In questo shabbat appena trascorso è stato organizzato a Milano e per i giovani un “Pranzo con il Rabbino Capo”, un appuntamento diventato un punto di riferimento per l’originalità della formula, che è il segno di un’attenzione particolare alle nuove generazioni
Rachel Silvera
Il mio shabbath è una porzione della settimana dedicata al letargo, alle paturnie, alle angosciose prime pagine dei giornali da sfogliare pigramente mentre il resto della famiglia dorme alla grande. Più volte obbligo i commensali a mostrare maggiore sollecitudine e partecipazione, ad ascoltare le teorie strampalate ed a canticchiare canzoni stonate. Ma niente da fare. Sbadigli in sequenza mixata e solitudine che incombe.
Lo scorso sabato una variazione ha ravvivato la mesta routine: lo shabbaton organizzato nella scuola ebraica di Milano ha riunito un eterogeneo gruppo di giovani di più generazioni. Convivialità, canzoni al sapore di challah, battute da un capo all’altro della tavola hanno permesso di trascorrere uno shabbath frizzante lontano dal placido divano del salotto. La lezione tenuta da Rav Arbib al momento del dessert (ottima tempistica, a pancia piena c’è un momento preciso poco prima dello sbadiglio in cui l’attenzione è alle stelle) ha lanciato un monito importante: l’ebraismo è vivo, noi siamo l’ebraismo. In un periodo di disillusione generale, in cui la gioventù si stente poco più che uno stendardo sollevato da vari opportunismi, siamo investiti da un nuovo potere.
Possiamo portare avanti e costruire, dar voce agli ideali. Tra chi ci addita come la generazione perduta, la generazione dei perdenti, una nuova iniezione di ottimismo. L’ebraismo è vivo, noi siamo l’ebraismo, noi siamo vivi. Una lezione, un pranzo succulento, un nuovo shabbath.