Gli elementi della devozione
http://www.anzarouth.com/2010/10/mesilat-yesharim-19-devozione-elementi.html
Messilat Yesharim, Rabbi Moshe Chaim Luzzatto, traduz. e note di Ralph Anzarouth
Abbiamo trattato fin qui gli aspetti delle devozione che riguardano l’azione e il modo in cui si agisce. Ora ne spiegheremo gli aspetti che riguardano l’intenzione. Abbiamo già distinto in precedenza 30 i diversi livelli della Mitzvà disinteressata e della Mitzvà compiuta con secondi fini. E parlando di chi, con il proprio servizio divino, intende purificare la propria anima davanti al Creatore per meritare di sedersi in Sua presenza assieme ai giusti e ai devoti, contemplare la soavità di Hashem, visitare il Suo palazzo 31 e ricevere la ricompensa del mondo futuro 32, è ovvio che non possiamo dire che egli abbia un’intenzione malvagia; tuttavia, non possiamo neanche dire che essa rappresenti l’intenzione ideale, perché se il fine dell’uomo è il proprio tornaconto personale, ciò significa che in fondo il suo servizio è destinato a sé stesso.
Invece l’intenzione genuina, frequente presso i devoti che si sono ingegnati per raggiungerla, è quella di servire Hashem con l’unico scopo di aumentare e diffondere la gloria del Signore, benedetto Egli sia[1]. E questo livello viene raggiunto dopo essersi caricato di amore verso il Signore benedetto, quando si desidera e si anela a esaltare la Sua gloria e si è contrariati da ciò che invece la limita. A questo [livello di devozione], l’uomo compie il suo servizio divino con lo scopo, almeno per quanto lo riguarda, di diffondere la gloria del Signore benedetto e con il desiderio che tutti gli altri esseri umani siano come lui, dispiacendosi e sospirando allorché gli altri fanno invece il contrario. E a maggior ragione [si dispiace] quando è lui stesso a limitarla, che sia per errore o per costrizione o per la debolezza naturale che gli rende difficile astenersi dal peccato in qualsiasi frangente, come è detto (Ecclesiaste 7, 20): “Perché non esiste un giusto in terra che faccia il bene senza mai peccare”. E questo concetto fu ulteriormente sviluppato nel Tana Deve Eliahu di benedetta memoria (Raba 4, 5): “Ogni saggio di Israel che conosce il vero significato delle parole di Torà sospira ogni giorno della sua vita per l’onore del Signore e per quello di Israel, desidera e prova dolore per l’onore di Gerusalemme e del Santo Tempio[2], per la Redenzione che germoglierà presto e per la riunione degli esilii[3], costui si merita lo spirito di santità nelle sue parole”. Ciò ti fa capire che è questa l’intenzione ideale, lontanissima da qualsiasi tornaconto personale e tesa unicamente all’onore di D-o e alla santificazione del Suo Nome benedetto, santificato dalle Sue creature quando compiono la Sua volontà. E di questo dissero (Midrash Vaykra Raba 11, 5): “Chi è un devoto? Colui che è devoto al suo Creatore”.
E oltre a compiere il proprio servizio di D-o attraverso le Mitzvot che mette in pratica con questa intenzione, chi è così devoto certamente prova senza tregua un vero dolore per l’esilio e per la rovina [del Santo Tempio di Gerusalemme], perché queste [disgrazie] limitano, se così si può dire, la gloria divina. Piuttosto, egli desidera la Redenzione, poiché a essa corrisponderà una esaltazione della gloria del Suo Nome benedetto. Ed è ciò che disse il Tana Devé Eliahu citato in precedenza “desidera e prova dolore per l’onore di Gerusalemme” e prega costantemente per la Redenzione degli Ebrei 33 e per la restituzione della gloria divina alla sua dimensione suprema. E se qualcuno dicesse: chi sono io e che importanza ho io, affinché io preghi per l’esilio e per Gerusalemme? È possibile che grazie alla mia preghiera si riuniscano gli esilii e sorga la Redenzione? La risposta sta accanto a lui, come abbiamo insegnato (Talmud Bavli, trattato Sanhedrin, 37a): “Per questo motivo l’uomo [Adamo] fu creato solo: affinché ognuno possa dire ‘il mondo è stato creato [unicamente] per me[4]‘.” E il fatto che i Suoi figli chiedano e preghino per [la Redenzione e per la ricostruzione di Gerusalemme] è già una fonte di soddisfazione per il Signore benedetto. E se pure la loro richiesta non venisse esaudita perché l’ora non è ancora giunta o per qualunque altro motivo, essi avranno comunque fatto la loro parte e il Santo, benedetto Egli sia, ne è felice. Il profeta si indignava proprio per l’assenza di questo comportamento (Isaia 59, 16): “E vide che non c’era nessuno e si stupì del fatto che nessuno intervenisse”. E disse (ibid. 63, 5): “E guardai: nessuno veniva in aiuto; e osservai allibito: nessuno veniva in sostegno”. Ed è detto (Geremia 30, 17): “Questa è Zion 34, nessuno la reclama”, che i nostri Maestri di benedetta memoria hanno così commentato (Talmud Bavli, trattato Sukkà 41a): “Da qui si deduce che bisogna reclamarla[5]“. Ciò prova che siamo tenuti a farlo[6] e il pretesto delle nostre poche forze non è sufficiente per astenerci, perché a questo riguardo abbiamo imparato nelle Massime dei Padri (Avot 5, 16): “Completare l’opera non è compito tuo, tuttavia non ti è permesso di sottrarti a essa”.
Note del traduttore
[30] Si veda l’inizio del capitolo 16 sulla purezza, senza dimenticare la nota 2 sulle Mitzvot Lishmah e Shelo Lishmah.
[31] Si veda Salmi 27, 4.
[32] Si veda, dello stesso autore e dello stesso traduttore, il Maamar Haikarim, capitolo 4 sulla ricompensa.
[33] Che avverrà con l’imminente rivelazione del nostro giusto Mashiach.
[34] Uno dei nomi di Gerusalemme, che sia ricostruita presto nei nostri giorni.
Commento
[1] Il Rambam nelle Hilkhot teshuvah (10,2) definisce il comportarsi “lishmah” “comportarsi secondo la verità perché è la verità”. A questo livello si desidera solamente compiere le mitzwot e non si cerca più la loro ricompensa.
[2] Questi aspetti sono compresi nell’onore di H., poiché ogni giorno esce una voce celeste dalle rovine del Tempio, lamentandosi per via della sua distruzione e dell’esilio dei Suoi figli.
[3] Alla fine delle Hikhot melakhim il Rambam scrive che i chakhamim e i neviim anelano ai giorni del Messia solo perché in questo modi saranno liberi per studiare la Torah e la sua sapienza.
[4] Rashì spiega che ciascuno deve considerarsi come se fosse un mondo intero, e per questo il suo comportamento è determinante per il destino del mondo. Evidentemente se tutti facessero il proprio dovere ciò avrebbe di sicuro un’influenza notevole sui destini del mondo. Come è detto nel Pirqè Avot (cap. 2): “non sei tu che devi completare il lavoro, ma non puoi sottrartene”.
[5] Nella ghemarà (Sukkah 41a) questa affermazione viene fatta per via dell’istituzione dell’obbligo di agitare il lulav per sette giorni, in ricordo del bet ha-miqdash, perché il ricordo risveglia il desiderio della sua ricostruzione. Lo stesso vale per la sefirat ha-’omer (Menachot 66a) ed il Korekh durante il seder di Pesach (Pesachim 115a). Nel midrash (Ekhah Rabba 1) è scritto che quando compare la parola en, per indicare che manca qualcosa, successivamente H. la concederà. Lo stesso termine infatti compare per l’assenza di figli di Sarah e Channah, che avranno Ytzchaq e Shemuel. Allo stesso modo, Yerushalaim, che al momento non è reclamata da nessuno, verrà redenta.
[6] Nella tefillah troviamo questo aspetto numerose volte: nella ‘amidah, nella birkat ha-mazon, nella berakhah achat me’en shalosh, nelle berakhot della haftarah. Ma all’infuori della frequenza di questo ricordo, quello che conta è l’intenzione con cui formuliamo questa richiesta.