Rav Giuseppe Laras
Stupefacente l’articolo di Vittorio Messori pubblicato sulla Terza Pagina» del Corriere sabato scorso. Per incominciare, egli si duole che l’invito di Barbara Spinelli rivolto dalla Stampa a Israele e all’Ebraismo perché pronuncino un solenne e corale «mea culpa» per «le responsabilità in Medio Oriente» non sia stato prontamente raccolto dagli ebrei di tutto il mondo. Anzi, gli sembra addirittura inaudito che, nel corso di una recente trasmissione televisiva sull’argomento, un cittadino ebreo dello Stato d’Israele (con la famiglia sterminata ad Auschwitz) abbia osato dire che «gli ebrei non devono chiedere scusa di niente a nessuno». Dichiarazione gravissima per un ebreo – secondo Messori – perché indicherebbe la non conoscenza della Torah «per la quale anche il giusto pecca ogni giorno settanta volte sette»! Qui il moralista si fa esegeta.
Peccato che le sue cognizioni bibliche e la sua abilità ermeneutica si mostrino quanto mai incerte e zoppicanti. Tale espressione nella Torah non esiste! Più semplicemente, confonde, equivoca e pasticcia su quanto scritto in Genesi IV, vv. 15 e 24 relativamente al divieto di uccidere rispettivamente Caino e Lèmech. Nel primo caso, chi lo facesse meriterebbe una pena 14 volte (2 volte 7) superiore a quella spettante a Caino, nel secondo 77 volte.
Il brano è notoriamente enigmatico. Ma come e da dove Messori ricavi che – per la Torah – «il giusto pecca ogni giorno settanta volte sette» non è dato sapere. Forse confonde con Kohèleth (che appartiene però agli Agiografi) quando afferma: «Non esiste sulla terra un uomo tanto giusto che compia il bene senza mai peccare» (VII, 20). Ma, anche se così fosse, l’assunto di Messori non sarebbe comunque dimostrato, e la frase di Kòheleth proporrebbe, in termini di universalità, una riflessione sulla non assoluta perfezione degli esseri umani, il che, già di per sé, costituirebbe una salutare lezione di modestia e di umiltà, valevole per tutti, ebrei o cristiani che fossero.
Il riferimento, poi, al peccato originale alle cui conseguenze nessuno («ad eccezione di Maria») sfuggirebbe, ebrei compresi , fa toccare con mano i rischi di banalizzazione a cui ci si espone, allorché si sfiorano tematiche teologiche, delicate e profonde, con una leggerezza troppo disinvolta. Con lo stesso ragionamento aprioristico, però capovolto, potrei anch’io affermare che, per la dottrina dell’ebraismo, la conseguenza del peccato originale di Adamo è la perdita dell’immortalità dell’umanità, il che, come fondamento di fede, deve valere sia per gli ebrei che per i cristiani! Ma l’intento di Messori non è stato ancora completato.
Sotto l’influenza dell’ apocalittico pontificato di Giovanni Paolo II, caratterizzato dalla «purificazione della memoria» (il «mea culpa» della Chiesa, per capirsi), l’autore del pezzo si chiede – «visto che si parla di giudaismo» – chi gli potrà spiegare quello che in anni di «ricerca e di riflessione» non gli è stato dato mai di capire.
Ciò che vorrebbe sapere da una voce ebraica è se gli ebrei sono o meno pronti a chiedere scusa «almeno per qualcosa». A tale ossessivo turbamento lo induce il testamento del filosofo ebreo Henri Bergson che nel 1937, poco prima della morte, dopo aver scritto di essere stato sempre più condotto dalle sue riflessioni verso la religione cattolica, nella quale egli vedeva la realizzazione del giudaismo, affermava di vedere avvicinarsi un’imponente ondata di antisemitismo, dovuta «in gran parte, ahimè, per colpa di un certo numero di ebrei interamente privi di senso morale». Che cosa significa ciò?
Significa, se vogliamo ben ragionare e correttamente dedurre, che, in base alle sue personali esperienze, Bergson si era convinto che un certo numero di ebrei, privi di senso morale, erano in gran parte responsabili dell’antisemitismo che colpiva la Francia negli anni ’30. E con questo? Ognuno, sulla base delle proprie personali esperienze e con le capacità deduttive che gli riesce di estrinsecare, si convince di qualche cosa. Non è però detto che ciò sia sempre necessariamente vero, in senso oggettivo. Con tutto il rispetto dovutogli, il filosofo Bergson non era infallibile né assimilabile all’oracolo di Delfi!
Questa spiegazione, però, non appare convincente a Messori, il quale «conoscendo e amando l’equilibrio straordinario del Bergson filosofo e uomo», argomenta che quelle parole devono certo essere state soppesate una ad una e quindi (udite!) assumere un valore assoluto e universale di certezza e di inconfutabilità.
Tuttavia, Messori chiede aiuto e lumi agli ebrei, perché non può rassegnarsi ad ammettere né che Bergson abbia voluto diffamare i suoi fratelli «circoncisi» (sic!), né che all’origine dell’antisemitismo europeo vi sia «qualcosa di non ancora detto e di non chiarito, qualcosa cioè che merita di essere indagato, pena la riapparizione dei mostri». Capito?!
Che cosa può esserci ancora di non chiarito alla base del razzismo e dell’antisemitismo se non la responsabilità degli stessi ebrei, cioè delle vittime, che con il loro comportamento immorale hanno giustificato le persecuzioni, gli assassinii, i campi di concentramento, le torture e tutto il resto? Si arriva a risuscitare l’«inciso» del testamento di Bergson per riproporre la prospettiva negazionista, che ha come conseguenza – volenti o nolenti – di alleggerire di responsabilità le dottrine di morte del nazismo e del fascismo. Rattrista constatare – in un contesto generale tormentato e rischioso come l’attuale – come stereotipi e veleni di antica o recente matrice anti-giudaica vengano improvvidamente riproposti all’interno di un discorso drammatico (Israele-Palestina) che è e deve essere affrontato in modo politico.
Corriere della Sera 7/11/2001