Antonio Di Gesù (nell’articolo è “Rav Antonio”), è il secondo convertito italiano (ex-ortodosso) che prende la guida di una comunità riformata dopo il milanese Haim Cipriani (Kolòt)
Cecilia Tosi
C’é una sinagoga nuova in città. O meglio: presto ci sarà. Lo promettono gli ebrei di Beth Hillel, un gruppo nato quest’anno a Roma per creare la prima comunità riformata della Capitale. In Italia i riti si svolgono solo in sinagoghe di fede ortodossa, dove le regole dei libri sacri sono vissute come intangibili. Nel mondo, specie negli Usa, esistono invece molti gruppi riformati, che interpretano le norme religiose alla luce dei tempi. Roma non si è mai aperta a questa prospettiva e i luoghi di culto ricadono sotto l’autorità del rabbino capo. Almeno, così è stato finora.
La prima occasione per presentare la nuova comunità al “pubblico” è stato Yom Kippur: in piazza Margana, tra i vicoli del ghetto, si festeggiava il Giorno dell’Espiazione in modo diverso dal solito. «Sono andato ad assistere al rito al mio tempio abituale, poi ho fatto un salto là», racconta Gadiel. «Quando sono arrivato in piazza Margana ho avuto una sensazione positiva, il clima era più informale del solito, i bambini accolti con entusiasmo e non costretti a stare sull’attenti. E poi, ho visto una donna davanti al testo sacro, questa sì che è una novità: di solito alla lettura si alternano solo uomini». Le donne, i bambini, i gay, le coppie miste. Nessuno deve essere messo da parte, secondo la comunità riformista. «Inclusività. Di questo avevamo bisogno», spiega Franca, che si considera pienamente ortodossa ma condivide questa iniziativa. «Qui a Roma una ventata di intransigenza spinge a un’attenzione eccessiva verso i dettagli, al di là della grande tradizione. Una volta ogni comunità ebraica aveva una sua identità legata al territorio, ora la globalizzazione ha omogeneizzato tutto, cristallizzando le norme dell’ortodossia. E l’Italia è l’unico Paese dove l’intesa con lo Stato riduce a una sola le comunità riconosciute».
A peggiorare le cose, secondo alcuni ebrei romani, è stata la nomina di Riccardo Di Segni a successore del rabbino capo Toaff. La nuova leadership, pur molto autorevole, è più rigida e non lascia spazio a compromessi. Soprattutto sul problema dei matrimoni misti, che hanno come effetto l’esclusione della coppia e dei loro figli dalla comunità. «Anche chi è ortodosso ha visto i limiti della sinagoga quando si è scontrato con l’intransigenza del rabbino», sostiene Gadiel. «Ad esempio, quando un uomo si sposa con una non ebrea la soluzione è che la moglie affronti un percorso di conversione, che però è stato reso molto difficile».
«Certe persone considerano troppo rigide le regole ebraiche, ma troppo facile cercare deroghe quando se ne ha bisogno». La pensa così il rabbino Enzo Di Castro, oggi in pensione ma per dieci anni stretto collaboratore di Toaff e per un breve periodo di Di Segni. «Molti non accettano le norme sulla conversione, specie quando ci sono di mezzo i bambini. Ma non è ammissibile che ognuno faccia come gli pare. La nascita di una comunità riformata è un danno per l’ebraismo ortodosso. Ogni tendenza alla riforma si è rivelata perniciosa per una comunità che da migliaia di anni sopravvive grazie alla regola. Se perdi la tradizione, se scegli l’assimilazione, l’ebraismo muore». Eppure gli ebrei delle nuova comunità non vogliono perdere la tradizione, la vogliono rivivere. Daniele, che proviene dalla comunità tripolina e per anni ha cercato di ricostruire a Roma una vita da ebreo osservante, oggi sente l’esigenza «di ritrovare il vero spirito dell’ebraismo, di un rabbino che sia più pastore e meno giudice, come papa Francesco per i cattolici». La guida che hanno trovato si chiama Rav Antonio e viene appositamente da Gerusalemme una volta al mese per celebrare i riti dello shabbath. E giovane, sorridente e molto alla mano. «Sono fortunato. E il sogno di ogni rabbino avere una propria comunità da forgiare sin dall’inizio. Nonostante le nostre differenze sul ruolo delle donne, i figli di matrimonio misto, l’omosessualità, speriamo di poter dialogare con il resto dell’ebraismo romano e vogliamo anche aprire al dialogo con le altre comunità religiose. Io ho vissuto grandi esperienze di incontro, persino con monaci buddisti e scintoisti. Ci auguriamo anche di essere impegnati nel sociale, come avviene nella maggior parte delle comunità ebraiche americane, che nell’80 per cento dei casi sono non ortodosse».
«Negli Usa funziona diversamente», spiega il rabbino Di Castro, «ogni sinagoga è autonoma, come un club a sé stante. A Roma invece i tempi ricadono sotto l’autorità dell’ufficio del rabbino e non è possibile altrimenti. Vorrei chiedere alle persone della nuova comunità: perché le vostre regole dovrebbero essere migliori di quelle che ci hanno governato per millenni?». «Non abbiamo la pretesa di essere migliori, crediamo solo nel pluralismo ebraico», ribattono i membri di Beth Hillel. «Noi non vogliamo rompere, ma crediamo che loro non ci riconosceranno e non vorranno contatti con noi. Alcuni sono più disponibili, ma solo a considerarci l’anello più lontano di un sistema di cerchi concentrici, dove noi abbiamo libertà d’espressione ma solo loro, il nucleo, possono occuparsi di nascite, nozze e conversioni». La nuova sinagoga, però, nascerà comunque. La scadenza è fissata a giugno e i riformatori sono in cerca di una sede non lontana dal ghetto, per permettere a chi rispetta lo shabbath – e non prende l’auto di sabato – di venire a piedi. Forse arriveranno in pochi, scoraggiati dall’ostilità della comunità d’origine. Ma il tempio lascerà comunque la porta aperta.
Left, 14.12.2014
Grazie a Shalom 7 per la segnalazione
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