Mario Pirani. Ritratto dell’Italia attraverso una vita
Eugenio Scalfari
Qualche tempo fa ho recensito un libro di Alfredo Reichlin intitolato Il midollo del leone superando dentro di me la difficoltà di parlar bene dell’opera d’un caro e vecchio amico. Quel libro, che univa insieme storia politica e vicende personali, era molto piaciuto e l’amicizia non credo abbia fatto ombra all’oggettività del giudizio. Mi accingo ora ad affrontare un compito un poco più arduo: l’autore del libro del quale oggi voglio scrivere, e che si intitola Poteva andare peggio (Mondadori, pagg. 440, euro 20), non è soltanto un amico ma anche un collega che fu tra i fondatori di Repubblica, ci lasciò dopo tre anni, ritornò dopo altri sei e da allora è sempre rimasto con noi. «Ritorno a casa», si intitola l’ultimo capitolo del volume di Mario Pirani; questo giornale è stato dunque la sua casa e a me fa grande piacere sentirglielo dire anche se accentua la difficoltà di recensirlo col dovuto e oggettivo distacco.
Prometto ai lettori che ce la metterò tutta per esprimere un giudizio compiuto e motivato, ma era mio dovere avvertirli affinché prendano essi stessi le loro misure. E comincio subito col dire che il libro è bello quanto insolito.
Anche questo, come quello di Reichlin, mette insieme la storia del paese e la biografia dell’autore, ottant’anni raccontati con una prosa scorrevole, molto più da romanzo che da saggio. Descrive personaggi, vicende, episodi, passioni, amori, intrighi politici, strategie imprenditoriali. Su questo lungo percorso che ha il suo inizio negli anni Trenta dello scorso secolo incombe la personalità dell’autore che porta dentro di sé un deposito culturale di ebraicità e insieme di laicità che hanno profondamente connotato le sue scelte, i suoi comportamenti, le sue simpatie e le sue idiosincrasie. Insomma la sua vita, gli elementi di forza e quelli di debolezza.
L’esergo del libro è una frase di Camus che privilegia il dialogo rispetto al combattimento. In realtà Camus dialogò combattendo con gli scritti, con i pensieri e con l’azione. Pirani, anche lui ha dialogato combattendo ma il “combat” l’ha subito, gli è stato imposto dalle circostanze, non è stato una sua libera scelta.
Il libro descrive il nucleo dominante di questa vicenda e della personalità del protagonista: un ebreo laico, tanto più ebreo perché laico e tanto più laico perché ebreo. Chi per tanti anni l’ha avuto compagno di lavoro giornalistico, quella sua duplice dominante l’ha vista all’opera e può dunque testimoniarne l’autenticità.
La prima parte ha inizio con l’autore bambino e si chiude con i suoi vent’anni, alla fine dell’adolescenza: il decennio degli anni Trenta e gli anni della guerra fino al 1946, con l’approdo al Partito comunista italiano.
Sono le pagine più vive, più innocenti, nelle quali la gioia di vivere propria dell’età infantile è rafforzata dagli agi di cui gode la famiglia del protagonista, la madre bellissima ed elegante, il padre al vertice d’una prestigiosa carriera di amministratore della società Ciga, proprietaria di grandi alberghi a Venezia, a Roma, a Firenze. L’ambiente e l’aria che vi si respira sono quelle dell’età del jazz, entrato in italia e a Venezia in particolare dalla fessura aperta dal giovane Galeazzo Ciano e dal suo gusto di frequentare le famiglie di grande lignaggio per notorietà o per ricchezza e potenza del “business”.
È in questi luoghi di opulenza che i Pirani vivono quegli anni, in una società separata dal resto di un’Italia chiusa in se stessa, immiserita dall’autarchia oltre che dalla crisi economica mondiale, confinata nel suo provincialismo, nel suo “dopolavorismo” di regime, nel suo mediocre obiettivo di potere avere “mille lire al mese” di stipendio.
Le canzoni dell’epoca sono lo specchio più verace di quell’italia piccolo-borghese e il contrasto è perfettamente raccontato e vissuto dal bambino di otto anni che frequenta con i genitori il Lido, le lussuose tende che costellano la spiaggia, gli spettacoli della Fenice, i caffè di San Marco e dei campielli di Dorsoduro.
Passano gli anni e affiorano le prime pulsioni erotiche che l’autore racconta con disarmante e pruriginosa innocenza, i primi vestiti da ometto, le musiche americane che fino all’inizio degli anni Quaranta riuscirono a filtrare attraverso le colonne sonore dei film in concorso alla Mostra del cinema, Armstrong e Gillespie invece di Rabagliati e di Natalino Otto, Dino Grandi e il conte Volpi anziché Starace e i gerarchi del Foro Mussolini.
Ma d’improvviso il tono del racconto cambia e da deliziosamente futile e leggero diventa cupo e drammatico: le persecuzioni razziali, la guerra, il trasferimento a Roma e poi in Abruzzo di paese in paese, mentre aumentano la paura e le ristrettezze economiche, i bombardamenti, le deportazioni. Insomma il nazismo in tutta la sua orrenda crudeltà che il bambino degli anni dorati vive da adolescente braccato, accanto ad una madre ormai sfiorita e un padre costretto a fuggire in Francia sperando di potersi nasconder meglio a Parigi che non nelle montagne inospitali della Maiella.
Infine la liberazione, l’arrivo della divisione polacca che combatteva con l’Ottava armata di Montgomery, il ritorno a Roma e la scelta del giovanissimo protagonista di iscriversi al Partito comunista.
Scelta obbligata? No, perché le abitudini e l’aria che circolava in quella famiglia erano cosmopolite, occidentali, liberali. E tuttavia l’ebreo errante che viveva dentro la corteccia di quel giovane aveva bisogno di un approdo solido, d’un rifugio sicuro, di certezze protettive. Un bisogno di assoluto che gli consentiva di avanzare, assumere responsabilità e poteri di comando. Obbedire per poter comandare.
Questa è la motivazione reale di quella scelta. Pirani non la confessa perché le sue motivazioni razionali sono diverse, ma il racconto così radicalmente e candidamente sincero conduce chi lo legge a questa conclusione che lo impigliò, come piccolo funzionario prima e poi come dirigente, dentro le maglie dell’ideologia ma soprattutto in quella sorta di tagliola psicologica dell’obbedire per comandare che emerge dalle pagine del libro. In particolare da quelle, coloritissime e godibilissime, del Festival della gioventù a Praga, pieno di impreviste peripezie, dove il gregario svela una vocazione di leader che spesso lo conduce a passi arrischiati cui seguono richiami all’ordine e ricerche di nuove amicizie politiche dentro la complessa struttura de! centralismo comunista.
Racconti analoghi li scrisse Enzo Bettiza che fece analoga esperienza sulle terre della sua Istria, ma l’ambiente era diverso, diverse le dinamiche e soprattutto le personalità dei due protagonisti.
I fatti d’Ungheria portarono rapidamente Pirani fuori dal Pci insieme a Fabrizio Onofri e ad Antonio Giolitti, La coscienza liberale non poteva accettare una ferita così palese e un tradimento allo spirito democratico che il partito di Gramsci aveva promesso ai giovani che erano entrati nel ’45 nelle sue file, motivati dall’antifascismo e dalla Costituzione repubblicana.
Mario però non entrò, come altri suoi compagni fecero, nel Partito socialista. Aveva maturato, dopo l’iniziale infatuazione, un’idiosincrasia verso i partiti. Non verso la politica, che è sempre rimasta la sua passione dominante, ma verso ideologie che sconfinavano nell’utopia di futuribili inconcreti.
L’amico Giorgio Ruffolo, che dirigeva da tempo il servizio delle comunicazioni esterne dell’Eni, gli propose di affiancarlo con il mandato specifico di coltivare i rapporti con il Fronte di liberazione algerino. Gli presentò Enrico Mattel. Il colloquio con il capo dell’Eni è una delle pagine più avvincenti del libro. Fu assunto e cominciò la mattina dopo. Gli fu offerta la “stazione” che l’Eni aveva aperto in Tunisia e da lì, per alcuni anni, fu lui a tessere la rete con gli algerini affrontando i rischi d’un compito clandestino e avventuroso
Enrico Mattei morì nel 1963. Le circostanze sono note anche se una versione univoca dei fatti ancora non c’è stata, tra la tesi dell’incidente e quella dell’omicidio premeditato. Mi è sembrato di capire che Mario propenda più perla seconda che per la prima. Comunque la scomparsa di Mattel faceva comodo a molti nel mondo politico, in quello dei servizi segreti, nella mafia, in Francia, in Israele, in America, in Gran Bretagna.
Con la sua scomparsa molte cose cambiarono nella Dc e all’interno dell’Eni. Spuntava la procellosa stella di Eugenio Cefis. Pirani era stato troppo intimo del fondatore dell’Eni per continuare con il suo successore. Fu invitato a restare ma si rese conto che era un invito a fiordi labbra e preferì farsi trasferire al Giorno dove ebbe inizio la sua stagione giornalistica che dura tuttora.
Ha passato quarantasette anni, più di metà della vita in questa professione, ma ad essa dedica poco spazio. In realtà il suo libro diario si ferma con la morte di Mattei. Ciò che viene dopo è annotato con pochi tratti di penna, quasi per pura completezza d’informazione, salvo due vicende. Una, privata e sentimentale, il suo rapporto amoroso con Barbara Spinelli; l’altra la direzione de L’Europeo che gli fu affidata dall’editore Ruzzoli con la malleveria politica di Claudio Martelli e del Psi. Correva l’anno 1979, Pirani lasciò Repubblica per tentar la sorte con quel settimanale che era stato fondato tanti anni prima da Arrigo Benedetti ma che non aveva più niente a che vedere con quel glorioso passato.
Ci restò pochi mesi, la sua uscita coincise con l’arrivo della P2 al Corsera e a quel che ne seguì.Francamente mi riesce difficile capire il perché del sostanziale silenzio dell’autore su un arco di anni così ricco anche per lui d’ incontri e di tumultuose vicende giornalistiche, politiche, economiche, culturali. Faccio solo pochi nomi che esercitarono grande influenza su quel periodo e dei quali Pirani si occupò come giornalista, editorialista e scrittore: Fanfani, Moro, Andreotti, Gianni Agnelli, Guido Carli, Nenni, Craxi, Romiti, Cefis, Cossiga, Berlinguer, Berlusconi, D’Alema, Veltroni, Fini.
Ce ne sarebbero di cose da scrivere e Pirani ne ha scritto ininterrottamente, ma in questo suo libro non ce n’è praticamente traccia. Credo che il motivo di questo silenzio riguardi un problema di distacco.Molte di quelle vicende sono ancora in corso e l’autore deve aver pensato che gli mancasse la lontananza necessaria per filtrarle con la lente della memoria, dell’ironia, del racconto e infine di quella realtà romanzata e romanzesca che è il pregio delle autobiografie. Ed è infatti il pregio di questo libro che il riserbo su fatti ancora troppo caldi ha salvaguardato.