Nel Resp. n. 11 R. Yehudah ha-Levy Mintz di Padova affronta il delicato problema dei marrani. Sotto il profilo del diritto matrimoniale dobbiamo considerare i loro atti come aventi valore ai fini della Legge Ebraica, oppure no? Egli è di parere positivo. Benché essi si comportino all’apparenza esteriore come non ebrei, in segreto fanno in modo di celebrare matrimoni ebraici, alla presenza di Ebrei. Se pertanto tornano all’Ebraismo dichiarando di volersi risposare secondo il rito ebraico con un’altra persona occorre esigere regolare divorzio rabbinico dall’unione precedente, contratta dopo l’abiura. Ma il rigore nella procedura fa avvertire l’apertura nella sostanza.
Il tema dei Marrani è in effetti di grande attualità a partire dalla generazione di R. Yehudah, che assistette alla Cacciata degli Ebrei dalla Spagna e all’arrivo di parte di essi in Italia. L’atteggiamento degli Ebrei nei loro confronti non poteva che essere conflittuale: da un lato solidarietà, dall’altro disapprovazione per il gesto di “debolezza” da questi compiuto.
Già Abrabanel notava che l’abiura, lungi dal garantire la felicità, aveva portato su di loro una doppia maledizione: un costante timore nel presente e l’esclusione dalla Redenzione finale di Israele nell’escatologia (Mashmia’ Yeshu’ah 27c). R. Yossef Gereshon, darshan a Salonicco intorno al 1500, si domandava: “Chi è mai la persona temente di D. che possa dirsi felice in cuor suo mentre nostri fratelli e parenti sono costretti a rimanere in quell’apostasia?”. Già allora molti Ebrei ritornarono nella Penisola Iberica ad insegnare l’Ebraismo ai “conversos” a rischio della vita. La letteratura rabbinica dell’epoca affronta l’argomento in vario modo. Complicava la possibilità di un sereno giudizio il fatto che i Marrani non costituivano un gruppo monolitico. Alcuni lottavano per mantenere un’identità ebraica, sia pure in segreto, mentre altri si professavano fedeli cristiani. Chi poteva in effetti distinguere un convertito forzato da un apostata convinto?
R. Shemuel Abohab (Venezia, fine sec. XVII) riteneva che i Marrani dovessero essere affrontati con simpatia. Pur mostrandosi all’apparenza Cristiani, continuavano a professare l’Ebraismo in segreto, giustificando il proprio comportamento con un versetto del libro di Barukh, che consideravano parte della Bibbia Ebraica. “Nell’ultimo capitolo del libro apocrifo di Barukh, nell’epistola di Geremia, vi è un passo nel quale il profeta esorta i fratelli dell’esilio babilonese: ‘Quando vedrete una moltitudine davanti a voi e dietro di voi inginocchiarsi, voi direte nel vostro cuore: solo tu devi essere lodato, o mio Signore’. …I marrani… applicavano la parola ‘inginocchiarsi’ agli ebrei, anziché ai loro nemici babilonesi, interpretando il passo come un’autorizzazione divina a venerare dèi stranieri in caso di necessità, fintanto che il cuore rimaneva rivolto al D. del cielo” (Cecil Roth, “Storia dei Marrani”, Serra & Riva, Milano, 1991, p. 139).
Occorre in effetti distinguere anche fra chi ha abiurato e le generazioni successive: non è giusto riportare sui figli le colpe dei padri. “Infatti, chi si comporta in modo non conforme al proprio intimo per timore dei non ebrei è esente da responsabilità verso il Cielo. La loro credenza è basata sul testo di una lettera che essi attribuiscono a Barukh b. Neriyah, annoverata dai Cristiani fra le Sacra Scritture trascritte nella loro lingua, tanto che l’hanno considerata al pari di quelle. Da essa hanno imparato a mentire, benché essa contraddica in pieno le parole della Torah, in quanto autorizza ad inchinarsi agli idoli in caso di pericolo o forza maggiore. Ma come possiamo considerarli alla stregua degli apostati, questi ciechi cui non risplendette il sole della Tradizione e hanno creduto in queste cose ritenendole giuste come se le avesse davvero predicate un profeta?” (Resp. Devàr Shemuel, n. 45).
A R. Yaakov Sasportas, Rosh Yeshivah ad Amsterdam a partire dal 1650 e dal 1664 a Londra, fu posto il caso di un ebreo imprigionato insieme a suo zio. Resistette a tre anni di torture finché gli aguzzini non decisero di avvelenare lo zio, per aver rifiutato la conversione. Trovatosi da solo in prigione, accettò formalmente l’abiura, ma in cuor suo rimase ebreo, al punto che cercò di scappare raggiungendo a nuoto una nave di Ebrei che partiva per l’Occidente. Le sue azioni dimostrano che era una falsa conversione. Come avrebbe potuto pentirsi? Occorre effettivamente distinguere fra due tipi di conversos. In casi come questo la Comunità d’Israele deve accoglierli con affetto. Dopo tre anni essi possono essere riaccolti. Gli altri non avranno parte nel Mondo a Venire: la loro redenzione è impossibile (Resp. Ohel Ya’akov, n. 3 – Cfr. A.Y. Frankel, The Responsa Anthology, New Jersey, 1990, p. 91).
Benché i conversos riaffacciatisi all’Ebraismo furono in genere bene accolti, sorse la discussione se convalidare i matrimoni da essi compiuti in Spagna e Portogallo in un modo che essi ritenevano ebraico. R. Shemuel de Medina (Salonicco, XVI sec.) li considerava non validi e in questo modo non richiedeva un atto formale di divorzio perché un ex-marrano potesse risposarsi (Resp. Even ha-‘Ezer, 10 – M.D.Angel, “Voices in exile – A Study in Sephardic Intellectual History, cap. 3). Come si è visto all’inizio R. Yehudah Mintz non era dello stesso avviso. La controversia fra R. Yehudah e R. Shemuel da Medina ne anticipa un’altra, di grande attualità, quella delle coppie di fatto, che interessano alla tradizione rabbinica non per i diritti che le parti potrebbero rivendicare, quanto per i doveri e le responsabilità che ne potrebbero derivare. Se infatti i partners decidono di lasciarsi e di costituire una nuova famiglia contraendo regolare matrimonio con terzi, come dobbiamo considerare la precedente unione? Anche in questo caso i Decisori ashkenaziti tendono per lo più a ritenere che, pur essendo mancato un matrimonio formalmente celebrato, la convivenza ha creato nel frattempo un rapporto del tutto assimilabile alle nozze, e richiedono che non si possa celebrare un nuovo matrimonio senza che alla precedente unione si sia posto termine con un regolare atto di divorzio.
I Decisori sefarditi, per contro, sono del parere opposto: non essendoci stato matrimonio la prima volta, non è necessario “sciogliere” tale unione mediante il divorzio e le parti sono, almeno sotto questo profilo, libere di risposarsi senz’altro. Anche in questo caso la posizione più facilitante in pratica è però più rigorosa in linea di principio, in quanto non concede alcun valore o riconoscimento giuridico alle convivenze di fatto, e viceversa (Cfr. anche l’articolo di Simchah Assaf, “I Marrani di Spagna e Portogallo nella letteratura dei Responsa” –ebr.-, Zion, 5, p. 19-60; Oholè Ya’aqov, Yerushalaim, 5703, p. 145-180).