Nel 2002 gli venne affidata una ricerca sugli ebrei milanesi. Poi in un’intervista a Repubblica definì l’arrivo a Milano degli ebrei sefarditi “La seconda catastrofe dopo le leggi razziali” (vedi sotto Kolòt del 26.1.2003) e fu cacciato in malo modo. Oggi per il Bollettino di Milano si definisce un “illuminista ebreo”.
Fiona Diwan
Ti senti una mosca bianca?
No, credo che vari tra noi vivano l’ebraismo nel mio modo, soltanto che non lo dicono! Ho sempre amato parlare di ebraismi al plurale, e se dovesse prevalere un ebraismo al singolare non so se ci sarebbe più posto per me. La bellezza dell’ebraismo è che, sebbene piccoli e perseguitati, noi ebrei abbiamo alle spalle un’esperienza unica di unità nella pluralità. Pluralità che è uno strumento essenziale per difendere l’unità. Propendo per una teoria di tipo agricolo: se tu coltivi la terra solo con una semente la produttività di quel terreno si riduce. La grande rivoluzione del capitalismo agricolo è stata la rotazione dei campi: grano, mais, maggese, trifoglio…. Molte sementi, molti ebraismi, molta ricchezza e messi. Io sono un piccolo ebreo “trifoglio”: che conta poco ma è anch’esso utile, certo poco profondo ma con una sua dignità. Bisogna lasciar spazio anche agli ebrei deboli, gli ebrei della banlieu.
Che cosa intendi per identità diasporica oggi? Come sociologo-antropologo ritengo che la Storia vada letta alla luce del concetto di longue durée. Cosa dice la lunga durata? Che la nostra è una storia diasporica. E penso che Israele non basti a esaurire oggi l’esperienza ebraica. Siamo il portato di 2000 anni di diaspora, un valore positivo. Credo nell’esistenza di una diaspora orgogliosa, consapevole di sé, interessata alla dialettica del rapporto con Israele.
Che cos’è l’ebraismo culturale?
Sta in una serie di messaggi dal valore universale, che noi rappresentiamo -non in esclusiva, beninteso-. Che valori? Ad esempio, il senso dell’appartenenza dell’individuo alla dimensione comunitaria e collettiva, individuo che non è mai una monade ma che cammina in cordata; e poi il rigetto dell’idolatria, che vuol dire la purificazione valoriale, l’essenzializzazione, lo spirito critico. Da illuminista trovo che è molto illuminista il modo in cui gli ebrei sono stati nel mondo, finora. Terzo valore: la polemicità tollerante. Ovvero riconoscere dignità e rispetto a posizioni diverse dalle tue. Il diritto allo scontro e al conflitto è stato il nostro contributo allo spirito liberale e alla democrazia. Il quarto valore è l’importanza della spiritualità. Io non sono religioso ma sento questa tensione spirituale altissima che innerva il mondo ebraico e che in alcune epoche storiche ha preso il nome di messianesimo. Ma, in verità, è il mix tra questi quattro valori culturali che è straordinario, esplosivo e unico.
E poi l’alfabetismo, la cultura del libro, come quinto valore. Siamo il popolo del logos, della scrittura, della lettura, del commento e dell’interpretazione multipla. Non amiamo l’univocità. Laddove il nesso tra spiritualità e comportamenti è fondamentale, vedi il valore delle mitzvot. Una coerenza tra il mondo dello spirito e quello delle azioni e del comportamento. Riconosco la straordinarietà -e capisco che passa attraverso la religione- del fattore mitzvot. Infine il valore dell’internazionalità, il cosmopolitismo. Internazionalità vuol dire trovare un’intesa immediata gli uni con gli altri, capirsi anche se si è vissuti lontanissimi… ed è questa cosa che manda fuori di testa tutti, i fascisti, i nazisti e gli antisemiti anche di sinistra. Inoltre, ritengo che il pluralismo ci aiuti a difenderci dall’adorazione acritica di noi stessi, che è un pericolo che ogni tanto riaffiora, sotto forma di tentazione a chiudersi. Per paura, si sta diffondendo la storiella che l’identità ebraica sia unica e identica. Non è così. Siamo parti diverse di uno stesso corpo. E poi, non si può essere ebrei pacifici. Io sono per gli ebrei che si battono, orgogliosi, polemici, e nel mio piccolo cerco di essere conflittualmente ebreo, di portare un elemento di diversità e favorire così il contesto in cui mi trovo. Dobbiamo alimentare il fascino per il diverso, ovunque e sempre. E sono fiero di essere forse lo strumento più periferico di questa orchestra, quello meno importante (il triangolo).
Quale interazione tra Enrico Finzi ebreo e una città come Milano?
Di solito non nascondo mai di essere ebreo, anzi lo dichiaro subito perché ho l’orgoglio della mia appartenenza. Io credo che gli ebrei italiani abbiano dato un contributo rilevante alla storia di questa città e Paese, dal Risorgimento in avanti. Ma ciò su cui mi soffermo è il contributo di ricchezza e intelligenza in termini di umanità. Penso alla schiera di medici ebrei, penso alla nascita del Politecnico di Milano. Contributo alle scienze fisiche, chimiche, alla costruzione di una cultura scientifica in un paese umanistico. Al di là dei Nobel, dei premi ufficiali, degli ebrei illustri, penso ai piccoli medici di quartiere, ai Marcello Cantoni, ai magistrati, agli avvocati, alle arti liberali, esempi di generosità e di moralità, un contributo silente che a Milano è stato molto evidente. Più che a Roma, dove la connotazione commerciale è sempre stata forte e dove gli ebrei sono sempre stati più sovraesposti. Questa città oggi è profondamente degradata. Quasi imbarbarita. Un tempo qui si era sviluppata una tradizione di accoglienza e di inclusività, penso alla retorica della Madonnina, una Milano dal cuore grande che accoglieva gli emigranti con la valigia di cartone. Io credo che noi ebrei, per la nostra storia, dobbiamo stare con la metà della città che ha il cuore caldo perché abbiamo, anche noi, patito l’esclusione, la discriminazione, l’odio. Portatori di una tolleranza affettuosa e simpatetica. Sembro un missionario? No, resto un illuminista ebreo.
http://www.mosaico-cem.it/articoli/finzi-sono-un-ebreo-di-periferia-che-ama-la-diaspora-e-la-dialettica
Da Kolòt del 26.1.2003
Il venerdì di Repubblica – 24 gennaio 2003 – “Ricordando con rabbia” di Attilio Giordano
“Enrico Finzi, sociologo milanese, è furente ma poi aggiunge: “Scusi se mi appassiono”. Gli ebrei italiani, come li conosce lui, “hanno accompagnato la storia di questo paese: con Garibaldi, tra i Mille, durante il Risorgimento, combattenti della Prima guerra mondiale, persino fascisti, fino al 1938”. Sua madre, cugina di Giorgio Bassani era una di quelle giovani ferraresi che giocavano a tennis nel mondo incantato dei Finzi-Contini. “Per lei l’adesione degli ebrei al fascismo era una vergogna, e la capisco. Ma se guardo la cosa da sociologo, era un altro segno di integrazione. Erano italiani, dunque fascisti”. Poi venne la Resistenza, la democrazia, e gli ebrei fecero la loro parte. “Qui a Milano io non riconosco più una vera comunità”, dice. “Comunità è condivisione, sofferenza comune, scambi. L’apertura degli ebrei italiani, la loro funzione culturale, è venuta in gran parte meno. Ed è la seconde catastrofe, dopo le leggi razziali, dovuta alla calata di nuovi ebrei provenienti da Libano, Siria, Egitto, Iran, che hanno travolto le nostre tradizioni. Oggi a Milano sono una maggioranza spesso retriva, intollerante, perseguitata e dunque anti-musulmana visceralmente, che tende a separare e a sradicare la tradizione dell’ebraismo italiano”.