L’idea dello Shabbat come anticipazione dell’era messianica, “il giorno futuro in cui sarà Shabbat e riposo in eterno” è già affermata nella Mishnah (Tamid 7,4), ma ha avuto una eco notevole soprattutto con la diffusione dello Zohar a opera dei Qabbalisti di Safed nel XVI secolo: questi si erano stabiliti in Eretz Israel come richiamo alla redenzione, in risposta al dramma della Cacciata dalla Spagna. Essi ripristinarono una usanza di cui parla già il Talmud (Shabbat 119a): “R. Chaninà si ammantava a festa al tramonto del venerdì e diceva: Venite, usciamo incontro allo Shabbat, la regina.
Anche R. Yannai indossava i suoi vestiti migliori all’entrata dello Shabbat e diceva: Vieni, sposa, vieni, sposa”. I Qabbalisti uscivano addirittura nei campi il venerdì sera per recarsi incontro allo Shabbat in arrivo, recitavano i Tehillim 95-99 e poi il 29 (Mizmor le-David) e terminavano dicendo Boi kallah Shabbat malketà, “vieni o sposa, Shabbat la regina”. A questo scopo vennero composti diversi inni. Ma ad affermarsi molto presto su tutti gli altri con una fortuna eccezionale fu il Lekhah Dodì di R. Shelomoh Alqabetz ha-Levy, Maestro altrimenti noto per avere scritto un commento alla Meghillat Ester, intitolato Manot Levy. L’idea di fondo dell’inno, per cui lo Shabbat è la sposa del popolo d’Israele, deriva da un Midrash (Bereshit Rabbà 11,9) a nome di R. Shim’on bar Yochay, cui è appunto attribuito lo Zohar. “Quando fu terminata l’opera della Creazione, il Settimo Giorno si lamentò: “Signore dell’Universo, tutto quel che hai creato è fatto a coppia: e a ogni giorno della settimana Tu hai concesso un compagno; soltanto io sono rimasto solo”. E D. gli rispose: “La Comunità d’Israel sarà il tuo partner”.
Esaminando con attenzione il racconto della Creazione emerge che i sei giorni sono divisibili in due terzine parallele: al 1° giorno (luce) corrisponde il 4° (astri luminosi); al 2° (mare e cielo) corrisponde il 5° (pesci e volatili); al 3° (terra e vegetali) corrisponde il 6° (animali terrestri e essere umano). Come commenta Rav Jehudah Zegdun (Il mondo del Midrash, p. 122): “Lo Shabbat sosterrebbe che ogni giorno della Creazione produce in realtà qualcosa di positivo, grazie all’opera dell’uomo; invece lo Shabbat, essendo un giorno di riposo, non produce nulla e quindi non apporta nulla di positivo alla società umana. Senonché risponde D. che l’accoppiamento con il popolo ebraico porterà dei buoni frutti, superiori anche a quelli degli altri giorni, essendo essenzialmente spirituali”. Come marito e moglie stipulano un patto di reciproco sostegno così accade anche fra il popolo ebraico e lo Shabbat: è nota l’affermazione per cui più ancora di quanto Israele abbia mantenuto lo Shabbat, lo Shabbat ha mantenuto Israele. Connesso con questa visione dello Shabbat è anche l’uso, tuttora invalso nelle Comunità sefardite più influenzate dalla Qabbalah, di leggere ogni venerdì pomeriggio lo Shir ha-Shirim, il Cantico dei Cantici che nell’interpretazione tradizionale tratterebbe di un amore mistico, quello fra D. e la Comunità d’Israele. In questa rinnovata lettura lo Shabbat prenderebbe in un certo senso il posto del S.B. al nostro fianco. Ed è a una citazione dallo Shir ha-Shirim che prende spunto tanto l’incipit della poesia che l’uso dei Qabbalisti di Safed: Lekhàh Dodì Netzè ha-Sadeh, “Vieni, amico mio, usciamo nei campi” (7,12).
Ma mentre nell’originale l’invito è attribuito alla sposa stessa che offre i propri favori all’amato, qui presumibilmente sono gli Ebrei, personificazione dello Sposo, che si invitano l’un l’altro ad andare incontro alla Sposa, lo Shabbat. Le parole penè Shabbat neqabbelah (“andiamo incontro allo Shabbat”) che seguono riflettono un’altra espressione talmudica: Chayyav adàm lehaqbil penè rabbò ba-reghel (“Ciascuno è tenuto ad incontrare il proprio Maestro durante i Shalosh Regalim – Rosh ha-Shanah 16b). Per ragioni poetiche la coniugazione del verbo è stata trasformata in neqabbelah, ma ancora oggi nel rito yemenita si preferisce dire naqbilah riecheggiando la dizione originaria. Le strofe successive riportano all’inizio di ciascuna l’acrostico dell’autore Shelomoh ha-Levy. La necessità di mantenere l’acrostico spiega l’inversione dei verbi Zakhor e Shamor nella prima strofa contro l’ordine di apparizione nella Torah. Il Midrash riecheggiato nel testo afferma che le due versioni del Quarto Comandamento in Shemot e Devarim (Ricorda del giorno di Shabbat per santificarlo e Osserva il giorno di Shabbat per santificarlo, rispettivamente) sarebbero state pronunciate da D. con un’unica emissione di fiato (Zakhor we-Shamor be-dibbur echad neemrù – Shevu’ot 20b) e Moshe le avrebbe poi scritte separatamente per l’umana impossibilità di fare altrimenti. 1) L’interpretazione più nota allude al fatto che Zakhor si riferirebbe agli obblighi dello Shabbat, mentre Shamor ai divieti. Il Midrash vuole affermare che entrambe le sfere sono necessariamente complementari nell’osservanza dello Shabbat e un lato della medaglia non può stare senza l’altro.
La conseguenza pratica di ciò è che anche le donne sono tenute al Qiddush di Shabbat, benché si tratti di un precetto positivo legato al tempo, perché lo Shabbat comporta anche la sfera dei divieti e “chi è vincolato a Shamor è vincolato anche a Zakhor” (Berakhot 20b; Shulchan ‘Arukh, Orach Chayim 271,2). Citerò altre tre possibili interpretazioni. 2) La Mekhiltà, antico Midrash sul libro di Shemot, spiega che mentre Shamor allude all’osservanza del settimo giorno, Zakhor si riferisce all’obbligo di ricordarlo nei restanti giorni della settimana: da qui l’uso di ebraico di chiamare i sei giorni lavorativi con il numero progressivo in vista dello Shabbat. Aver pronunciato i due verbi assieme alluderebbe a sua volta al fatto che lavoro e riposo sono due interfacce: ci sono persone cui va raccomandato che come si riposa di Shabbat così si deve lavorare negli altri giorni; ve ne sono altre cui si deve invece ricordare che come si lavora negli altri giorni così è obbligo riposare di Shabbat. 3) Il Kelì Yeqàr afferma che mentre l’obbligo di osservare lo Shabbat in pratica ricade solo sul popolo ebraico, la memoria dello Shabbat riguarda tutte le nazioni.
Il Midrash riecheggiato nell’inno affermerebbe a questo punto che lo Shabbat, in quanto testimonianza dell’esistenza di un D. creatore è in realtà un dovere universale cui tutti sono chiamati a partecipare, ciascuno secondo le sue competenze. 4) Un’altra spiegazione, infine, è quella del Chezqunì. L’obbligo di ricordare è scritto subito dopo l’Uscita dall’Egitto a uso della generazione che aveva vissuto la schiavitù. Quarant’anni dopo, nella seconda versione di Devarim Moshe si rivolgeva ormai ai loro figli, che non avevano più un’esperienza personale del genere da ricordare: comandare la memoria a chi non ha ricordi non ha senso. Ecco che la memoria doveva essere sostituita da un’osservanza pratica, che rivitalizzasse quella esperienza presso le generazioni successive. Unendo i due verbi il richiamo diventa unione fra padri e figli. Lo Shabbat tramite fra il passato e il presente, garante dell’esistenza e della continuità di un altro fondamentale istituto: la famiglia ebraica.