi. S’intreccia così un dialogo che attraversa i secoli. Distrutto il Tempio di Gerusalemme e dispersi nella Diaspora, gli ebrei hanno coltivato un caleidoscopio di sentimenti verso la Terra di Israele. Nel Talmud si riconosce un grande merito all’ebreo che anche solo passeggi in Israele. Per il Maharam di Rottemburg (XIV secolo) andare in un luogo sacro necessita cautela, “non si può sfidare il Re nel proprio palazzo”. Alcuni sottolineano più la santità della terra, altri vi vedono più il luogo dove fondare concretamente lo Stato. Ma dopo duemila anni in esilio, passati a pregare tutti i giorni rivolti verso Gerusalemme, gli ebrei come sarebbero dovuti tornare? Nessuno sostiene esplicitamente l’uso della violenza, sebbene tutti riconoscano il diritto a difendersi. Ramban (XIII secolo) afferma che risiedere in Erez Israel è un precetto. Israele andrebbe dunque conquistata e sembrerebbe quindi ammesso l’uso della forza. Eppure in molti ricordano il limite posto dal Talmud nel trattato di Qetubot. Per “i giuramenti” non si sarebbe tornati in Israele “superando le mura”, con violenza. Per Izhak de Leon, per questo motivo, Maimonide non inserisce il risiedere in Israele tra i 613 precetti. Per alcuni, i giuramenti sarebbero tuttavia superati per la loro particolare formulazione. Rabbi Simcha haCohen di Dvinsk e altri commentatori evitano l’ostacolo grazie alla presenza dei trattati internazionali. Per questo, grande eco hanno avuto nel pensiero rabbinico la dichiarazione Balfour del 1917 e le successive risoluzioni dell’Onu.
Se non è facile per gli ebrei decidere di riottenere Israele, non lo è nemmeno cedere parte della Terra. Per alcuni è necessario farlo quando serve a evitare un pericolo per la vita umana e il terrorismo lo è certamente. Ma qual è il limite, domandano i rabbini che vivono nei Territori. Se si cede Gerico perché ci si dovrebbe ostinare a combattere per Tel Aviv, perché, si chiedeva Shaul Yasraeli, non consegnare tutto? Fino a quindici anni fa proprio Ovadia Yossef sosteneva che ci fosse una differenza tra zone davvero conquistate, e quindi di sicura proprietà, e altre che non lo sarebbero ancora. I Territori su cui sarà costituito lo Stato palestinese ora rappresentano zone di confine per Israele e secondo la Mishnà queste andrebbero meglio difese, perché è da lì che arriva il pericolo di essere conquistati. Yossef interpretava differentemente e attribuiva maggior peso agli esperti militari per decidere il livello del rischio implicito alla rinuncia ad alcune zone. Oggi forse ha cambiato idea.
Sostiene Dan Segre
La complessità della questione spiega anche alcuni paradossi della politica israeliana. L’attuale governo ha l’appoggio di un partito religioso antisionista come Hagudath Israel. Uno dei suoi fondatori, rav Shach, era critico sull’amministrazione israeliana dei territori per l’atteggiamento che avrebbe provocato nel popolo ebraico. Provava quasi fastidio per gli abitanti degli insediamenti che gli ricordavano la frase biblica “la mia forza mi ha portato a questo” e Yeshayahu Leibowitz aveva preoccupazioni analoghe. Dispute che non riguardano solo i rabbini, che “non sono sacerdoti e nessun rabbino può negare le opinioni di un altro. Le parole di Ovadia Yossef lascerebbero il tempo che trovano se non mostrassero come nella democrazia israeliana alcuni partiti, come lo Shas, seguano persone che nessuno ha votato ed eletto”, dice al Foglio Dan Segre.
Persino Ehud Barak – il premier che nel 2000 propose un piano ma da Arafat ottenne il terrore – disse di sentirsi più vicino a rav Perez, residente nei Territori, che non a quelli favorevoli a concessioni territoriali per indifferenza verso la Terra. A unire il rabbino e il laico Barak era la convinzione della sacralità di ogni pietra di Israele. Così è per Sharon, pronto a dolorose concessioni.
Il Foglio (10/03/2005) – Grazie a Dany per la segnalazione