Una telefonata dai servizi segreti ungheresi. E lo scrittore Andràs Forgàch scopre la mamma era stata una 007. Una dolorosa verità, ora raccontata in un libro. «Mi sarebbe piaciuto discutere con lei sul significato della parola “tradire”. Sarebbe stato un confronto paritario: anche io l’ho tradita con i miei comportamenti».
Gigi Riva
“Buongiorno, qui archivio dei servizi segreti, abbiamo trovato un dossier su uno dei suoi familiari che fu nostro collaboratore, può venire a consultarlo…” La telefonata che cambiò la vita, ma non i sentimenti, di Andràs Forgàch, scrittore drammaturgo attore e sceneggiatore, se non arrivò del tutto inaspettata fu comunque devastante. Obbligava a rimestare in un passato inconfessato tra omissioni, reticenze e bugie. Uno squarcio di luce nel lato oscuro di gente con cui si era condiviso il pranzo, la cena, la casa, l’amore. «E io», ricorda in questa intervista esclusiva per L’Espresso l’intellettuale ungherese 65enne, anche traduttore di Shakespeare e di Beaumarchais, «benché non avessi alcun indizio, dentro di me ero sicuro si trattasse di mia madre».
Il governo ultraconservatore di Viktor Orbàn aveva varato una legge «un po’ ipocrita ma comunque positiva», nel giudizio di Forgàch, che permette di consultare le carte, «salvo pochi documenti da tenere coperti per la sicurezza dello Stato e certo dopo che gli apparati avevano distrutto le prove compromettenti sui loro uomini più in vista da proteggere».
Dal crollo del Muro nel 1989 agli anni Duemila avevano avuto del resto tutto il tempo necessario. C’erano alcune formalità da espletare. Bisognava, anzitutto essere riconosciuti come “ricercatori ufficiali”, qualifica che il nostro non ebbe difficoltà ad ottenere grazie all’università. Un anno di tempo per esplorare la sterminata biblioteca degli 007 poi l’obbligo di restituire ogni singolo foglio ad uso e consumo di chiunque lo volesse. E chiunque ha la possibilità di pubblicare ciò che trova senza bisogno di permessi degli interessati. Particolare decisivo che convinse Andràs a giocare d’anticipo: «Dovevo essere io a divulgare fatti intimi e però di rilevanza pubblica dei miei congiunti». In che forma? «Avevo due strade, o trasformare il materiale in un romanzo o scrivere un saggio asettico». Ha scelto una via mediana che si può definire letteratura del vero, stile del romanzo ma senza nessun elemento di finzione, «un obbligo di onestà per rispettare il patto di verità col lettore».
Il risultato è il formidabile volume “Gli atti di mia madre”, che Neri Pozza manda in libreria dal primo febbraio. «Anche quando si inventa non si scrive che di se stessi. In questo caso non avevo bisogno di alcun artifizio della fantasia», commenta l’autore. È stato come fare «una sorta di psicoanalisi di me stesso, benché sia una branca del sapere umano che non avevo mai frequentato. Mi è servito per capire da dove provengono certe particolarità del mio carattere». Un lavoro doloroso fino alle lacrime: «C’erano giorni in cui, in quell’archivio, piangevo e piangevo e piangevo salvo poi ritrovare la forza di continuare».
E il momento peggiore deve essere stato quando ha scoperto che sua madre, oppressa tra la fedeltà al partito e quella dovuta ai diritti del sangue, scelse comunque di permettere di spiare proprio lui, suo figlio, i suoi amici contestatori del sistema: «Naturalmente mi sarebbe piaciuto discutere con lei sul significato della parola tradire e resta il cruccio di non averlo potuto fare quando era in vita. Sarebbe stato un confronto paritario perché anche io l’ho tradita con i miei comportamenti nel privato, con le scelte che ho fatto. E io ero, di quattro figli, quello più in sintonia con lei, quello con cui si confrontava di più, forse quello a cui si sentiva più vicina, al contrario di mio fratello Péter, il ribelle. Anche io sono stato quantomeno ambiguo talvolta. Ad esempio quando un ufficiale dei servizi segreti, consegnandomi il passaporto per un viaggio in Israele, mi chiese una volta tornato di riferire a lui cosa avevo fatto, chi avevo incontrato, cosa pensavo di quel Paese. Non dissi no, non risposi, ebbi un atteggiamento ambivalente».
Bruria Avi-Shaul, la madre, era nata in Palestina, a Gerusalemme, nel 1922 in una famiglia di intellettuali ebrei. Era di una bellezza talmente leggendaria da far impazzire gli uomini fino al crepuscolo della sua esistenza terrena. Aveva sposato Marcell Friedmann, un “ebreo rinnegato” comunista, che cambierà il cognome in Forgàch e diventerà infine l’agente segreto Pàpai della Sezione informativa II/3 della direzione politica investigativa del ministero degli Interni ungherese. Benché non avesse nulla a che spartire col capo della religione cattolica, Pàpai gli sembrò un buon appellativo per mimetizzare le origine ebraiche. Quando nacque lo Stato di Israele, da convinti anti-sionisti quali erano, i due decisero di lasciare il Medio Oriente e trasferirsi a Budapest per mettersi a disposizione del regime comunista. Marcell anche, in seguito, come 007 a Londra a inizio anni Sessanta e con l’attività di copertura di giornalista. I quattro figli (due le femmine) non sospettarono mai la loro attività nascosta. Andràs: «Sapevamo che erano membri del partito, era già sufficiente no? Dal punto di vista ideologico i conti con loro, con i genitori e la loro generazione, li facemmo nel 1968 grazie al maggio parigino e ai fatti di Praga. La nostra è sempre stata una famiglia di conflitti forti, di discussioni aspre ma sempre nel rispetto reciproco. Mamma era una donna energica ma non autoritaria».
Nel 1975 Marcell si ammala e Bruria accetta di sostituirlo come “collaboratrice segreta”. Agli occhi dei vertici dei servizi ha diverse qualità importanti, anzitutto la fede ideologica solida («inclinerà solo più tardi verso posizioni vagamente ambientaliste») e la conoscenza della lingua ebraica. Azzarda il figlio: «Forse era l’unica a parlarla e scriverla in tutta Budapest». Le pagano viaggi in Israele perché cerchi di infiltrarsi nei Congressi sionisti, compito arduo. Lei obbedisce, ma non è sottomessa. Coi suoi referenti ama confrontarsi. Li rimprovera perché sospetta che le sue analisi finiscano in polverosi scaffali senza essere prese in considerazione. Grazie al fascino, inconsapevolmente li seduce persino. Finché arriva la proposta indecente: li deve aiutare a penetrare nell’appartamento del figlio da dove controllare un poeta non in linea col regime. Chiaro l’intento di piazzare microspie. Lei nicchia, è tormentata, avanza dubbi sulla fattibilità dell’impresa. Dalle carte è chiaro l’imbarazzo oltre che il dissidio personale. Alfine cede. Morirà nel 1985 senza conoscere i grandi sconvolgimenti dell’Est Europa, la fine dell’ideologia in cui tanto ha creduto.
In ogni Paese del Patto di Varsavia gli archivi dei servizi segreti diventano la miniera d’oro per riscrivere il passato. Si ha l’esatta dimostrazione di una società controllata con sistemi da Grande Fratello rudimentali se paragonati con l’oggi. Si scovano, dovunque, personaggi insospettabili compromessi nell’attività di spionaggio praticamente in ogni dove. L’Ungheria, buona ultima, lentamente si accoda e mette i panni sporchi in pubblico. Ha senso, dopo quasi 30 anni? Andràs Forgàch non ha dubbi: «Ha senso, non solo perché possiamo capire meglio come era strutturata la società, ma anche perché l’Ungheria di oggi si basa ancora fortemente sui servizi segreti di allora». Comunisti riciclati e buoni per tutte le stagioni, rimasti aggrappati al potere e ora al servizio del supernazionalista Viktor Orbàn. Supernazionalista? Lo scrittore ha un’altra idea: «Io non ho nulla a che spartire col governo attuale naturalmente. Tuttavia credo che l’Ungheria, così come gli altri Paesi dell’Est, non sia isolazionista, non cerchi di chiudersi. Semmai la prospettiva è un globalismo diverso da quello dell’Unione europea o dei Paesi asiatici. E i prossimi cento anni saranno segnati dai diversi tipi di globalismo verniciati di nazionalismo».
Se la postura di Budapest è diversa da quella dell’Europa occidentale lo si deve al fatto che sta a un’ora diversa sull’orologio della storia: «Qui non abbiamo la società, è stata sfasciata dopo la Seconda guerra mondiale e non c’è stata evoluzione. Non abbiamo avuto gli stessi movimenti civili sorti in Italia, Francia, Germania. Siamo in ritardo».
Denuncia la crescita verticale dell’antisemitismo: «Il fenomeno è diventato assai più forte negli ultimi vent’anni. Purtroppo è una tradizione ungherese. Nonostante, per paradosso, Orbàn sia molto amico di Netanyahu, politicamente sono molto vicini». Quanto a lui, cresciuto in una famiglia visceralmente antisionista, sta cercando di riannodare i fili del suo albero genealogico: «Mi sento ebreo e fiero di esserlo. Ho studiato il fenomeno del nazismo e mi sono identificato con il bambino dalle mani alzate del Ghetto di Varsavia. Per me è più naturale, credo, che per i miei fratelli. In famiglia abbiamo vissuto in un grande paradosso. Eravamo poveri, molto poveri, respiravamo l’avversione verso lo Stato degli ebrei dei nostri genitori, eppure tutti gli aiuti, soldi, regali, insomma tutte le cose buone, arrivavano da Israele».
Il suo lavoro di storico del recente passato non è terminato. Gli infiniti meandri degli archivi lo obbligano ad aprire nuovi capitoli: «Di recente ho scoperto un altro dossier che riguarda mio padre. Risale al 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni, quando fu spedito al Cairo per la sua attività di informatore. Sarà la base per scrivere un altro volume, così come devo rivedere il capitolo di un libro del 2007 in forma di una lunga lettera di mia nonna a mia madre quando ancora non sapevo tutto ciò che è emerso successivamente».
“Gli atti di mia madre”, pubblicato in Ungheria nel 2015, ha avuto enorme risonanza.
«Diversi amici mi hanno detto che devo ringraziarla per avermi dato la possibilità di esprimere le mie doti, anche in un dramma si può ricavare una chance. Ho ricevuto molte lettere di ringraziamento. E pure qualche critica di persone gelose del successo». Si ferma, riflette: «In fondo questo volume, molto faticoso da affrontare soprattutto psicologicamente, è un regalo a mia madre. Si possono coltivare sentimenti molto forti pur in situazioni in ogni caso non belle. Ora posso dire, con certezza, che niente è cambiato per me nei sui confronti. Resta, intatto, tutto il mio amore filiale».
L’Espresso, 30.1.2018