La parashàh di Nitzawim si legge sempre il Sabato che precede Rosh ha-shanàh, e non a caso nella seconda parte del brano compare per almeno otto volte il concetto di teshuwàh. La parashàh si apre con dei versi molto famosi. “Voi siete oggi tutti quanti davanti al Signore vostro D.: i vostri capi tribù, i vostri anziani, i vostri ufficiali e tutti gli uomini di Israele, i vostri figli, le vostre donne e il forestiero che vive in mezzo a te, da quello che ti spacca la legna e quello che ti attinge l’acqua”.
Le parole di Moshèh seguono le terribili qelalot della parashàh di Ki tavò, alla durezza delle quali il popolo reagì con un sentimento di impotenza e sfiducia. Chi potrebbe resistere a tanto! Per questo Moshèh ritenne opportuno consolarli. Ma non dobbiamo credere che Moshèh abbia voluto dirci che dobbiamo stare tranquilli, perché la punizione non arriverà. Il senso delle parole di Moshèh è un altro: è vero che abbiamo sbagliato, ma esiste lo strumento portentoso della teshuwàh. Alla fine della parashàh è scritto “Io chiamo a testimoni per voi oggi il cielo e la terra: io ho posto davanti a voi la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli la vita, onde viviate tu e la tua discendenza”. Rashì spiega perché vengono chiamati in causa il cielo e la terra: questi, nonostante non conoscano la provvidenza divina, che prevede premi e pene, non hanno mai cambiato prerogative. Il sole non è mai spuntato da occidente, e la terra, dopo aver piantato grano, non ci ha mai restituito orzo! Se loro si sono adattati sempre alla volontà divina, tanto più varrà per noi, che invece saremo giudicati per i nostri comportamenti.
Abbiamo un alleanza con H. Quando delle nazioni sono alleate i loro interessi si fondono, l’attacco ad uno è considerato un attacco a tutti gli alleati. Il nostro patto con H. prevede che noi saremo il nostro popolo e lui sarà il nostro Dio, che si rivela al mondo attraverso di noi. Il verbo che si utilizza in ebraico per la stipula di un patto è abbastanza singolare, perché si parla di keritat berit, “tagliare un patto”. Rashì spiega che coloro che contraevano il patto passavano in mezzo ad un animale diviso a metà, a simboleggiare il fatto che una parte non può sussistere in assenza dell’altra. L’alleanza che viene stretta fra H. e il popolo d’Israele non ha precedenti nella storia dell’umanità e nelle religioni, perché coinvolge tutti, nessuno escluso. E’ un unicum perché i patti precedenti non erano stati stretti con un’intera nazione, ma con dei singoli individui. Certamente il destino individuale ha il suo posto nella nostra tradizione, ma nella Toràh scritta questo aspetto passa in secondo piano, mentre viene esaltata la dimensione collettiva.
Il talmud Yerushalmi, spiegando il divieto di vendicarsi del proprio prossimo, porta l’esempio di una persona che, accidentalmente, attraverso la mano destra ha tagliato la mano sinistra. Non ci aspetteremmo certo che la mano sinistra si vendichi iniziando a schiaffeggiare la mano destra, perché fanno parte di uno stesso organismo. Il popolo ebraico gode di questo status. E questo è vero e anche e soprattutto agli occhi degli altri popoli. Per questo il nostro comportamento deve essere ineccepibile. Se un danese compie un crimine efferato la colpa non sarà mai attribuita al popolo danese in quanto tale! Per gli ebrei, e purtroppo lo sappiamo sulla nostra pelle, ciò non è vero. E’ interessante notare che, proprio per via di questa peculiarità, il Gherà vede in maniera diversa dagli altri commentatori le maledizioni di Ki tavò. In base all’interpretazione classica, come si ricordava la scorsa settimana, l’espressione al singolare coinvolge direttamente i singoli individui. Per il Gherà invece quando un brano viene ripetuto due volte, al singolare e al plurale, il plurale si rivolge agli individui, mentre il singolare viene riferito alla collettività, considerata un unico indissolubile corpo.
Il nostro patto con H. trascende non solo le differenze sociali, ma anche le categorie temporali, perché include le generazioni passate, la presente e quelle future. È al contempo sincronico, perché tocca tutti i miei contemporanei, nessuno escluso, e diacronico, perché riguarda gli ebrei di ogni tempo. E coinvolge anche coloro che non hanno intenzione di aderirvi, “quelli che oggi non sono qui con noi”. La ridondanza del verso deve farci riflettere: perché dire sia oggi che qui? Ci sono persone che sono fisicamente con noi, ma non spiritualmente, e altri che volgono i propri pensieri al destino d’Israele, ma non sono qui con noi. Anche se costoro oggi non sono con noi, perché hanno un’altra visione del mondo e della spiritualità, perché pensano ad altro, o per qualsivoglia altro motivo, abbiamo il compito, con pazienza e dedizione, di farli entrare in questo patto. Con questo spirito ci avviciniamo ai mo’adim di Tishrì. La sera di Kippur, iniziando le tefillot della giornata, permetteremo di pregare assieme ai trasgressori. In questo periodo dell’anno in particolare ci dobbiamo preoccupare di quelli che oggi vengono chiamati ebrei lontani, ebrei invisibili, ebrei “liquidi”. È scritto nella parashàh (Devarim 30,4): “quando anche fossero i tuoi dispersi all’estremità del cielo, di là li radunerà il Signore tuo D. e di là li prenderà”. Ma il nostro compito non è rivolto solamente a loro, dobbiamo riconoscere che quanto facciamo avrà delle ripercussioni su chi viene dopo di noi, e da questo dipenderà la nostra forza di attrazione sui nostri figli.
Tante volte ci arrovelliamo sul coinvolgimento dei giovani e dei giovani adulti in quello che facciamo, purtroppo, nonostante gli ingenti sforzi, con scarsi risultati. Ma è giusto proseguire con questo tentativo. Più pianteremo Toràh ed ebraismo, maggiori saranno le possibilità di ottenere dei risultati. Ma la grossa domanda sulla quale ci dobbiamo interrogare è: quali azioni in modo particolare possono avere come effetto l’avanzamento della collettività nel suo complesso, senza provocare appiattimenti o scollamenti? Nel primo verso della parashàh si parla dei “capi delle tribù”. Si chiedono i commentatori: cosa sarebbe mancato al verso se si fosse parlato tout court di capi? Spiega il Neziv che è necessario parlare di tribù, perché l’operato di un capo non è valutabile esclusivamente per mezzo del suo rapporto con gli altri capi, ma principalmente rispetto alla sua tribù. Ogni capo deve chiedersi quanto sia riuscito a sviluppare il potenziale della sua tribù, se è ha avuto successo nel far venire alla luce ciò che vi è di buono in essa. “Voi siete oggi tutti quanti davanti al Signore vostro D.”: riuscire a essere tutti quanti, ed essere davanti ad H., è l’immane obiettivo.