Il Rabbino capo di Roma risponde ai beceri stereotipi antisemiti contenuti nel dialogo tra il direttore di Repubblica Eugenio Scalfari e il Papa. Nel suo delirio di onnipotenza e facendo del pessimo giornalismo Scalfari pubblica l’intervento di rav Di Segni solo oggi a fianco di una sua replica. Attendiamo con ansia nei prossimi numeri di Repubblica il “dotto” dialogo col Dalai Lama
Capita sempre più spesso di incontrare delegazioni ebraiche da tutto il mondo che vengono a Roma per incontrare il papa. C’è una tale presenza di visitatori ebrei in Vaticano che qualche volta penso ironicamente che bisognerebbe anche lì aprire una sinagoga. È anche questo un segno del nuovo clima creato da papa Francesco. Non che prima non ci fossero visite e dialogo con gli ebrei; ma ora si aggiungono altri dati: l’esperienza personale di Bergoglio come amico e collaboratore di alcuni rabbini argentini, il suo carattere e un approccio dottrinale che sembra più aperto. È ancora presto per dire dove questo porterà, ma c’è da parte ebraica ottimismo sul piano teologico, mentre su quello politico (i rapporti con Israele) è tutto da vedere.
In generale le aperture di Francesco, il messaggio pastorale e umano, la carica personale di simpatia e modestia, la volontà riformatrice di strutture considerate invecchiate hanno suscitato approvazione anche entusiastica nel mondo dei fedeli cattolici e fuori da questo. Le chiese si riempiono e i cosiddetti “non credenti” osservano ammirati. Per un osservatore esterno, come può essere un ebreo, sarebbe inopportuno commentare questi fatti occupandosi di affari interni della Chiesa, se nonper quanto riguarda i suoi rapporti con l’ebraismo; ma la rivoluzione di Francesco non si limita al suo mondo, propone questioni universali che investono altre realtà e per questo merita attenzione.
Un esempio importante di questo impatto è il dialogo che si è sviluppato nelle pagine di Repubblicatra il papa e Eugenio Scalfari al quale sono stati dedicati ripetuti e lunghi articoli. Scalfari è affascinato dalla disponibilità dialogica di Francesco, ne espone e commenta le posizioni che considera eccezionali ed innovative, in particolare sul tema del peccato. Per chi legge dall’esterno questa discussione, a parte le perplessità su una corretta interpretazione – espresse anche da portavoce vaticani – rimane qualche dubbio sull’essenza del problema. Sull’immagine proposta di una Chiesa povera, sulla volontà del papa di lotta alla corruzione, sul suo richiamo all’onestà non ci sono dubbi. Ma cosa c’è di sostanza nella sua apertura al tema del peccato?
Perché, per fare degli esempi, un conto è dire che c’è accoglienza per i divorziati, un altro riconoscere il divorzio; un conto è esaltare il ruolo della donna, un altro ammetterla al sacerdozio; un conto è essere comprensivi dell’omosessualità, un altro riconoscere legalmente le unioni. Sono problemi del mondo cattolico, ma anche il mondo ebraico ha i suoi analoghi problemi conflittuali con le durezze del sistema. Certamente l’approccio comprensivo e l’atteggiamento di apertura diminuiscono le tensioni e sveleniscono l’atmosfera ma non risolvono i problemi dottrinali alla radice.
La tradizione ebraica fornisce uno schema interpretativo forte e seducente per questo tipo di tensioni. Cominciando dal piano divino, si ammette che esistano due qualità o attributi contrapposti: da una parte la giustizia, la severità e il rigore, dall’altra l’amore e la misericordia. Il primo progetto creativo del mondo, dicono i rabbini, era basato sulla giustizia, ma vedendo che il mondo non avrebbe potuto resistere, il Creatore optò per il piano “b”, quello della misericordia unita alla giustizia. Per gli esseri umani, per le loro strutture organizzate, per i loro leader, vale la stessa contrapposizione. Con una precisa consapevolezza: che nessuna delle due qualità regge da sola, non c’è giustizia senza misericordia, non c’è misericordia senza giustizia.
Guardando alle vicende vaticane recenti e al loro impatto universale verrebbe la tentazione di applicare queste due categorie ai due pontefici coesistenti; il primo sembra abbia incarnato l’anima dottrinale e il secondo quella dell’amore. Ma si tratta di una lettura superficiale e rischiosa, ingiusta e limitativa per i due protagonisti. Il fatto è che nel fenomeno religioso, così come viene vissuto nella nostra epoca, le grandi masse cercano prima di tutto accoglienza, inclusione, protezione e comprensione, mentre la fede e la dottrina vengono dopo.
La personalità di Francesco risponde alla richiesta e richiama le folle, ma sarebbe fuorviante pensare che dietro al suo amore non vi sia la giustizia e la dottrina. È per questo che gli entusiasmi di credenti e “non credenti” andrebbero un po’ smorzati. Per inciso, sarebbe meglio evitare l’espressione “non credenti” senza specificare in che cosa non si crede; altrimenti il parametro della fede diventa la verità cattolica e chi non l’accetta viene inserito in un grigio limbo, quali che siano le sue convinzioni filosofiche o religiose. In questa opposizione di simboli o sistemi e nella rappresentazione idealizzata e schematizzata del nuovo corso, a farci in qualche modo le spese è stato l’ebraismo.
Perché l’opposizione tra giustizia e amore, in cui Francesco rappresenta l’amore richiamandosi al messaggio originale di Gesù contro le incrostazioni dottrinali e di apparato, diventa il segno della rivoluzione cristiana permanente. Contro chi? Semplice, contro il Dio degli ebrei, dell’Antico Testamento, quello severo e vendicativo. Nessun teologo serio dei nostri giorni – a cominciare dai due papi di oggi – prenderebbe sul serio questa antica opposizione, che fu una delle bandiere dell’antigiudaismo cristiano per secoli. Questa dottrina ha un nome preciso, marcionismo, dall’eretico Marcione che ne fece uno dei cardini del suo insegnamento. Marcione fu condannato dalla Chiesa, ma l’opposizione da lui drammatizzata tra due divinità fu recepita e trasmessa dalla Chiesa, che solo da pochi decenni se ne distacca ufficialmente, riconoscendola non solo come errore, ma anche come strumento illecito di predicazione di antagonismo e di odio.
Il Dio della Bibbia ebraica (per non parlare di quello della tradizione rabbinica) è giustizia e amore, come possono attestare numerose fonti che non c’è spazio qui per citare. È il Dio misericordioso (Es. 34: 6) che perdona chi non ha obbedito alla sua legge. Nulla avrebbe senso nell’ebraismo senza il perdono. E l’esortazione “ama il tuo prossimo come te stesso” è anche evangelica ma viene dalla legge mosaica, Levitico 19: 18. Che poi Gesù di Nazareth sia solo amore e non giustizia, in una melensa rappresentazione di comodo buonismo imperante, è tutto da dimostrare. Ribadire questi concetti in questa sede sembrerebbe fuori luogo e senza senso, ma è proprio in questa sede che le vecchie teorie, banale luogo comune, sono state rispolverate e riproposte per spiegare l’essenza della rivoluzione di Francesco. Che evidentemente non in questo consiste. Ed è paradossale che proprio mentre si cerca di cogliere il buono di una novità, ad incarnare il vecchio e il negativo ci sia l’ebraismo, che invece dovrebbe essere, per la ricchezza della sua tradizione, un compagno ideale dei nuovi percorsi.
http://www.repubblica.it/cultura/2014/03/07/news/di_segni_a_scalfari-80405458/