Ugo Volli – Professore onorario di semiotica del testo
Bereshit 11:5 Il Signore (Hashem) scese a vedere la città e la torre che i figli dell’uomo (bené adam) costruivano
Rashi Il Signore scese a vedere – Dio non aveva bisogno di scendere a vedere; la Scrittura però ha voluto in tal modo insegnare ai giudici che essi non devono dichiarare colpevole l’imputato, prima di avere esaminato e considerato il caso di persona. Così dice il midrash di R. Tanhuma
Rashi I figli dell’uomo – Ma di chi altri avrebbero potuto essere figli? Forse di asini o cammelli? Ma il testo vuole indicare che erano figli di Adamo, il quale negò la bontà di Dio, dicendo: La donna che mi hai posto accanto, lei è stata a darmi dell’albero (Gn 3: 12). Anche costoro infatti negarono la bontà di Dio, ribellandosi contro colui che li aveva coperti di bontà e li aveva salvati dal diluvio.
La parashah di “Noach” è costituita da due delle storie più note del Tanakh, quella del diluvio e quella della torre di Babele. Entrambe trovano riscontro nelle mitologie antiche, il diluvio nell’ambito mesopotamico e l’assalto al cielo per esempio in Platone; entrambe hanno carattere eziologico, sembrano cioè spiegare caratteristiche del nostro mondo e si focalizzano sui rapporti del Creatore con l’intera umanità, senza particolari rapporti con il popolo ebraico. C’è una sola eccezione importante: la maledizione di Canaan in seguito alla mancanza di rispetto (o peggio: Rashi richiama due volte l’interpretazione midrashica della “scopertura della nudità” di Noch come castrazione) commessa da suo padre Cam. L’eredità di questa trasgressione di Cam, o forse la diretta partecipazione ad essa di Canaan sono la giustificazione lontana della contrapposizione molto dura che ricorre nel Tanakh fra Israele ai popoli cananiti, con la proibizione di ogni mescolanza, e della conquista della loro terra.
Ma i racconti del diluvio e della torre (e città, che spesso si omette) di Babele si prestano alla stessa domanda con cui inizia il commento di Rashi: perché la Torà parte dal racconto della creazione, da cui non si può dedurre alcuna legge (sebbene vi si fondi la santità dello Shabbat)? Come è noto Rashi sostiene che la ragione di questa narrazione del principio di ogni cosa è che la creazione implichi anche legalmente la proprietà divina di tutta la terra e dunque la legittimità della donazione della terra di Israele al popolo ebraico. Il principio molto potente che ispira largamente il commento di Rashi e in particolare il suo uso del midrash è che si possono dedurre principi morali, se non proprio precetti formalizzati, a partire dalle sezioni narrative della Torà, in particolare interrogandosi dettagliatamente sulle espressioni problematiche che vi si trovino.
Nel nostro versetto, così apparentemente banale, ne ne mettono in evidenza due. Prima di tutto Rashi si interroga su perché si dica che il Signore “scende” sulla terra a vedere che cosa stavano preparando gli abitanti di Babele. E’ un’espressione che potrebbe passare inosservata, dato che si appoggia sulla tradizionale identificazione del cielo con la sede privilegiato della Divinità, che troviamo molte volte, per esempio quando Moshè deve salire più volte sul Sinai per ottenere la rivelazione della Torà. Ma è anche espressione di una tendenza antropomorfa che ricorre spesso in molti passi scritturali, e che Rambam ha insegnato a non prendere troppo alla lettera: forse che Hashem si può trovare in un luogo del mondo, sia pure il cielo, come se fosse limitato in un corpo fisico e non fosse invece lui il luogo (Maqom) universale in cui tutto l’universo è contenuto? Rashi risolve la difficoltà usando un midrash per spiegare che questa espressione non va presa alla lettera ma neppure ignorata come se fosse solo una metafora per rendere concreta l’azione divina (secondo il principio ermeneutico di Rabbi Ishmael che “La Torah è scritta nel linguaggio degli uomini”). Sostiene invece che bisogna invece pensare che questo modo di esprimersi sia scelto per darci un insegnamento su un tema molto lontano. E cioè che i giudici, un ruolo che Hashem assume rispetto agli abitanti di Babele, debba informarsi di persona sul comportamento degli imputati e non accontentarsi delle informazioni che possiede già. Hashem non “scende” davvero a Babele, perché è sempre dappertutto e dunque già lì; ma il testo dice che lo fa per insegnarci che i giudici debbano sempre “scendere” sul terreno del delitto.
Un’altra domanda imbarazzante (e nella forma quasi impertinente) è fatta nella seconda nota di Rashi al versetto: perché, si chiede Rashi, gli abitanti di Babele sono definiti bené Adam, che di solito si traduce “figli dell’uomo” ed è un’espressione che ricorre abbastanza spesso nel Tanakh, in particolare in Ezechiele e nei Salmi. Nessuno penserebbe che siano discendenti “di asini o cammelli”. E allora, che ci dice quest’espressione generica o superflua? Qui Rashi propone uno spostamento di senso dell’espressione in direzione della letteralità del nome: l’adam di cui il testo parla non sarebbe una generica designazione dell’umanità, ma un riferimento al nome proprio di Adamo (che non per caso ha lo stesso nome della specie, perché ne è il prototipo). In particolare si alluderebbe così alla sua mancanza di rispetto per la Divinità quando cercò di scaricare su di essa (attraverso Eva, che è un Suo dono) la colpa della trasgressione dell’albero del bene e del male. Dunque l’espressione colpevolizzerebbe gli abitanti di Babele.
Ma, a parte la brillantezza della spiegazione, perché svilupparla in questa direzione? Non abbiamo certo bisogno di apprendere in questa maniera che che voleva costruire la torre fino al cielo non nutriva rispetto per la bontà divina. Avanzo un’ipotesi: certamente Rashi sapeva che “figlio dell’uomo” è l’autodefinizione che usa molto frequentemente Gesù di Nazareth nei Vangeli e quindi forse questa nota comporta un cauto sottinteso polemico nei confronti del cristianesimo: chi è definito in questa maniera non avrebbe in generale un rapporto corretto con la sfera del divino. Forse anche Gesù, secondo Rashi, era “figlio di Adam” con quel che ne consegue. Sia plausibile o meno questa interpretazione dell’interpretazione di Rashi, dal commento a un versetto così in apparenza anonimo troviamo la conferma che nella nostra tradizione non vi è alcuna parola della Torà che non meriti attenzione, magari dubbio, interpretazione e apprendimento. Questo è il messaggio generale del commento così sistematico ed esteso che ci ha lasciato Rashi.