Noach, scrive la Torà, era un uomo buono. Il mondo era corrotto e D-o lo avrebbe distrutto. Noach doveva costruire un’arca. Lo fece. Noach doveva salvare gli animali. Lo fece. Raccolse persino del cibo per ognuno di loro. A Noach fu detto di portare la sua famiglia nell’arca. Lo fece. Tutto fu fatto secondo i piani, eppure manca una cosa: Noach non ha detto una parola. Tutti sono pronti a partire. Inizia a piovere. La porta dell’arca viene chiusa. Per quaranta giorni e quaranta notti, cade una pioggia battente. Persino le cime delle montagne sono coperte. Tutto ciò che è all’esterno muore. Dopo centocinquanta giorni, l’acqua inizia a diminuire. L’arca si ferma sul monte Ararat. Noach manda un corvo per vedere se riescono a uscire dall’arca. Poi, a intervalli settimanali, manda una colomba tre volte, finché non si accerta che possano uscire dall’arca. Partono tutti. Manca ancora una cosa: Noach non ha detto una parola.
Il silenzio di Noach continua. Solo in Bereshit 9:25, appena quattro pesukim prima della sua morte, troviamo il primo resoconto di Noach che parla. Questo dettaglio viene notato dai Chachamim, che in diversi casi criticano il silenzio di Noach di fronte all’imminente catastrofe:
…quando (Noach) uscì dall’arca, vide tutto il mondo distrutto e cominciò a piangere. Disse: “Signore dell’Universo, Tu sei il Misericordioso! Avresti dovuto avere pietà delle Tue creature!” D-o gli rispose: “O pastore stolto! Ora dici questo! Non quando ti dissi dolcemente: “Va’ a costruire un’arca di legno di gofer… Sto per portare un diluvio… distruggerà ogni carne…”. Ho tardato così a lungo e ti ho detto questo perché pregassi per la misericordia del mondo. E quando hai sentito che saresti stato salvato in un’arca, non hai trovato nel tuo cuore (di prenderti cura) del dolore del mondo. Hai costruito un’arca e sei stato salvato. Ora che il mondo è distrutto, apri la bocca per pronunciare parole di preghiera e supplica!” (Zohar Hachadash, Parshat Noach”).
Molto conosciuto è il commento secondo cui la principale differenza tra Avraham e Noach è che Avraham di fronte alla possibilità che ci sia una distruzione, a differenza di Noach, prega ed argomenta con D-o.
Nella Parashà di Noach c’è un altro accenno a questo tema. La Torà descrive dettagliatamente i tentativi di Noach di determinare se fosse sicuro lasciare l’arca. Prima mandò un corvo, ma fu un fallimento totale, il corvo si allontanò a malapena dall’arca. Poi cambiò tattica, mandando una colomba. La prima volta, la colomba tornò all’arca, senza riuscire a trovare un albero su cui appollaiarsi. Una settimana dopo la colomba tornò con un ramoscello d’ulivo stretto nel becco. La terza missione della colomba fu un successo: la colomba aveva trovato una casa lontano dall’arca.
In questi pesukim ‘è un messaggio sottile. Noach impara dalla colomba quando può lasciare l’arca. La scelta del volatile per determinare questa possibilità non è casuale. Le colombe hanno la capacità di tornare a casa, possono essere addestrate a percorrere svariati chilometri e tornare a casa. Le colombe si accoppiano per la vita. Tornano sempre a casa. I corvi, come raffigurati dalla letteratura ebraica, non sono rinomati per essere animali che tornano a casa. Nel Salmo 147:9, viene resa una lode speciale a D-o come guardiano dei figli dei corvi. Rashi spiega che il motivo di questa lode è che i figli dei corvi hanno bisogno di una protezione aggiuntiva perché siccome i loro genitori non forniscono loro cibo, questo deve necessariamente essere fornito da D-o stesso. Il messaggio simbolico è chiaro: se vuoi lasciare l’arca e tornare nel mondo, non puoi seguire i corvi. Perché le persone vivano nel mondo, questo deve essere un mondo di seconde possibilità. In questo senso è importante imparare dalle colombe: c’è sempre una via per tornare a casa.
Nel Tanach c’è un altro personaggio famoso che era riluttante a esortare gli altri a pentirsi. In un’altra storia di quaranta giorni, a Yona viene ordinato di andare a Ninive e dire ai suoi abitanti di pentirsi o verranno distrutti. Non volendo farlo, Yona cerca di fuggire da D-o e dalla missione affidatagli. Non ci riesce. La prima metà della storia di Yona è intrisa di ironia in quanto emerge in maniera evidente che tutti, tranne Yona stesso, già sanno che non si può scappare da D-o. Ma a parte questo c’è una lezione molto sottile ma ovvia. Il nome del personaggio principale di questa storia di fuga fallita è appunto “Yona” – colomba. Per sua stessa natura tornerà sempre a casa.
Questo Shabbat è particolarmente attuale. Abbiamo un canto, una delle canzoni dello Shabbat, che parla di Noach, il cui messaggio è particolarmente significativo oggi, dopo i difficili anni di guerra e le sfide che il nostro popolo ha dovuto affrontare. Il canto fu scritto da Rav Yehuda haLevi, autore del Kuzari, quasi novecento anni fa in Spagna, e le sue parole ci parlano direttamente oggi
Rav Yehuda haLevi scrive in questo canto: “La colomba trovò riposo su di esso, “bo manoach” (Shabbat), e lì “vesham” riposerà lo stanco”. Le parole “bo” e “sham” sono intenzionali e profonde. “Bo “si riferisce allo Shabbat come a un tempo ben determinato, il giorno in cui le nostre anime ricevono la Neshamah Yeterà, l’anima aggiunta, e possono fermarsi, riflettere e rinnovarsi. La parola “Sham” si riferisce allo Shabbat come a un luogo, uno spazio sacro dove l’anima trova riposo. Shabbat racchiude questi due aspetti insieme e contemporaneamente Shabbat è un Mikdash, un Santuario, nel tempo, un rifugio dove la neshama, l’anima dell’ebreo, trova riposo e rinnovamento. .
La colomba simboleggia sia l’animo individuale che il popolo di Yisrael. Nonostante lo yetzer harà, la possibilità di inclinazione verso il male, la neshama può trovare ristoro attraverso lo Shabbat. Gli ebrei sono comparati alla colomba: hanno affrontato pericoli, guerre e difficoltà. Come spiegato da Rashi il popolo ebraico è come la colomba nel senso che D-o non permetterà all’intera nazione di autodistruggersi spiritualmente. Anche dopo tempeste e prove, la colomba – e il popolo che rappresenta – trova riposo e speranza. La foglia d’ulivo rafforza questa lezione. Proprio come la colomba tornò con un segno che le acque si stavano ritirando, il popolo ebraico, sopravvive e si rinnova. Lo Shabbat ci offre un tempo e un luogo in cui abbiamo la possibilità di rafforzarci, connetterci alla Torà e ravvivare la speranza, il riposo spirituale e la continuità per il nostro popolo. Questo canto ci ricorda che, proprio come la colomba si riposò dopo il diluvio e riportò la foglia d’ulivo, così anche noi possiamo trovare riposo dalla routine quotidiana, rinnovarci e rafforzarci spiritualmente. Lo Shabbat non è solo una pausa nel tempo, ma l’essenza della menuchà e della speranza: un dono divino che ripristina la neshama, rafforza la nostra emunà, fede, e ci ricorda che anche nel mezzo delle difficoltà, D-o concede al Suo popolo un luogo e un tempo sicuro e di riposo.
Tra i messaggi universali che ci insegna questa Parashà ci sono insegnamenti sempre attuali ed importanti. Dobbiamo sforzarci di migliorare, di non accontentarci di essere giusti nella nostra generazione. La colomba ci insegna che anche se sbagliamo, anche se durante il percorso cadiamo, è sempre possibile “tornare a casa”, al comportamento virtuoso e corretto. Il canto ispirato a questa Parashà ci insegna come fare a rinnovarci, rinnovare le forze, le speranze, l’ispirazione e quante possibilità abbiamo per iniziare un percorso virtuoso e continuo nel tempo. Questa possibilità ci viene data letteralmente ogni settimana.
