Limmud in memoria di Stella Lattes Bassi z.l. – Nella ricorrenza degli 11 mesi dalla sepoltura
All’iniziò della parashah di Wayetzè la Torah afferma che Ya’aqov uscì da Beer Sheva per recarsi a Charan. I commentatori si chiedono la necessità di ripetere che Ya’aqov uscì da Beer Sheva, fatto del quale eravamo già a conoscenza. Rashì spiega che l’uscita di uno tzadiq dalla città lascia il segno, perché assieme a lui esce anche lo splendore dalla città. L’uscita di una Stella anche nel nostro caso ha lasciato un segno; per questo volevo parlare in maniera abbastanza concisa dell’uscita delle stelle nella tradizione ebraica.
L’uscita delle stelle è un concetto fondamentale nella halakhah, perché determina l’inizio della notte, e visto che la giornata ebraica inizia dalla sera, del giorno in generale.
La fonte dell’espressione tzet ha-khokhavim è nel libro di Nechemiah (4,15-16); quel brano fissa anche l’uscita delle stelle come inizio della notte: “Così menavamo il lavoro, dallo spuntar dell’alba fino all’apparir delle stelle, mentre la metà della mia gente teneva impugnata la lancia… così ci serviranno di guardia di notte e come truppa di lavoro di giorno”.
La determinazione del momento ha conseguenze halakhiche notevoli, sia per stabilire l’orario della tefillah serale, sia per stabilire l’entrata e l’uscita delle feste, oltre al calcolo dei giorni della milah e della niddah.
La visibilità delle stelle sono solamente un “segno” della notte, e non una causa: quando il mondo è stato creato la Torah parla di giorno e di notte anche in assenza dei luminari e delle stelle, che verranno creati solamente nel quarto giorno. E’ possibile quindi che vi sia notte senza stelle. Gli aspetti essenziali e caratterizzanti del giorno e della notte sono la luce e il buio. La luce dei primi tre giorni della creazione non è la luce dei luminari, ma quella creata nel primo giorno. Il Ramban nel suo commento alla Torah ritiene che tale luce, una volta creata, sia stata trattenuta di fronte ad H., senza diffondersi, perché se si fosse diffusa prima della notte avremmo un brevissimo giorno in più nella creazione, precedente gli altri.
I chakhamim hanno discusso sulla natura del buio, se debba essere considerato assenza di luce o un’entità indipendente. Rav Sa’adiah gaon per esempio propende per la prima ipotesi. Questa concezione è tuttavia messa in crisi da un verso esplicito nel libro di Yesha’iahu (45,7), ripreso nella prima berakhah che precede lo Shemà del mattino, secondo la quale H. è “colui che forma la luce e crea l’oscurità”, oltre ad un brano della ghemarà nel trattato di Chagigah (13a), che annovera l’oscurità fra le dieci cose create nel primo giorno della creazione. Per questo molti commentatori, primi fra tutti il Maharshà e il Gherà considerano l’oscurità una creazione a sé stante.
Alla fine della giornata si individuano tre momenti fondamentali, il tramonto (sheqi’ah – il sole scende sotto l’orizzonte e non è più visibile; si tratta di un momento preciso), ben ha-shemashot (che segue il tramonto – si tratta di un momento intermedio, nel quale non è ne’ giorno ne’ notte), uscita delle stelle (zet ha-khokhavim). Con il tramonto la quantità di luce inizia a calare, e le stelle iniziano ad essere visibili. Le stelle più grandi non vengono considerate, perché sono visibili anche di giorno, mentre sono considerate le cosiddette stelle medie. R. Pinechas a nome di R. Abbà nel Talmud Yerushalmì, all’inizio del trattato di Berakhot, specifica che quando esce una sola stella è certamente giorno, con due stelle si è in dubbio se sia giorno o sia notte, tre stelle è certamente notte. I tannaim discutono sulla durata di ben ha-shemashot: R. Yehudah sostiene, usando un riferimento empirico, che è tutto il tempo in cui il cielo a oriente è rosso in alto, mentre l’orizzonte è già scuro, sino a quando non scurisce in maniera uniforme (hiksif ha-tachton welò hikhsif ha-’elion); da allora in poi è certamente notte. R. Nechemiah si avvale invece di un criterio temporale, e sostiene che ben ha-shemashot si protragga per il tempo in cui si percorre mezzo miglio; secondo R. Yosi il passaggio dal giorno alla notte, perché ben ha-shemashot dura quanto un battito di ciglia.
La ghemarà, adattando l’affermazione di R. Yehudah alle categorie di R. Nechemiah, conclude che ben ha-shemashot si protrae per il tempo necessario a percorrere ¾ di miglio. Troviamo una lettura totalmente diversa dell’opinione di R. Yehudah nel trattato Pesachim (94b). Secondo questa lettura l’uscita delle stelle segue il tramonto del tempo necessario a percorrere 4 miglia. Per risolvere la contraddizione circa l’opinione di R. Yehudah, molti rishonim, fra cui R. Tam, hanno scritto che ci sono due tramonti, dei quali il secondo viene 3 miglia e ¼ dopo il primo. Per lo Shulchan ‘Aurkh, il Ramà ed altri accolgono l’opinione di R. Tam. Molti altri seguono invece la lettura dei Gheonim, che prevede un unico tramonto e l’uscita delle stelle dopo il tempo necessario a percorrere ¾ di miglio.
Altro aspetto importante da fissare è la determinazione del tempo necessario a percorrere un miglio. Vi sono tre opinioni principali in merito, 18 minuti, 22 minuti e mezzo, 24 minuti. La stessa misura del miglio è oggetto di discussione, 960 o 1152 metri.
Tre sono gli usi principali per il calcolo dell’uscita delle stelle: a) 18 minuti dopo il tramonto; b) 72 minuti dopo il tramonto; c) 40 minuti dopo il tramonto.
All’uscita di Shabbat, per via della necessità della tosefet shabbat, i poseqim hanno scritto che è necessario, per poter compiere un lavoro, vedere tre stelle piccole e vicine; per questo si usa attendere, in base agli usi, dai 40 ai 90 minuti dopo il tramonto (l’uso di Torino è di attendere 51 minuti).
Come è risaputo, la prima Mishnah nel trattato di Berakhot, che riguarda la lettura dello Shemà della sera, indicando l’orario minimo per la lettura, anziché menzionare l’uscita delle stelle, richiama il momento coincidente in cui i kohanim, resosi impuri, potevano mangiare nuovamente la terumah a loro destinata. Rav Kook in ‘En Aiah spiega che la notte rappresenta la condizione del popolo ebraico nell’esilio. In questo tempo in cui non c’è la chiarezza della luce del giorno, il popolo ebraico è avvolto dall’oscurità, senza vedere i grandi luminari che può vedere in terra di Israele. Il verso nei Tehillim (92,3) “annunziare ogni mattina la Tua benignità e la Tua fedeltà nella notte” viene inteso così: quando c’è la luce del giorno, si può affermare con chiarezza la misericordia divina, nella notte, nell’esilio, questa non è immediatamente percepibile, ed è necessario un atto di fede. Il legame fra la sera e i kohanim spiega qual è il ruolo del popolo ebraico in esilio, che deve rivolgersi a se stesso per poter sopravvivere. Il compito del ruolo ebraico è quello di diffondere il Nome divino fra le nazioni, ma questo non è sempre possibile. In questi momenti il popolo ebraico deve rafforzarsi spiritualmente in attesa di tempi migliori. Questa condizione è simile a quella dei kohanim che mangiano la terumah, perché questa offerta è vietata agli estranei. Il compito dei kohanim è principalmente quello di insegnare la Torah e rivolgere i propri insegnamenti all’esterno, ma a volte i kohanim rimangono soli con se stessi, quando mangiano la terumah, è in tal modo costruisce la sua spiritualità.
Il libro di Zekhariah (14,7) parla dei giorni futuri, aperti da “un giorno tutto particolare, conosciuto solo dal Signore: non giorno e non notte, e verso sera apparirà la luce. Il Gri”z di Brisk spiega che in questo modo tutti sapranno che anche l’oscurità è una creazione divina. Allora, alla fine del giorno, vedremo di certo di nuovo una Stella.