Da una derashà di Rav Sacks
Paul Johnson (Manchester 1928) è uno storico, autore di una Storia degli ebrei, tradotta anche in italiano. Una volta Rav Sacks gli chiese, quale fosse l’aspetto che lo avesse maggiormente colpito degli ebrei, che aveva tanto studiato. Johnson affermò che nel corso della storia ci sono state delle società che si sono concentrate sull’individuo, come l’occidente odierno, altre che hanno dato risalto alla collettività, la Russia comunista o la Cina. L’ebraismo è stato l’esempio più riuscito di come sia possibile gestire il delicato equilibrio fra responsabilità individuale e collettiva.
E’ stato in grado di generare individui capaci e forti comunità, e questo è il suo più grande successo. Inconsapevolmente Johnson stava parafrasando la famosa affermazione di Hillel nel Pirqè Avot: “se non sono io per me, chi sarà per me?” – è indispensabile esercitare la responsabilità individuale. “Ma anche se fossi io per me, che cosa sono io?” – la responsabilità individuale non è sufficiente, deve essere inserita in un contesto collettivo. Questa premessa permette di comprendere la parashah di Noach in un modo particolare, altrimenti non evidente. La parashah infatti si apre e si conclude con due grandi eventi, il diluvio universale e la torre di Babele. Questi due episodi fra di loro hanno molto poco in comune. Le storture della generazione del diluvio sono evidenziate dalla Torah, malvagità, violenza, corruzione morale, perversione.
Un fallimento su tutti i fronti. Ma nella torre di Babele il quadro è totalmente differente. Tutti parlavano la stessa lingua e avevano un linguaggio comune. Si tratta di una società concentrata sulla costruzione, non sulla distruzione. Perché allora troviamo una condanna tanto ferma? Ma è chiaro che anche quell’esperienza si rivela un fallimento, perché subito dopo Avraham è chiamato a scrivere una nuova pagina nella storia religiosa dell’umanità. E’ vero, non c’è più un diluvio, ma serve nuovamente cambiare registro. Entrambi gli episodi fanno riferimento ad eventi storici, anche se con modalità differenti da quelle della storia descrittiva. In entrambi troviamo degli echi della storia babilonese, e anche le testimonianze archeologiche incoraggiano questa visione, avendo trovato tracce di sontuose alluvioni e inondazioni, e di crolli di torri. Ma non dobbiamo concentrarci sulla storia. La Torah non è un libro di storia. Vuole darci degli insegnamenti. In queste storie c’è una valutazione di ordine morale e politico. Il diluvio rappresenta quello che succede quando una società si concentra solo sull’individuo. Babele ci spiega quanto avviene quando la società vuole invece sacrificarlo. Hobbes nel Leviatano ha descritto magistralmente quali siano le minacce dell’individualismo sfrenato. Babele non si richiama alla situazione antecedente alla divisione delle lingue, perché la Torah ne ha parlato in precedenza, ma nasconde una critica nei confronti di un certo tipo di imperialismo, che imponeva la propria lingua sui popoli conquistati. La Torah condanna questa condotta, la confusione delle lingue è un ritorno alle origini. La storia di Babele è pertanto una critica radicale del potere collettivo quando soffoca l’individualità. La parashah di Noach, pertanto, pur presentando due polarità opposte, è uno studio sula condizione umana, che condanna le società individualiste e collettiviste, entrambe destinate a fallire, le prime perché conducono all’anarchia e alla violenza, le seconde perché conducono all’oppressione e alla tirannia. Avraham sarà chiamato a dare forma ad un nuovo ordine, nel quale la responsabilità individuale e quella collettiva sono bilanciate. Questo è il dono principale che l’ebraismo ha lasciato al mondo.