Con la Parashà di Vayechi si conclude la lettura del libro di Bereshit. Dalla benedizione del patriarca che dà il nome al popolo ebraico (Yaakov-Israel), impariamo forse qualcosa di utile anche per le nostre Comunità.
Rav Dovid Gottlieb – Yeshiva University
Quando Yaakov Avinu si accorge che la sua fine è prossima, chiama i suoi figli al suo capezzale e così li istruisce: “he’asfu ve’agidah la’chem et asher yikra etchem be’acharit ha-yamim,” adunatevi che io voglio annunziarvi cosa vi avverrà “negli ultimi giorni”. Yaakov ripete quindi il suo messaggio, “hi’kavtzu ve’shimu be’nei Ya’akov,” riunitevi e prestate ascolto figli di Ya’akov (Genesi 49, 1-2).
Il Midrash si interroga dall’apparente ridondanza dell’invito di Yaakov. Dopo tutto prima lui dice “he’asfu,” e, immediatamente dopo, ripete “hi’kavtzu,” ed entrambe le espressioni significano sostanzialmente la stessa cosa, riunitevi o adunatevi. Il Midrash presume dunque che nell’invito di Yaakov sia incluso un ulteriore e più profondo messaggio. Fra le varie proposte, l’opinione finale citata dal Midrash è che “tzivah otan al ha-machloket,” ovvero che Yaakov intenda insegnare ai figli a evitare machloket, lotte fraterne inutili e amare, ricordando loro “kulchon asifah achat,” dovete costituire un unico gruppo.
Non è un segreto – e certamente non lo era per Yaakov – che le relazioni fra i fratelli erano spesso state tese, per dirla in maniera delicata. Ora, poco prima della sua morte, Yaakov li convoca tutti insieme e parla loro come un padre amorevole: per favore, kinderlach, [“ragazzi” in yiddish] non litigate più, restate insieme, restate uniti. Ovviamente Yaakov non parlava allora solamente come un padre, e non si rivolgeva solamente ai suoi figli; parlava anche come progenitore di tutte le generazioni future, e il suo messaggio aveva un valore eterno: evitate l’autodistruzione che è inevitabilmente generata da machloket.
Eppure, una volta stabilito lo sfondo e capito il perché Yaakov avesse convocato i suoi ragazzi al capezzale, il contenuto di ciò che lui dice loro, la sua benedizione vera e propria, sembra andare contro a questo scopo. Se la sua meta era aumentare la achdut (unità) e far decrescere l’ostilità reciproca, non sarebbe stato più sensato impartire la stessa benedizione a tutti i figli, o forse dare una berachà a tutti in quanto gruppo? E invece Yaakov non solo impartisce a ognuno una benedizione diversa, ma alcuni ottengono berachot che sembrano essere migliori, più piene di lodi di quelle di altri.
Piuttosto che ispirare armonia e amore fraterno, sembra che le benedizioni possano ingenerare gelosia e inimicizia. Perché Yaakov lo ha fatto, e come ciò può avvicinare allo scopo di “tzivah otan al ha-machloket?”
HaRav Aharon Lichtenstein suggerisce che forse la risposta a questa domanda si può trovare nella “dichiarazione finale” fatta da Yaakov al termine di tutte le benedizioni e riportata dalla Torà: “Va’yivarech otam,” e li benedisse, “ish asher ke’virchato berach otam,” benedicendo ognuno con la sua propria benedizione” (Genesi 49, 28) Anche questo pasuk è però poco chiaro, non solo nella sua ridondanza, ma anche nel suo oscillare fra il plurale, “otam,” e il singolare, “ke’virchato”.
Lo Ohr Ha-Chayim spiega che la frase “ognuno con la sua propria benedizione” significa “ha’rauy lo ke’fi be’chinat nishmato u-kefi ma’asav,” che le berachot erano perfettamente calibrate e adatte alle caratteristiche più intime del destinatario, ai suoi irripetibili talenti e attitudini. Egli spiega che Yaakov non ha dato la stessa beracha a tutti i suoi figli perché la vera benedizione è quella che rende possibile a una persona di realizzare il suo particolare talento. Per definizione dunque, tutti i figli dovevano ricevere differenti berachot, ognuna di essa adatta alle rispettive personalità.
Nonostante l’approccio altamente individualizzato di Yaakov nei confronti delle benedizioni, il verso si conclude comunque con “berach otam,” al plurale, per evidenziare la mutua interdipendenza delle benedizioni e l’unità di intenzione che trova forma nelle berachot intese come un tutto. Lo Ohr Ha-Chayim spiega che, poiché i fratelli sono guidati da uno scopo comune – fanno parte della stessa “squadra” – quando uno di loro ha successo è l’intera famiglia a trarne beneficio. Ognuno dei fratelli ha un’area in cui è più abile e il popolo ebraico ha bisogno del talento collettivo di tutti gli Shevatim. Il maggiore successo per il gruppo nel suo insieme arriva quando ognuna delle parti che lo costituisce riscuote successo nella sua specifica area di interesse.
Alla luce della spiegazione dello Ohr Ha-Chayim, R. Lichtenstein spiega che possiamo avere una più profonda comprensione della achdut che Yaakov tentava di ottenere riunendo tutti i fratelli insieme. Yaakov ha dato loro berachot differenti perché lui ne riconosceva – e ne accettava – le differenze. La achdut dei fratelli non era l’unanimità, ma piuttosto una diversità di personalità con uno scopo unitario. Essa si trova là dove le parti distinte lavorano insieme per il bene comune, ognuna contribuendo con qualcosa di unico, e non nel semplice duplicare il contributo degli altri.
La benedizione finale di Yaakov ai suoi figli ha costituito un messaggio difficile da accettare per i suoi discendenti, un messaggio forse ambiguo. Ma per quanto ciò sia difficile è comunque importante che noi non cessiamo di lottare per raggiungere lo scopo che essa ci indica. Se riusciamo veramente a interiorizzare il fatto che siamo “kulchon asifah achat,” possiamo cominciare ad apprezzare – e a non demonizzare – le differenze di ognuno; diventeremo così noi stessi degni eredi di tutte le berachot di Yaakov.
Traduzione di Laura Mince – Dalla pagina Facebook del Tempio Bet Michael di via Fonteiana a Roma