Si usa cantare, sia presso i sefarditi che gli ashkenaziti, Yah ribbon durante il pasto di Shabbat. Si tratta di un piut molto diffuso, musicato in decine di modi differenti. L’autore del piut, scritto in aramaico, fatto abbastanza raro ma giustificabile perché questa lingua era molto usata nei circoli mistici, che tuttavia non ne ha frenato la diffusione, è R. Israel Nagiara, figlio di esuli dalla Spagna, che nacque a Zefat nel 1555, e si stabilì a Damasco, dove il padre era rabbino, divenendo successivamente rabbino di Gaza, all’epoca comunità molto importante. Morì nel 1619. Ebbe un grande successo come poeta, tanto che Leon da Modena scrisse su di lui che “non è sorto in Israel come Israel”. L’Arì diceva che la sua anima era una scintilla dell’anima di David ha-melekh.
Si narra che una volta d’estate per via del grande caldo R. Israel tolse il cappello per cantare questo piut, ed i malakhim, che normalmente accorrevano ad ascoltarlo, si allontanarono. L’Arì lo riprese per questo, perché la tavola dello Shabbat è paragonata all’altare dei sacrifici. R. Israel Nagiara fu autore di vari libri, il più famoso dei quali è Zemirot Israel. Le iniziali delle cinque strofe formano il termine Israel. Da un punto di vista contenutistico, l’argomento del piut sono delle lodi ad H., e lo Shabbat non è ricordato, nemmeno indirettamente, se non in un generico accenno alla fine della seconda strofa alla creazione del mondo. Le ultime due strofe contengono una richiesta di redenzione ad H. Molti concetti richiamati nel piut erano già presenti in Lekhà Dodì. L’autore al termine del piut riporta una citazione dal libro di Daniel (3,32-33), sulla quale il piut è basato: “Mi piace rendere pubblici i prodigi e le meraviglie che ha fatto verso di me D. altissimo. Quanto sono grandi i Suoi prodigi e quanto sono potenti le Sue meraviglie! Il Suo regno è un regno eterno e la Sua potenza dura per ogni generazione”.
Queste parole furono pronunciate dal Re Nebukhadnetzar quando vide che Shadrakh, Meshakh e ‘Aved Negò (Chananiàh, Mishael e ‘Azariàh in ebraico) rimasero indenni quando furono gettati nella fornace perché si erano rifiutati di inchinarsi alla statua di Nebukhadnetzar. Nella prima parte del piut è detto che è bello lodare H. per i Suoi prodigi,e per la creazione dell’anima degli uomini, dei malakhim e degli animali, espressione che, a parte il riferimento ai malakhim, riprende quanto Daniel dice al re (Daniel 2,38) L’espressione che apre il piut, “Yah ribbon ‘alam we’almaià” è simile ad un altra del libro di Daniel (7,18), ma mentre Daniel la usa riferendola all’ambito temporale, è possibile che Rav Israel Nagiara si riferisca a quello spaziale, e quindi le lodi che Gli sono rivolte riguardano principalmente il mondo della natura. H. viene definito “Melekh malkaià – Re dei re”.
Anche questa espressione deriva dal libro di Daniel (2,37), che si riferisce così al re Nebukhadnetzar. La ghemarà in massekhet Shevu’ot (35b) considera la possibilità che Daniel si riferisca ad H., perché l’epiteto sarebbe troppo altisonante per un essere umano. Anche se l’uomo vivesse mille anni, non potrebbe apprezzare completamente le Sue meraviglie. Nel piut l’esilio di Israele viene paragonato alla fossa dei leoni, ulteriore richiamo al libro di Daniel (6,9), che fu gettato nella fossa dei leoni e fu salvato da H. Si chiede ad H. di liberare Israele e stabilirsi nuovamente a Yerushalaim, città lodata per via della sua bellezza, nel bet ha-miqdash, nel quale le anime si rallegrano ed elevano canti ad H. Nell’ultima strofa non sono presenti riferimenti al libro di Daniel: alcuni sostengono che l’autore di proposito nelle prime strofe riferisca ad H. delle espressioni che nel libro, modello delle profezie dell’esilio, sono riferite a Nebukhadnetzar, un re in carne ed ossa, ed operi una sorta di tiqqun, che si conclude con il ritorno di H. a Yerushalaim, nella quale la dimensione, e quindi il lessico, propri dell’esilio scompaiono.