Nel pensiero dei nostri Maestri le generazioni non sono solo un concetto storico-temporale: sono soprattutto un concetto etico. Il profeta Yesha’yahu (41,4) chiama il S.B. qorè ha-dorot me-rosh, “colui che chiama le generazioni dall’inizio”. I Maestri della Mishnah evincono da questo versetto che non sempre la ricompensa dei padri viene pagata subito: talvolta la si ritrova solo nei discendenti persino alcune generazioni più avanti, nel numero che il S.B. stabilisce (‘Eduyyot 2,9 e Bertinoro ad loc.). D. mostrò al primo uomo tutte le generazioni a venire con i rispettivi leaders (dor dor we-doreshaw) e Adam poté compiacersi anzitempo della grandezza di R. ‘Aqivà nella conoscenza della Torah e a un tempo rattristarsi del suo martirio a opera dei Romani (Sanhedrin 38b; cfr. cfr. Shemot Rabbà 40,1).
Nel commento chassidico di R. Elimelekh di Lizensk (1717-1787 – No’am Elimelekh) alla Parashah odierna troviamo affermato che ogni generazione ha una particolare trasgressione da correggere: deve saperla individuare e concentrare il proprio cammino sulla sua riparazione. Dobbiamo presumere che solo una volta completato il cammino correttivo di tutte le generazioni potrà aver luogo la redenzione finale.
Viva è la discussione nel Talmud sul rapporto fra i leaders e le rispettive generazioni. R. Yehudah Nessià e i Chakhamim dibattono se è il livello di ogni generazione a conformarsi al suo leader (dor le-fi parnàs) o se viceversa è il livello del leader proporzionato a quello della sua generazione (parnàs le-fi dorò – ‘Arakhin 17a). Di più. Vi è un principio di ‘arevut, per cui ciascuno è responsabile per l’altro. Su questa base c’è chi sostiene che “se nella generazione vi sono dei giusti, sono questi a soccombere per le trasgressioni dell’intera generazione” (Shabbat 33b). Si afferma d’altronde che alcuni grandi Maestri come Hillel avrebbero potuto conseguire lo stesso livello profetico di Moshe Rabbenu se solo la loro generazione l’avesse meritato (Sanhedrin 11a)! Nello stesso tempo ciascuna generazione è chiamata ad accontentarsi dei propri leaders e non rimpiangere quelli delle generazioni passate, ancorché più validi: Yiftach be-dorò ki-Shmuel be-dorò: benché di Shemuel si dicesse che valeva quanto Moshe e Aharon messi assieme, “Yiftach era nella propria generazione esattamente quello che il grande Shemuel era nella sua” (Rosh ha-Shanah 25b sulla base di Tehillim 99,6; Rashì a Devarim 19,17). Mi risulta peraltro esserci un solo leader, un solo giusto nella Torah che viene messo in relazione non con una sola generazione, bensì con più generazioni: Noach. Di lui è scritto infatti: ish tzaddiq tamim hayah be-dorotaw (“Noach era giusto, integro nelle sue generazioni” – Bereshit 6,9) e non be-dorò. La domanda è: perché? Che cosa ci insegna questo dettaglio testuale?
Una prima spiegazione è che Noach visse il destino di due generazioni: quella del diluvio e quella della ricostruzione dopo il diluvio. Ciascuna generazione richiedeva una propria moralità. Prima del diluvio tutti erano discinti: la virtù consisteva nella pudicizia. Dopo il diluvio tutti erano pudichi: la virtù consisteva a questo punto nel non vantarsi della propria precedente giustizia. Noach avrebbe potuto esaltarsi di fronte a tutti gli altri dicendo: “Ve l’avevo detto: se solo mi aveste seguito, il mondo si sarebbe salvato come mi sono salvato io…” eppure non lo fece. Si limitò a dar da mangiare alle creature e per il resto mantenne il silenzio (Meshekh Chokhmah ad v.). Adattarsi a due situazioni contrapposte di questo tipo è segno di una nobiltà d’animo non comune!
Ma il già citato No’am Elimelekh dà una lettura diversa di tutta quanta la questione, basandosi sul fatto che dor non è, dicevamo, solo un concetto storico-temporale, ma è soprattutto un concetto etico. Esaminiamo il seguito del racconto. La Parashat Noach viene subito dopo quella di Adàm ha-Rishon, il primo Uomo. Entrambi trasgrediscono con la bocca e, secondo alcuni, con lo stesso albero. Adàm mangiò il frutto della vite (cfr. Berakhot 40a), mentre Noach ne bevve il vino. L’effetto fu antitetico: Adam per effetto della mangiata si rese conto dell’esistenza del senso del pudore e si coprì, mentre Noach per effetto della bevuta si dimenticò del senso del pudore e si spogliò (Malbim a Bereshit 9,21). L’insegnamento può essere che approfittarsi dei beni materiali a oltranza dà esito negativo. Ma attenzione. Compito dello tzaddiq non è rinunciare del tutto ai beni materiali. Al contrario. Questi possono essere persino fonte di forza.
Scrive a questo punto il No’am Elimelekh: “L’uomo deve dedicarsi al servizio del Creatore in tutte le sue azioni, anche quelle più materiali come mangiare e bere ed elevarle progressivamente in modo da far risaltare la componente spirituale di ciascuna rigettando invece ciò che va scartato. Questo passaggio di grado è chiamato in ebraico dor, che letteralmente significa “girone, livello”. Il Qohelet scrive: dor holèkh we-dor ba, we-ha-aretz le-‘olam ‘omàdet, “un dor va e un dor viene, purché la terra, cioè la materialità, si mantenga sempre” (1,4). A questo punto si spiega anche il versetto dei Tehillim: dor le-dor yeshabbach ma’assekha (“Da una generazione all’altra si loderanno le Tue opere” – Tehillim 145,4), se teniamo presente che le-shabbeach, in ebraico, non significa solo “lodare”, ma anche “migliorare”: Da un dor all’altro, da un gradino spirituale all’altro, migliorerai le tue azioni (riferito all’uomo!). E’ quello che fece Noach. Santificò se stesso pur mantenendo la propria materialità. In che modo? Il versetto specifica: “Noach procedette con D.”.
Anche il Ben Ish Chay di Baghdad (anno II, Bereshit, introd.) spiega che il cibo e le bevande simboleggiano la materialità da santificare. Egli mette in luce che come la prima trasgressione è avvenuta attraverso la bocca, così la riparazione deve avvenire per contrappasso attraverso l’uso appropriato della bocca e della lingua e si sviluppa attraverso i cinque passaggi seguenti:
- Recitare su ogni cibo l’apposita Berakhah, per ringraziare il S.B. di tutto ciò che Egli ci mette a disposizione. Aggiungiamo noi che anche Noach, dopo che ebbe salva la vita, il bene più grande, elevò un sacrificio di ringraziamento a H. (Bereshit 8,20)
- Assicurarsi che il cibo che mangiamo sia kasher. Aggiungiamo noi che anche Noach aveva distinto fin dall’inizio gli animali puri da quelli impuri introducendo nell’arca un numero maggiore dei primi, in modo da poterli offrire in sacrificio (Rashì ad loc.).
- Assicurarsi che ci siamo procurati onestamente il cibo che mangiamo. Aggiungiamo noi che Noach stesso si distinse dalla sua generazione e fu salvato proprio per non aver praticato il furto a differenza di tutti gli altri (lo nechtam dinam ellà ‘al ha-ghezel – Rashì a Bereshit 6,13).
- Quando si è a tavola con gli altri non si deve parlar male del prossimo, né si deve mantenere un atteggiamento irato (il muso!) nei confronti di chicchessia. Aggiungiamo noi che la prima preoccupazione di Noach appena uscito dall’arca fu quella di aver l’olio per accendere il lume appena fosse calata la notte e poter guardare in faccia i propri famigliari. Solo istituendo una solidarietà fra i superstiti avrebbe potuto accingersi al compito che lo attendeva: costruire un mondo migliore. Per questo è scritto che “la colomba gli recò il ramo d’ulivo sul far della sera” (Bereshit 8,11; cfr. Kelì Yeqàr ad loc.).
- Infine, parlare di Torah durante il pasto fra una portata e l’altra (Avot 3,4; Mishnah Berurah a Shulchan ‘Arukh, Orach Chayim 170,1). Aggiungiamo noi che secondo una tradizione la Torah era stata rivelata a Noach tramite il Mal’akh Raziel e la sua lettura lo ispirò alla giustizia.
Si potrà obbiettare a questo punto che Noach stesso, in realtà, ha ceduto alla trasgressione ubriacandosi. R. Elimelekh di Lizensk introduce qui un concetto chassidico: la nefilat ha-tzaddiq, “caduta del giusto”. La figura dello tzaddiq è paradossale: come si è detto, egli risiede nel mondo materiale e nello stesso tempo vive al servizio di H. Per aiutare gli uomini della sua generazione a salire di livello, talvolta lo tzaddiq deve discendere dal suo stesso grado, separarsi dalla contemplazione mistica del Divino. Tale pausa è necessaria allo tzaddiq per correggere o perfezionare i comportamenti degli altri, così da poter fare salire verso l’alto anche quanti non hanno in se stessi la forza di resistere allo yetzer ha-ra’. “Lo tzaddiq, infatti, non esaurisce il suo servizio a H. mediante il solo raggiungimento della sua santificazione personale, talora motivo di stupido orgoglio, ma “prega e vive per gli altri” (Elie Wiesel, Celebrazione hassidica, p. 109).