A Torino da molto tempo all’uscita di Shabbat, subito dopo la havdalàh, si recita il piut Ha-mavdil ben qodesh lechol. L’uso di accompagnare con canti l’uscita dello Shabbat è riportata già dello Shibolè ha-leqet, perché in questo modo si accompagna il re alla sua uscita, come lo si è accompagnato all’entrata. Molti, come è noto, paragonano lo Shabbat a una regina secondo la ghemarà in Shabbat. Questi piutim, a seconda degli usi, vengono recitati al Bet ha-kneset o in casa. La melodia che utilizziamo è stata introdotta dal Rabbino Weiss Levi, da poco scomparso.
Si tratta di un piut molto diffuso, ma c’è da stupirsi del fatto che non vi sia al suo interno alcun accenno esplicito allo Shabbat, se non nella frase iniziale, che riprende la berakhàh della havdalàh. Dal suo contenuto il piut sembra essere stato scritto piuttosto per l’uscita di Kippur. L’autore del piut è sconosciuto. Dalle iniziali delle strofe si ricava il nome Ytzchaq ha-qatan. Per questo alcuni lo identificano con lo spagnolo Ytzchaq ben Yehudàh ibn Gayat, che visse nell’XI sec. Possiamo tuttavia dire con certezza che il piut fu composto molti secoli fa, perché già il Machazor Vitri (XI sec.), che riporta molti piutim per l’uscita di Shabbat, di cui alcuni caduti in disuso, lo cita, così come il Mordechay. Vi è una seconda parte del piut, che inizia con le parole El podèh, riportato nel Siddur dello Ya’vetz, che non recitiamo, che è stata composta da un altro autore.
Vi sono delle ulteriori strofe, per l’uscita di Yom Kippur, attribuite all’Arì ha-qadosh. Il Chatam Sofer (Shut Chatam Sofer Orach Chayim 1,67) scrive che l’uso ashkenazita è di recitarlo solamente all’uscita di Kippur quando capita di Shabbat, ma lui, secondo l’uso più diffuso, lo recitava ogni Shabbat. L’uso di recitarlo di Shabbat in ogni caso è giustificabile per mezzo della Ghemarà in massekhet Shabbat (118b), che afferma che “chiunque rispetta lo Shabbat secondo le sue regole, anche se adora divinità straniere come la generazione di Enosh, gli vengono perdonati tutti i suoi peccati”, riconoscendo allo Shabbat pertanto una funzione espiatoria. Qual è però il legame fra la separazione e l’espiazione delle colpe? Shevet miYehudàh ritiene che tutte le nostre trasgressioni derivino dalla nostra confusione, perché altrimenti non peccheremmo mai e poi mai, e la separazione fra sacro e profano è un’operazione intellettuale. Non a caso l’aggiunta dell’uscita di Shabbat e di Mo’ed nella ‘amidàh (Attàh hivdalta) è inserita nella quarta benedizione, che ha come tema il dono dell’intelligenza. Il Gherà in Sha’arè Rachamim propone di sostituire kaspenu (il nostro denaro), che nel Machazor Vitri non compare, con shelomenu (la nostra pace) o zakuiotenu (i nostri meriti). La richiesta del benessere economico tuttavia non deve scandalizzarci: difatti la povertà allontana le persone dal loro Creatore.
Ci sono differenti versioni sull’ordine dei termini in questa strofa, se kaspenu wezar’enu o zar’enu wekaspenu, come nella nostra versione. Difatti alcuni ritengono che non si debbano premettere i beni materiali alla nostra discendenza, poiché Moshèh rimproverò le tribù di Reuven e Gad quando, in seguito alla guerra contro Sichon e ‘Og, volevano stabilirsi oltre il Giordano, e, formulando la richiesta a Moshèh, mostrarono preoccupazione per il proprio bestiame, e solamente in seconda battuta per i propri familiari. Altri invece giustificano l’ordine “kaspenu wezar’enu” per ragioni interne al piut. Difatti tutte le strofe del piut terminano con “laylah”, ed è più giusto legare la nostra discendenza alle stelle del cielo piuttosto che alla sabbia, considerata dai chakhamim (Meghillàh 16a) simbolo di decadenza. Inoltre non sarebbe logico legare il denaro alle stelle, la cui principale qualità non è la numerosità, bensì l’elevatezza. Per questo fra le due opzioni è da preferire quest’ultima, e non ci si deve preoccupare dell’obiezione portata a partire dalle tribù di Gad e Reuven. La richiesta di prosperità potrebbe sembrare sfrontata. Non ci basta essere perdonati per i nostri peccati? Shevet miYehudàh spiega che le due cose sono legate. Queste manifestazioni sono difatti il segno tangibile del perdono divino. Nel piut troviamo un’espressione molto strana, nella quale chiediamo ad H. di “perdonare per il qal wachomer”. Il qal wachomer, il ragionamento a fortiori, è una delle 13 tecniche attraverso le quali si spiega la Toràh. Hekhal ha-tefillàh (p. 330 e ss.) spiega questa espressione a partire da una ghemarà in massekhet Berakhot (5a), da una discussione fra R. Yochanan e R. Shim’on ben Laqish, che tratta dell’effetto delle sofferenze sulle nostre colpe.
Per R. Yochanan le sofferenze hanno effetto per via di un ragionamento a fortiori. Secondo la Toràh uno schiavo viene liberato per la perdita di un occhio o di un dente; le sofferenze, che colpiscono tutto il corpo avranno pertanto maggiore effetto. Secondo R. Shim’on ben Laqish invece le sofferenze intervengono sui nostri peccati per una ghezeràh shawàh (analogia): infatti sia rispetto alle sofferenze che al sale viene utilizzato nella Toràh il termine berit (patto). Come il sale serve a migliorare il sapore della carne, così le sofferenze mitigano le colpe dell’uomo. La differenza pertanto risiede nella misura: condendo la carne non si deve esagerare con il sale, perché ne guasterebbe il sapore. Allo stesso modo le sofferenze raggiungono il loro scopo solo se inflitte con moderazione, mentre se arrivano copiosamente, traviano ulteriormente l’uomo. Attraverso questo ragionamento Chiddushè ha-Rim di Gur spiega il verso in Parashat Shemot in cui H. ascoltò il lamento dei figli di Israele, e si ricordò del patto, decidendo di salvarli dalla schiavitù. Difatti se il popolo ebraico avesse sofferto ulteriormente, non avrebbe avuto più la capacità di risollevarsi. Alcuni ritengono che questo sia il motivo per cui intingiamo il karpas nel sale la sera di Pesach, per ricordare il berit basato sulle nostre sofferenze.