Lezione in occasione della giornata per la conoscenza dell’Ebraismo – Visita dell’Arcivescovo di Torino, Mons. Nosiglia, alla Comunità Ebraica di Torino del 7/2
L’ultima delle dieci parole, sebbene sia nota praticamente a tutti, merita una riflessione, perché all’interno di questo precetto troviamo numerose distinzioni, sconosciute ai più, e frequentemente si rischia di trasgredire a tale divieto. Difatti c’è il rischio concreto di incorrervi sovente nella vita di ogni giorno. Per questo è quanto mai opportuno approfondire lo studio di tale precetto, perché lo studio conduce all’azione.
Il desiderio accompagna la storia umana sin dai suoi albori: nella Genesi il serpente è spinto dal desiderio di qualcosa che non gli spettava (Eva), e da questa storia apprendiamo che per via desiderio non solo il serpente non riesce ad ottenere quanto voleva, ma anche ciò che gli competeva gli fu tolto: avrebbe avuto dominare su tutti gli animali della terra, essendo il più furbo, ed invece è stato destinato a strisciare e mangiare la polvere.
La Mishnàh nel trattato di Avot (4,2) considera il desiderio, assieme alla gelosia e all’onore, uno degli elementi che hanno la forza di trascinare l’uomo fuori dal mondo. Il desiderare le cose altrui mostra una insoddisfazione di fondo circa la propria condizione. In un certo senso, desiderando le cose altrui, affermiamo di voler essere qualcun altro. Ibn ‘Ezrà nel suo commento alla Toràh (parashat Itrò) paragona chi desidera alla luna, che non ha luce propria, e tutta la sua luminosità proviene dal sole. All’inizio del mese la luna non ha luce, ma gradualmente cresce sino alla metà del mese, quando è piena, ma questa conquista è effimera, perché inizia a calare sino a non avere più luce alla fine del mese.
L’ultimo dei dieci comandamenti, nella versione nel libro di Shemot lo tachmod, in Devarim welò titawwè, presenta vari aspetti problematici; anzitutto la diversa formulazione nelle due versioni dei dieci comandamenti, dove possiamo individuare quattro differenze: a) il verbo utilizzato, che in Shemot è “lo tachmod”, in Devarim è “lo titawwè”; b) lo titawwè è preceduto da una congiunzione “we”; c) in Shemot si premette il desiderio della moglie del prossimo a quello della sua casa, mentre in Devarim l’ordine è invertito; d) in Devarim si parla esplicitamente anche del campo del prossimo; il motivo della variazione è abbastanza semplice: secondo il Roqeach nel deserto non c’erano campi da desiderare, e quindi questo aspetto diviene rilevante solo nel libro di Devarim, alla vigilia dell’ingresso in terra d’Israele.
In generale il Midrash (Midrash ha-gadol Devarim 5,18) ritiene che le due formulazioni hanno lo scopo di sanzionare la taawàh per conto proprio e la chemdàh per conto proprio, istituendo di fatto due divieti distinti.
Possiamo notare che in entrambi i testi si parla di cose concrete: il desiderio di raggiungere il livello spirituale del proprio prossimo e le sue acquisizioni nell’ambito dello studio della Toràh è anzi incoraggiato:,“la gelosia fra studiosi accresce la sapienza”.
Più in generale possiamo chiederci se c’è una differenza fra “lo tachmod” e “lo titawwè”. Secondo la Mekhiltà di R. Shim’on Bar Yochai (p. 153) si tratta di due passaggi successivi, dove la taavàh, il mero desiderio, precede la chemdàh, che consiste nella progettualità per appropriarsi dei beni altrui. La Mekhiltà di R. Yshma’el (p. 235) la vede diversamente: il divieto vige solamente quando si arriva a compiere un’azione per appropriarci di quanto desideriamo. Altra discussione riguarda il numero di divieti: alcuni, fra cui il Rambam (lo ta’asèh 265-266), il Ba’al halakhot ghedolot ed il Sefer ha-chinukh (Law 38 e 416), infatti ritengono che vi siano due divieti distinti, altri, ad esempio Rashì, che segue il Targum Onqelos, così come Sa’adiàh Gaon (lo ta’asèh 90), il Sefer ha-Yereim (cap. 254) e il Sefer mitzwot gadol (Law 158), credono che la taawàh e la chemdàh si identifichino, e via sia pertanto un unico divieto. Per la halakhàh, lo Shulchan ‘Arukh (Choshen Mishpat 359,9) segue l’opinione del Rambam, e ritiene pertanto che vi siano due divieti distinti.
Spiegando il divieto “lo titawwè” il Rambam scrive che lo si trasgredisce quando si programma come impossessarsi di una certa cosa. Per l’Arukh ha-shulchan (Choshen Mishpat 359,8) non è sufficiente la progettualità, ma è necessaria anche la decisione di tradurre il progetto in pratica. Il divieto lo tachmod consiste invece nella trasposizione nella pratica di quanto progettato. Secondo Maimonide (Hilkhot Ghezelàh waavedàh 1,11) “la concupiscenza porta all’ambizione e l’ambizione porta al furto: se infatti il padrone non intende vendere l’oggetto, per quanto l’altro abbia offerto del denaro ed abbia insistito con gli amici, arriverà al furto, come è detto: “ambiranno i campi e li ruberanno” (Mikhah2,2). E se il padrone si opporrà per salvare i suoi beni o gli impedirà di rubarla, arriverà all’omicidio. Va e impara dall’episodio di Achav e Navot.” L’episodio di Achav viene citato anche nella Pesiktà Rabbatì (cap. 25) per spiegare perché i dieci comandamenti sono espressi al singolare: l’omicidio di Navot, padrone di una vigna, vicina al palazzo del re Achav, sulla quale quest’ultimo aveva messo gli occhi, è il classico esempio del desiderio dei beni altrui che conduce all’omicidio. Difatti il re Achav, ossessionato dalla vigna di Navot, si era offerto di rilevarla, dando in cambio una vigna migliore o acquistandola, ma Navot rifiutò, e Achav non accettò il rifiuto, tanto da smettere di mangiare. La moglie di Achav, Izevel, lo tranquillizzò, dicendogli che sarebbe venuto in possesso della vigna. Achav, conoscendo la moglie, avrebbe potuto immaginare quanto sarebbe avvenuto, ma non pone alcuna domanda: assoldando dei falsi testimoni, che affermarono che Navot villipese il re, Izevel lo fece mettere a morte. La falsa testimonianza che porta all’omicidio. Per reati del genere i beni del condannato passavano al re, quindi Achav si impossessò della vigna come desiderava. Achav all’inizio sembra essere persino magnanimo, non sfruttando la sua posizione per mettere pressione su Navot, ma con il succedersi degli eventi diviene, attraverso il suo silenzio, un complice della moglie.
I chakhamim discutono anche sull’oggetto del desiderio: ci si riferisce solamente al desiderio di un oggetto specifico di proprietà del mio prossimo, o anche al desiderio di avere lo stesso oggetto, o di essere simile a lui, ad esempio essere ricco come lui? Ad esempio Derekh pequdekha (mitzwàh 38) sostiene che anche il desiderio di un oggetto come quello del mio compagno sia da condannare. Ma il responsa Betzel ha-Chokhmàh (3,43) non è di questa opinione: è vietato solamente desiderare un oggetto specifico di un altro. L’Orakh Mesharim (cap. 13) si chiede infatti: se una persona affamata vede una tavola imbandita, certamente proverà un desiderio fortissimo di placare la sua fame e la sua sete; ci verrebbe mai in mente che stia trasgredendo il divieto “lo tachmod”? Anche il responsa Divrè Yatziv (Choshen Mishpat, cap. 65) ritiene che desiderare di essere ricco come un altro non rientri nel divieto. Nel libro Eretz Zvì (cap.4) viene riportata l’opinione, non condivisa da molti, che qualsiasi bene reperibile sul mercato non rientri nel divieto. Vista la natura della nostra società questa visione delle cose è però ben comprensibile: all’epoca del Talmud difatti era considerato molto meglio avere un oggetto che avere il denaro per acquistarlo. Nel trattato di Berakhot (5a) è detto che quando una persona vende un oggetto, chi vende è triste (Rashì: perché si stacca da una cosa tanto importante, e la vende per la sua ristrettezza economica), mentre chi la acquista è felice. Le categorie riportate nella Toràh costituivano gran parte del mercato del tempo. Oggi tutto lo sforzo è concentrato sullo spingere le persone ad acquistare, non a vendere. L’economia è concentrata sul desiderio di vendere ed ottenere il denaro altrui. Ma, secondo Rav Weiss non dobbiamo considerare questo desiderio come vietato. La Toràh ha elencato delle categorie di oggetti specifici, e non il denaro.
Il Talmud ricorda il divieto lo tachmod solamente una volta, nel trattato di Bavà Metzià (5b), dove viene riportata l’idea che si trasgredisca al divieto solo quando ci si impossessa di qualcosa senza pagarlo. I rishonim esprimono varie opinioni su questo assunto: le Tosafot, nella loro prima risposta, pensano che sia effettivamente così; nella seconda risposta le Tosafot, così come il Rambam ed il Raavad, pensano che sia possibile trasgredire anche quando si paga l’oggetto. Il Rambam ed il Raavad sono in disaccordo sul caso in cui chi cede l’oggetto non abbia dato l’assenso alla vendita.
Nelle sue halakhot il Rambam ricorda anche l’insistenza da parte dell’acquirente, senza definire però se vi sia un limite. Il Responsa Betzel ha-chokmàh pone il limite in tre volte. Tuttavia R. Yonàh nello Sha’arè Teshuvà (3,43) ritiene che se l’acquirente è una persona importante, alla quale non si può dire di no, una sola volta è sufficiente per trasgredire.
Di per sé, se il pensiero non viene tradotto nella pratica, non sembra essere una trasgressione molto grave, ma come vedremo la sua relazione con altre colpe, se da una parte sembra diminuirne il valore assoluto, dall’altra, assieme alla considerazione che è stato incluso nei dieci comandamenti, lo rende un importante cardine. Basterebbe pensare che nel trattato di Ghittin (58a) il desiderio di una donna sposata condusse alla decisione divina di distruggere il Santuario. Rav Shimshon Refael Hirsch (Shemot 20,14) scrive che con questo comandamento si conclude la Tavola che riguarda i rapporti fra individui, ed è il sigillo di H.: difatti qualsiasi legislatore avrebbe potuto istituire il divieto di omicidio, ma solamente H., che può scrutare i cuori degli uomini, può vietare persino dei pensieri. Gli uomini non sono in grado di sanzionare il pensiero che porta all’azione, ma solamente, una volta che quest’ultima si è verificata, possono condurre il colpevole in tribunale. Alcuni scrivono persino che chi mette in pratica questo comandamento, che chiude i dieci comandamenti, è come se rispettasse la Toràh intera. D’altra parte chi lo contravviene, è considerato come se trasgredisse tutti i dieci comandamenti. Rabbenu Bechaiè nel Kad ha-qemakh (voce chemdàh) scrive che per questo motivo questo precetto è stato posto in ultima posizione nei dieci comandamenti. Rabbenu Bechaiè aggiunge che chi desidera le cose altrui sarà anche desideroso delle proprie, e sarà restio a distaccarsene, mostrando avidità rispetto ai precetti volti a sostenere le categorie più deboli, come la beneficenza e le decime.
Secondo molti rabbini, in almeno in una delle due formulazioni questo comandamento si riferisce al solo pensiero. Se è così però, perché viene istituito un divieto, che vuole limitare i pensieri ed i sentimenti umani, anche se questi non vengono esternati nella pratica? L’uomo è in grado di eliminare certi pensieri? E anche se ammettessimo che c’è un divieto, in che modo sarebbe sanzionabile? Questo sembra contraddire lo spirito della Toràh, notoriamente rivolta verso gli aspetti pratici dell’esistenza umana. Il desiderio, sebbene non manifestato verso l’esterno, viene condannato, anche se non tradotto nella pratica. Secondo il Sefer Ha-Chinukh (mitzwàh 416) l’uomo ha la capacità di impedire l’affiorare di certi pensieri. Anche R. Avraham Ibn ‘Ezrà nel suo commento alla Toràh ritiene che l’uomo possa dominare questo istinto; per farlo porta l’esempio dell’abitante di un villaggio, che aveva visto la bellissima figlia di un re, ma non desiderava giacere con lei, perché sapeva che era impossibile. Come un uomo non desidera giacere con la propria madre, sebbene sia bella, poiché lo hanno educato sin dall’infanzia che è vietato, così ciascuno deve sapere che una bella donna o la ricchezza arrivano dal cielo, e per questo chi è intelligente non bramerà e desidererà. E quando saprà che il Signore gli ha vietato la moglie del suo compagno, sarà lontana ai suoi occhi più della figlia del re per l’abitante del villaggio! Anche Rav Soloveitchick fornisce una risposta simile: è sufficiente il minimo spavento, anche quello di una semplice caduta, per annichilire l’istinto più forte. Se l’uomo avesse timore del Cielo, l’istinto non avrebbe alcun potere su di lui.
La Toràh, sebbene un tribunale non abbia la capacità di imporre una sanzione per via di un pensiero, vuole tutelare il mio prossimo, che è inconsapevolmente colpito, in una certa misura, dal mio pensiero. Dalle prime pagine del trattato del Talmud Bavà Batrà, impariamo che persino la vista può essere utilizzata per danneggiare chi mi è intorno: all’interno di un cortile comune, i condomini possono obbligarsi reciprocamente ad erigere un muro, per impedire che gli altri possano vedere cosa si fa nella propria parte di cortile, perché il danno provocato dalla vista, sebbene non si manifesti concretamente, è da considerarsi un danno. Per il desiderio troviamo una prosecuzione del ragionamento: un certo tipo di pensiero costituisce una forma di prevaricazione nei confronti del prossimo.
Il divieto di desiderare non ha unicamente lo scopo di preservare il prossimo, ma porta anche dei benefici all’individuo, educandolo ad avere pensieri puri. Filone Alessandrino considera i dieci comandamenti i principi generali da cui derivano tutti i precetti della Toràh. Secondo la sua visione dal divieto di desiderare deriva tutta la dottrina delle inclinazioni della Toràh, non solamente a livello individuale, ma anche familiare e nazionale.
Secondo Ramban c’è un parallelismo fra i dieci comandamenti ed i precetti contenuti nella parashàh di Qedoshim, nel cap. 19 di Waiqrà. Lo tachmod corrisponde a weahavtà lere’akhà kamokha – ama il prossimo tuo come te stesso. Rav Ya’aqov Tzvi Mecklenburg, l’autore del commento Ha-ketav wehaqabalàh, scrive (Shemot 20,13) che questo comandamento è legato all’altro grande amore oltre a quello del prossimo, quello per D.: per questo la Toràh ci dice che dobbiamo amare D. con tutto il nostro cuore. Quando il cuore dell’uomo è completamente pervaso dall’amore per D., non vi è più spazio per il desiderio delle cose materiali.
Ugualmente il desiderio dei beni materiali ha la capacità di contrastare l’onore dei genitori, comandamento (il quinto) che nelle tavole è accostato al divieto di desiderare. Secondo la Mekhiltà il nesso è differente: chi desidererà i beni altrui sarà disonorato da suo figlio. Yehoshua’ ibn Shuaib (Spagna, XIV sec.) in una sua omelia per la festa di Shavu’ot scrive che chi è afflitto dalla bramosia non onorerà i genitori e non li sosterrà economicamente come dovrebbe.
Rav Yssachar Frand nota come i dieci comandamenti si aprano con una affermazione di fede di carattere teorico (Io sono il Signore tuo D.) e si concludano con una affermazione di fede di ordine pratico: il Signore ci ha assegnato un certo destino, e ci ha dato tutti gli strumenti per riuscire nel nostro compito. Pertanto desiderare le cose altrui è inutile. Sforziamoci di trovare in noi la fiducia necessaria per utilizzare le benedizioni, i talenti e le sfide che il Signore ha approntato per noi, e facciamo in modo di portarle alla luce. I dieci comandamenti, che si aprono con il terrmine anokhì, Io, terminano con il termine lere’èkha – per il tuo prossimo. I dieci comandamenti si dispiegano nel rapporto tra me e l’altro. Il termine re’èkha derive da una radice ra’, che indica l’instabilità, da cui deriva ad esempio il verbo ro’èh (pascolare), portare il bestiame da una parte all’altra, ma anche ra’, il male. Devi amare il tuo prossimo (lere’akhà) anche se è instabile, anche se oggi non ti è più tanto simpatico come lo ieri, e comprendevi il comandamento (Mark Alain Ouaknin). Questa è la grande sfida.