C’è un versetto nel Salmo 7 che parla del nemico e dice: “Si è preparato da solo recipienti di morte, ha reso incandescenti le sue frecce”. La prima parte (cfr. Metzudat David), ולו הכין כלי מות può riferirsi al macellaio croato che per sfuggire a una condanna a 20 anni per crimini di guerra si è avvelenato in aula all’Aja. La seconda parte (cfr. Ibn Ezrà) חציו לדלקים יפעל può riferirsi al dittatore nordcoreano che ha inaugurato un missile a lunga gittata in grado di colpire dovunque negli Stati Uniti. Per entrambi il seguito del Salmo pronostica l’avvento di una auto-giustizia: ישוב עמלו בראשו ועל קדקדו חמסו ירד “sulla sua cucuzza si ritorcerà la sua stessa violenza”.
Sono questi gli eventi salienti dell’ultima settimana sul fronte internazionale. Uno scacchiere fosco e preoccupante. Noi Ebrei -ci avrebbe insegnato il Prof. Vittorio Dan Segre z.l.- reagiremmo oggi come abbiamo fatto da sempre: sulla base del principio della neutralità. Neutralità non significa apatia, ma sensibilità alternativa. Non siamo insensibili: siamo diversamente sensibili. Non rinunciamo se del caso a difenderci, ma preferiamo rispondere alla violenza con la non violenza: invocando l’auto-giustizia.
Ho conosciuto e frequentato Dan Segre soprattutto nell’ultimo scorcio della sua vita. Dopo la sua scomparsa l’ho ricordato con un articolo su “Pagine Ebraiche”. Voglio qui limitarmi a richiamare un aspetto della Sua personalità. Ciascuno di noi ha una Mitzwah che gli è particolarmente cara. Penso di associare senz’altro alla Sua memoria il suono dello Shofar. Me lo rivedo assorto, piegato sul Suo banco al Tempio Grande, la mattina di Rosh ha-Shanah nell’ascolto attento dei suoni. Era spesso presente alle Selichot, anche perché l’anniversario di Suo padre cade proprio nei giorni che precedono Rosh ha-Shanah.
I nostri Maestri dicono che la morte del padre potrebbe segnare il destino del figlio. Così è stato. Dan Segre è salito in Cielo a sua volta la sera di Shabbat 3 Tishrì, all’uscita dei due giorni di Rosh ha-Shanah. Ricordo che 24 ore prima, il pomeriggio del primo giorno, di ritorno dal We-Tashlikh sulla riva del Po mi fermai a casa Sua in Corso Massimo per adempiere a una Sua precisa richiesta: consentirGli ancora una volta la Mitzwah di udire il Suono dello Shofar. Furono suoni rotti, tutt’altro che perfetti. Anni addietro mi era capitata analoga esperienza con un’altra persona. Dopo avere udito lo Shofar esalò l’anima a D. Un mio Maestro mi spiegò: per poter lasciare questo mondo un’anima grande deve prima aver chiesto il permesso. Lo Shofar glielo ha dato.
Lo Shofar è un ponte fra coscienza individuale e coscienza nazionale. Suoniamo lo Shofar per risvegliare le nostre anime alla Teshuvah (pentimento), affinché H. si ricordi di ciascuno di noi nel Giorno del Giudizio. Ma nell’insegnamento dei Profeti anche all’annuncio della Gheullah (redenzione) e del Qibbutz Galuyyot (raduno degli esilii) “sarà suonato un grande Shofar”. Con lo Shofar e non con le armi Yehoshua’ portò a termine la prima conquista in Eretz Israel: l’espugnazione della città di Gerico. E’ la neutralità nel senso di rinuncia alla violenza di cui parlavo poc’anzi, che costituisce il monito per tutte le conquiste successive e in generale per il nostro rapporto con la Terra.
Studiando con l’amico Maskil Ariel Finzi la scorsa settimana ho sentito parlare di una pagina della storia ebraica recente di cui non ero a conoscenza. Mi ha mostrato uno studio sul “Minhag” adottato in alcuni Battè Kenesset in Israele di cantare la Ha-Tiqwah subito dopo il suono dello Shofar alla fine di Yom Kippur. Pare che l’usanza possa ricondursi al fatto che prima della nascita dello Stato d’Israel il governo mandatario britannico aveva proibito agli Ebrei di suonare lo Shofar davanti al Kotel (Muro Occidentale) alla fine di Yom Kippur, pena il carcere. Molti sfidarono il regime. Si riferisce che un anno il Gran Rabbino Rav Kook avesse scritto agli Inglesi minacciando di prolungare ad oltranza il digiuno di Kippur se non avessero prontamente liberato il Toqea’ (suonatore) reo di avere infranto il loro regolamento palesemente discriminatorio. La riconquista della Città Vecchia di Yerushalaim cinquant’anni fa rimase legata all’immagine di Rav Goren, allora Rabbino Capo delle forze armate, intento a suonare lo Shofar al Kotel. Da allora i giovani si sono dati appuntamento di anno in anno affinché il suono simbolo del nostro affrancamento non mancasse nel momento più sacro nel luogo più sacro. E l’usanza deve aver preso piede anche altrove in Terra d’Israele.
Ciononostante ho qualche perplessità nell’introdurre questo “Minhag” fuori da Israele. Yom Kippur è e resta un giorno di redenzione individuale e non nazionale. Alla fine di Yom Kippur lo Shofar, dicono i nostri Maestri con un pizzico di arguzia, è il nostro avvocato che ha perorato la nostra causa e con cui festeggiamo dopo aver felicemente ottenuto la nostra personale assoluzione. La Ha-Tiqwah si canta già da noi alla fine del Seder di Pessach e per Yom ha-‘Atzmaut (a differenza di altri paesi in cui, come ricordato nell’articolo, se ne usa solo la melodia sulle parole del Salmo 126, Shir ha-Ma’alot Beshuv…). Lo Stato non può mettere in secondo piano la responsabilità del singolo come se, per il fatto che esiste, espiasse per tutti. Troppo comodo. Non è ciò che la Torah vuole da noi oggi. Questo sarà possibile solo con la ricostruzione del Bet ha-Miqdash (Santuario), presto ai nostri giorni, allorché il Kohen Gadol (Gran Sacerdote) tornerà ad assumere su di sé il peso dell’espiazione di tutto il nostro popolo, come in antico. Non prima.