Gli elementi della devozione
http://www.anzarouth.com/2010/10/mesilat-yesharim-19-devozione-elementi.html
Messilat Yesharim, Rabbi Moshe Chaim Luzzatto, traduz. e note di Ralph Anzarouth
Commento di Rav di Porto
Gli elementi principali della devozione sono tre: il primo riguarda l’azione; il secondo riguarda le modalità dell’azione; il terzo riguarda l’intenzione. Anche il primo di essi, l’azione, si divide in due parti: da un lato [le azioni che riguardano] il rapporto tra l’uomo e D-o, dall’altro [le azioni che riguardano] il rapporto con il prossimo[1]. La prima parte del primo elemento è dunque l’azione dell’uomo nei confronti di D-o e consiste nel compimento di tutte le Mitzvot in tutti i loro dettagli, fino ai limiti delle possibilità dell’uomo.
Sono ciò che i Maestri di benedetta memoria chiamarono i “residui 1 delle Mitzvot” e dissero (Talmud Bavli, trattato Sukkà 38a): “I residui della Mitzvà frenano le avversità[2]“. Perché malgrado la Mitzvà in sé sia completa anche senza di loro e ciò basti per considerare compiuti i propri obblighi, tuttavia questo vale per la massa del Popolo Ebraico; i devoti, invece, devono dedicarsi con continuità al proprio perfezionamento, senza ometterne alcunché.
La seconda parte del primo elemento riguarda i rapporti con il prossimo e si occupa di quanta bontà l’uomo debba sempre riversare sulle creature e di come non si debba recar loro alcun danno. E questo va messo in pratica con il corpo, con i soldi e con lo spirito:
- Con il corpo, cercando di aiutare ogni persona secondo le proprie facoltà e alleviando il peso delle tribolazioni altrui, come insegnato nelle Massime dei Padri (Avot 6, 6): “Portando il fardello insieme al prossimo[3]“. E se un problema fisico coglie il prossimo e si ha la possibilità di evitarlo o di guarirlo, bisogna sforzarsi di farlo.
- Con i soldi, aiutando [il prossimo] secondo i propri mezzi e cercando in ogni modo di impedirgli di finire nei guai; e a maggior ragione allontanando da sé ogni possibilità di provocare dei danni, sia a scapito dei singoli individui che della collettività. E perfino quando nessuno subisce alcun danno, bisogna rimuovere ed eliminare [tutti i pericoli potenziali] dato che il danno può manifestarsi in seguito. E dissero i Maestri di benedetta memoria (Avot 2, 12): “Che i beni del prossimo siano per te preziosi quanto i tuoi[4]“.
- Con lo spirito, sforzandosi di procurare agli altri tutte le soddisfazioni possibili, portando loro rispetto e in qualsiasi altro modo. La devozione richiede di fare al prossimo tutto ciò di cui si sa che gli farà piacere[5]; e a maggior ragione di non addolorarlo assolutamente e in nessun modo. E tutto questo fa parte della Ghemilut Chassadim 2, della quale i Maestri di benedetta memoria hanno decantato i grandissimi meriti e il nostro obbligo di compierla. Ed essa include la ricerca della pace, che è lo stato di benessere generale tra l’uomo e il prossimo.
E riguardo a tutto questo citerò ora le testimonianze dei Maestri di benedetta memoria, malgrado questi siano concetti evidenti che non necessitano ulteriori prove. Nel Talmud Bavli (trattato Meghillà, 27b) dissero: “Gli allievi di Rabbi Zakkay gli chiesero: ‘A cosa devi la tua longevità[6]?’ Egli rispose: ‘Non ho mai orinato vicino 3 al posto in cui avevo pregato, non ho mai usato soprannomi per chiamare i miei amici e non ho mai mancato il Kiddush del giorno[7] 4. Mia madre era anziana: una volta, vendette uno dei suoi copricapi per procurarmi [il vino] per il Kiddush di quel giorno[8]‘.” Ecco un esempio di devozione applicato ai particolari di una Mitzvà, in quanto [Rabbi Zakkay] era ormai esente dall’obbligo di usare il vino per il Kiddush, non avendone i mezzi, al punto che sua madre dovette vendere un panno che portava in testa. Ed è per devozione che si comportava in questo modo e che onorava gli amici evitando di chiamarli con appellativi, pur non infamanti, come risulta dal commento Tossefot a quel brano[9].
E pure Rav Huna dovette stringere il proprio abito con una cinghia perché aveva venduto la sua cintura per comprare il vino necessario al Kiddush del giorno. Nello stesso testo, gli allievi di Rabbi Elazar ben Shammua gli chiesero a cosa dovesse la sua longevità. Ed egli rispose: “Non ho mai usato la sinagoga come una scorciatoia [per recarmi altrove][10] e non ho mai camminato scavalcando la testa del popolo santo[11] 5.” Ecco, questa è devozione nei confronti della sinagoga e delle persone sedute: evitare di scavalcarle, affinché questo non venga interpretato come un segno di disprezzo.
Sempre nello stesso passaggio, gli allievi di Rabbi Frida gli chiesero: “A cosa devi la tua longevità?” Egli rispose loro: “Nessuno è mai arrivato prima di me al Beit-Midrash 6, non ho mai preceduto un Cohen nelle benedizioni 7 e non ho mai mangiato la carne di un animale dal quale non fossero state prelevate le offerte sacerdotali”. E dissero anche (ibid., foglio 28a): “Gli allievi di Rabbi Nechunia gli chiesero a cosa dovesse la sua longevità. Egli rispose loro: ‘Non ho mai cercato onori infamando qualcun altro e l’astio verso il prossimo non è mai entrato nel mio letto 8’.” E lì è spiegato che è come la storia di Rav Huna che portava un’ascia sulla spalla finché venne Rav Chana bar Chanilay e lo alleggerì del peso dell’ascia; [Rav Huna] gli disse: “Se là dove vivi è tua abitudine portarla, fai pure, altrimenti non sono disposto ad acquisire onori attraverso la tua umiliazione”. Impariamo da questo passaggio che nonostante infamare il prossimo significhi provocare la sua vergogna per accrescere il proprio onore, malgrado ciò i devoti rifiutano questo onore anche quando gli altri sono consenzienti, se la conseguenza conduce all’onta altrui. E secondo lo stesso principio disse Rabbi Zera (ibid.): “Non sono mai stato ostinato nei confronti di qualcuno della mia famiglia. Non ho mai camminato davanti a una persona più importante di me, non ho mai pensato [parole di Torà] in luoghi maleodoranti, non ho mai camminato due metri senza Torà e Tefillin, non ho mai dormito né sonnecchiato nel Beit-Midrash[12], non ho mai gioito delle disgrazie altrui e non ho mai chiamato un amico con il suo soprannome”. Ecco quindi degli esempi di tutti i tipi di atti devozione elencati in precedenza. E dissero ancora i nostri Maestri di benedetta memoria (Talmud Bavli, trattato Baba Kama, 30a): “Disse Rav Yehuda: Colui che vuole essere un devoto, che applichi le leggi delle benedizioni[13]” cioè [gli obblighi] verso il Creatore, “e c’è chi suggerisce di applicare le leggi dei danni” cioè [gli obblighi] verso il prossimo, “e c’è chi suggerisce di applicare le Massime dei Padri”, che includono tutti i vari argomenti[14].
Anche fare del bene è un principio fondamentale della devozione, perché il termine usato per indicarla [‘Chassidut’] deriva dalla medesima radice del termine ‘bontà’ [‘Chessed’][15]. E dissero i Maestri di benedetta memoria (Massime dei Padri 1, 2): “Il mondo poggia su tre fondamenti” e uno di loro è rappresentato dagli atti di bontà. E i Maestri di benedetta memoria inclusero la bontà tra quelle azioni delle quali è detto che i frutti vengono mangiati in questo mondo e il capitale viene conservato per il mondo futuro 9. E dissero anche (Talmud Bavli, trattato Sotà 14a): “Rabbi Simlay spiegò: La Torà comincia con la bontà e termina con la bontà[16].” E dissero anche (Talmud Bavli, trattato Yebamot 79a): “Rava spiegò: tutti coloro che possiedono queste virtù provano di discendere da Abramo, il nostro patriarca: compassione, modestia e bontà.” E dissero (Talmud Bavli, trattato Sukkà 49b): “Disse Rabbi Elazar: la bontà è più importante della Tzedakà, poiché è detto (Osea 10, 12): ‘Seminate per voi con Tzedakà e raccoglierete con bontà’.” E dissero anche (Talmud Bavli, trattato Sukkà 49b): “La bontà è più importante della Tzedakà per tre motivi: a) la Tzedakà si compie con il proprio denaro, mentre gli atti di bontà si compiono con il proprio corpo; b) la Tzedakà viene elargita ai poveri, mentre le buone azioni vengono fatte a favore dei ricchi e dei poveri; c) si dà la Tzedakà solo a persone viventi, mentre si fanno buone azioni verso i vivi e verso i morti[17] 10.” E dissero anche (Talmud Bavli, trattato Shabbat 151b): “Il versetto (Deut.13, 18) ‘Ed ebbe pietà di te e fu clemente con te’ indica che Hashem è clemente con tutti coloro che sono clementi con le creature”. E questo è ovvio, perché il Santo, benedetto Egli sia, rende misura per misura (si veda il Talmud Bavli, trattato Sanhedrin 90a). E anche a chi ha compassione e agisce con bontà verso le creature sarà corrisposta la stessa clemenza nel suo giudizio e con bontà gli verranno perdonati i suoi peccati; infatti questo perdono è giustificato, perché rende misura per misura e questo è ciò che dissero i Maestri di benedetta memoria (Talmud Bavli, trattato Rosh Hashanà 17a): “Chi è colui il cui peccato [Hashem] sopporta? Colui che soprassiede al torto [ricevuto]”. Invece, è giusto perseguire con lo stesso suo rigore chi non rinuncia a impuntarsi oppure rifiuta di agire con bontà. Vedi ora, chi potrebbe resistere davanti al Santo, benedetto Egli sia, quando Egli lo giudica con stretto rigore 11? E il re David pregava dicendo (Salmi 143, 2): “Non chiamare a giudizio il tuo servitore, perché davanti a Te nessun essere vivente può aver ragione”. E infatti chi fa del bene verrà ricambiato con il bene; più ne fa, più ne riceverà. E David si compiaceva di questa sua virtù, che consisteva nel cercare di fare del bene persino ai propri nemici. È ciò che è detto (Salmi 35, 13): “Invece io, quando loro si ammalarono, mi cingevo di un sacco e mi mortificavo con il digiuno ecc.”; e disse anche (Salmi 7, 5): “Se mi sono vendicato con chi mi ha fatto del male ecc.”. E questa regola richiede anche di non far soffrire alcuna creatura e nemmeno gli animali: anzi, bisogna avere pietà di loro e preoccuparsene, infatti è detto (Proverbi 12, 10): “Il saggio conosce l’animo della sua bestia”. E secondo l’opinione di alcuni, [il divieto di] causare dolore agli animali è un precetto della Torà; in ogni caso, è perlomeno rabbinico. La regola generale richiede che la bontà e le azioni di beneficenza siano per sempre radicate nel cuore del devoto, che sarà sempre teso a procurare soddisfazioni agli altri e non farli mai soffrire, ecc.
Note del traduttore:
[1] Questi residui sono le componenti della Mitzvà che non sono indispensabili per il suo compimento. Tuttavia sono importanti per arginare le avversità (Rashi).
[2] Compiere atti di bontà verso il prossimo.
[3] Perfino oltre la distanza a partire dalla quale ciò sarebbe permesso, cioè quattro cubiti, circa due metri.
[4] Si tratta ovviamente del Kidush che viene recitato sul vino durante lo Shabbat e nelle feste.
[5] Si tratta di persone sedute per terra.
[6] Il Bet Midrash è la casa di studi di Torah.
[7] Il Cohen viene onorato dandogli la precedenza.
[8] Cioè Rav Nechunia non ha mai serbato rancore contro chi gli ha causato un torto, perdonandolo il giorno stesso, prima di coricarsi.
[9] Dal trattato Peà 1, 1.
[10] La Torà narra un caso lampante di bontà verso un morto, quando (Genesi 47, 29-31) Giacobbe chiede in punto di morte a suo figlio Giuseppe di ‘agire con bontà verso di lui e di non seppellirlo in Egitto’, bensì in Terra d’Israele. Gli atti di bontà verso i morti vengono chiamati ‘vera bontà’, perché vengono fatti senza attendere ricompensa alcuna. L’esempio più evidente è quello di chi dice Kaddish (o compie un’altra Mitzvà) in favore di un defunto. È forse il caso di ricordare qui l’importanza di dire tutti i Kaddishim per i propri cari, durante il primo anno dopo la sepoltura e in occasione degli anniversari. Possiamo citare Chaye Netzach (la vita eterna), un’organizzazione che raggruppa migliaia di volontari, ognuno dei quali ‘adotta’ un ebreo o una ebrea deceduti senza lasciare nessuno che si occupi di recitare il Kaddish e acquisire altri meriti per elevare l’anima del defunto. Questo è forse il più alto esempio di bontà che abbiamo incontrato, perché fatto in favore di sconosciuti che non sono ovviamente più in grado di ricambiare questo favore. [11] Conosciamo tutti le nostre mancanze e sappiamo che se Hashem non ci giudicasse con clemenza non avremmo nessuna chance.
Commento
[1] Secondo alcuni è più difficile operare il tiqqun per i rapporti con il prossimo che per quelli con il Cielo, e per questo sono citati per ultimi. Altri ritengono che siano superiori i rapporti con il Cielo, perché la Torah, relativamente ad Avraham, dedica molto spazio alla legatura di Ytzchaq, mentre accenna appena alla proverbiale ghemilut chasadim di Avraham.
[2] Nella ghemarà in Sukkah (38a) questo principio, valido anche per il lulav, i cui movimenti hanno uno scopo protettivo, si apprende dall’agitazione (tenufah) dei sacrifici, che ha una funzione espiatoria e protettiva, sebbene non sia un elemento indispensabile, tale da intaccare la validità del sacrificio stesso (Rashì).
[3] Nella Mishnah in Avot (6,6) questo è uno dei 48 strumenti con i quali si acquisisce la Torah. L’esempio che i commentatori riportano è quello di Mosheh, che vedendo l’afflizione dei figli di Israele si strugge per loro, o li aiutava nel lavoro fisico.
[4] Il Pele Yoetz (voce Vatranut) ricorda che anche nella beneficenza a scopo di mitzwah esiste un limite, per il quale un decimo dei propri beni è da considerarsi una misura accettabile. In ogni caso esagerare con i beni altrui è da considerarsi esecrabile, in particolare se questo avviene a sua insaputa e senza il suo permesso. D’altra parte, una volta che si è realizzato che l’altro acconsentirebbe, non bisogna essere eccessivamente parchi. Questo discorso riguarda principalmente i gabaè tzedaqah, che devono comportarsi equilibratamente in relazione al tempo e al luogo.
[5] In questo passo il Ramchal parla di una mitzwah della chassidut, perché rientra nella mitzwah di “andare nelle Sue vie” (wehalakhtà bidrakhav). H, stesso è definito chassid (chassid bekhol ma’asaw).
[6] La domanda della ghemarà non è chiara, perché la Torah parla varie volte di allungamento di giorni per la pratica delle mitzwot. Evidentemente questi maestri furono più longevi dei loro compagni, che praticavano le mitzwot assiduamente. C’è da notare che questi maestri rispondendo dicono sempre miyamai, vale a dire che riportano aspetti ai quali sono stati attenti per tutta la vita, e non degli atti estemporanei. Inoltre il loro merito era quello di non aver mai disatteso al loro impegno.
[7] Il Rashbà scrive che è evidente che si sta parlando del qiddush sul vino, perché avrebbe potuto recitarlo sul pane, ma, nonostante la sua povertà ogni settimana faceva in modo di avere del vino a disposizione.
[8] Non è chiaro perché la chassidut venga attribuita a R. Yochanan ben Zakkai se l’atto meritorio è stato compiuto dalla madre: il fatto che abbia mancato unicamente in quella occasione è dimostrazione di quanto fosse attaccato a questa mitzwah.
[9] Risulta che ci sono tre tipi differenti di appellativi: a) quelli riferiti ad un invalidità familiare, molto gravi, che portano alla perdita del mondo futuro b) quelli dispregiativi, che sono vietati dal din c) quelli non dispregiativi, che il chassid non utilizza.
[10] Secondo il Rashbà si parla di un caso particolare, perché in assoluto sarebbe vietato, quello in cui c’era una strada che passava di lì precedentemente. Secondo il Meirì intende dire che non è mai entrato con quella intenzione.
[11] Quando c’era bisogno cambiava strada per non passare in mezzo a loro, così spiega il Meiri.
[12] Secondo il din (Orach Chayim 151,3) sarebbe permesso, per un talmid chakham dormire (Levush), o sonnecchiare (Shakh).
[13] Poiché è vietato godere delle cose di questo mondo senza avere recitato la berakhah, il Rashbà riferisce questa espressione a quanto facevano i primi chassidim, che attendevano un’ora prima di recitare la ‘amidah, o pregare come i vatiqin con una profonda concentrazione.
[14] Il Maharshà scrive che attraverso le proprie azioni si può fare del bene agli altri, a se stessi, o al cielo, e le tre opinioni che compaiono nella ghemarà riflettono i tre aspetti differenti: i danni verso il prossimo, i Pirqè avot verso se stessi, perché per mezzo di essi si migliorano le proprie middot, le berakhot verso il cielo.
[15] Da altri passi sembrerebbe che la chassidut riguardi i rapporti con il cielo, e che chi si comporta con chesed nei confronti delle creature sia lontano dalla chassidut.
[16] Nella parashah di Bereshit infatti H. vesti Adam e Chawwah con tuniche di pelle e in Wezot ha-berakhah seppellì Mosheh.
[17] Non è chiaro perché il Ramchal riporti questo insegnamento qui, poiché la ghemarà intende dire che quando si pone una scelta, bisogna prediligere la ghemilut chasadim. Il Maharal in Netivot ‘olam (2,2) spiega che chi fa tzedaqah in realtà risponde ad un’esigenza, trovandosi di fronte un povero, mentre chi fa ghemilut chasadim mostra di essere buono, indipendentemente dagli stimoli esterni.