Relativamente poco spazio è stato finora dedicato in Italia alla “Shoah degli artisti”. Esiste infatti una produzione figurativa opera di sopravvissuti alla Shoah che merita di essere studiata e analizzata, alla ricerca dei metodi adoperati da ciascuno per esprimere l’istanza della memoria di fatti da essi per lo più vissuti in prima persona. Mi soffermerò oggi sul pittore Samuel Bak, che si appresta a festeggiare i suoi 90 anni, essendo nato a Vilna nel 1933. Enfant prodige, ebbe la sua prima mostra nel Ghetto della sua città natale nel 1942, sotto l’occupazione nazista, all’età di soli nove anni. Alla fine della guerra gli unici sopravvissuti della sua famiglia erano lui e sua madre perché sono riusciti a rifugiarsi in un convento benedettino. Suo padre è stato fucilato nel luglio 1944, pochi giorni prima della liberazione da parte dei sovietici. Con sua madre ha lasciato la nazione e dal 1945 al 1948 hanno vissuto in campi profughi in Germania. Sono emigrati successivamente in Israele, dove Samuel ha studiato arte all’Accademia delle Arti e del Design di Betzalel a Gerusalemme; ha proseguito poi gli studi a Parigi, ha trascorso vari periodi a Roma (1956-63), in Svizzera e in Israele e si è stabilito definitivamente negli Stati Uniti dove tuttora vive. Nel 2017 Vilna gli ha dedicato un Museo.
Nella sua produzione artistica egli rivive il dramma della Shoah. Nel corso della sua carriera egli passa da un relativo realismo pittorico a uno stile fantastico e simbolico. Il dipinto “Proposal for a Monument”, datato 1977, contiene un’architettura nella pittura, forse ispirata al Rinascimento italiano: propone il modello per un monumento che eterni il ricordo della Shoah da collocare idealmente ai piedi del Monte Sinai. Esso consiste nelle Tavole della Legge, figurate secondo l’iconografia tradizionale con la parte alta arrotondata. Ma non sono esattamente quelle che Mosè ricevette da D.: solo alcune parole sono intatte. L’autore stesso commenta il quadro:
“La profanazione delle leggi ha creato una tomba di massa, provocando la cancellazione delle iscrizioni e la trasformazione delle Tavole in pietre tombali. Nel corso della loro lunga storia di violazioni e abusi, le Tavole hanno mantenuto il loro eterno potere di riemergere come una guida per coloro che scelgono di accettarne il Patto. Il loro potere non può essere totalmente annichilito: dai loro frammenti, delle nuove Tavole vengono create”.
Le Tavole sono qui presentate come spezzate, ma tenute assieme con barre metalliche. Al centro, esse ci rendono la sagoma di una Stella di Davide che è tuttavia frantumata a sua volta e forata da proiettili, che testimoniano il recente furioso attacco di cui sono state il bersaglio. Dell’iscrizione originale rimane ben poco: la doppia yod in alto a destra, unica traccia del 1° Comandamento: “Io sono il S.”; il numero 6 in alto a sinistra, che indica i 6 milioni, vittime della violazione del 6° Comandamento: “non uccidere”; metà del 9, allusione al 9° Comandamento: “non fare falsa testimonianza” e del 10, “non desiderare la casa del tuo vicino”. Le “Tavole del Patto” (luchot ha-berìt) sono chiamate nella Bibbia anche: “Tavole della Testimonianza” (luchot ha-’edut). Lo spettatore è così invitato a fornire una nuova testimonianza di questi Comandamenti in rapporto all’esperienza dell’Olocausto e agli altri Comandamenti perduti. Va ricordato che l’immagine delle Tavole con lo Scritto deturpato è a sua volta ricorrente: lo storico Shalom An-ski (1863-1920) riporta nei diari dei suoi viaggi a sostegno delle comunità ebraiche della Galizia massacrate e violentate dai pogrom durante la Prima Guerra Mondiale di aver visitato la Sinagoga di Dembitz/Debiça devastata. Tutto ciò che rimaneva dei Dieci Comandamenti erano le parole “uccidere” e “commettere adulterio”, ormai prive della negazione iniziale.
Proprio ciò che non c’è è tuttavia l’aspetto più interessante del quadro: le parole mancanti. Alla base del dipinto c’è un Midrash (leggenda talmudica) che espande il racconto biblico del momento in cui Mosè, disceso dal Monte Sinai, scoprì che il popolo aveva fatto il Vitello d’Oro e ruppe le Tavole della Legge che aveva ricevuto da D. (Esodo 32). La leggenda aggiunge che in quel momento le lettere incise sulle Tavole volarono via. Vi sono due varianti della storia: la prima sostiene che le lettere presero il volo come conseguenza della rottura deliberata delle Tavole compiuta da Mosè, adirato per la trasgressione; la seconda ritiene invece che le lettere volarono via prima, a causa della trasgressione stessa; più esattamente “lo Scritto reggeva tutto il peso delle pietre, come l’anima sostiene il corpo; una volta che le lettere volarono via, le pietre fecero avvertire tutto il loro peso morto sulle braccia di Mosè, caddero e si ruppero”.
Il topos delle lettere che volano via è ricordato in almeno un altro passo del Talmud, a proposito della morte di R. Chaninà ben Teradyon, uno dei “dieci martiri” dei Romani. R. Chaninà aveva continuato a insegnare Torah in pubblico nonostante i divieti dell’Imperatore Adriano e fu condannato a essere arso sul rogo avvolto nel rotolo della Torah stessa. Durante il supplizio, prima che spirasse gli fu chiesto che cosa vedeva e rispose: “pergamene che bruciano e lettere che volano via”. Sul significato del simbolo la spiegazione più semplice è che in un luogo d’impurità, quale quella generata dalla trasgressione e dalla persecuzione nelle due fonti rispettivamente, lo Scritto Sacro non può trovare spazio e torna alla sua fonte Celeste. Ma è possibile una lettura più profonda e più umana al tempo stesso. Scrive un altro testimone della Shoah, Elie Wiesel commentando l’esecuzione di R. Chaninà ben Teradyon:
“Le lettere sospese in aria tra cielo e terra, fuori dalla portata degli uomini, vivranno per sempre; vi è qualcosa di immortale in loro, come in tutti gli esseri umani creati da D. A questo punto il dialogo si innalza su toni di nobiltà sublime. Colui che va a morire ha già vinto la morte, per il solo fatto di aver protetto con la sua influenza l’universo delle lettere sacre: la morte non ha potere sulla Scrittura, sull’immaginario, sulla ricerca dello Spirito”.
La Bibbia afferma che lo Scritto era inciso sulle Tavole: “inciso” si dice in ebraico charùt. Questo fornisce ai Maestri l’opzione di modificare leggermente la punteggiatura che, come è noto, non fa parte del testo masoretico. Se invece di charùt leggessimo cherùt, infatti, la parola assumerebbe il senso di “libertà”: “per insegnarci che non vi è uomo libero se non chi si dedica alla Torah”. Libertà non solo in senso politico, naturalmente, ma anche e soprattutto in senso morale. Immaginare che le lettere siano volate via dalle pietre significa dunque affermare con forza che la libertà “si è presa la sua libertà”. Le lettere assurgono qui a simbolo della parte migliore dell’Uomo, che per definizione non si presta a essere intimorita, imprigionata, né imbavagliata e tanto meno uccisa, dal Male. Si può annichilire il fisico, ma non lo Spirito. La libertà dello Spirito umano prevale su tutto il resto e mantiene a sua volta la sua propria libertà indistruttibile. Questo è, secondo Samuel Bak, l’insegnamento, o meglio, la perorazione che la Shoah rivolge a noi posteri. Un principio di cui far tesoro per la costruzione di un mondo sperabilmente migliore.
Rav Alberto Moshe Somekh
(Questo intervento è stato pronunciato nella sede del Broletto di Novara, dove si è svolta ieri un’importante manifestazione di studio e di approfondimento in occasione del Giorno della Memoria, sotto il patrocinio delle istituzioni cittadine. Protagonisti sono stati i ragazzi di alcune classi delle Scuole Superiori, in particolare del Liceo Musicale Casorati, del Liceo Scientifico G. Galilei e dell’Istituto Superiore di Borgomanero. Sotto la guida di insegnanti appassionate ed esperte, i ragazzi si sono alternati nel presentare analisi letterarie, brani musicali e filmati da essi stessi prodotti: uno di loro, il giovane Samuele Agnesina, ha diretto l’esecuzione di un quintetto di sua composizione, intitolato “Shoah. Lontani da ogni retorica”, in un clima di grande affiatamento e di notevole spessore culturale si è ribadita l’importanza dei concetti di memoria e libertà da tramandare da una generazione all’altra. A rappresentare il mondo ebraico il rav Alberto Moshe Somekh di Torino, che ha tenuto una lezione dal titolo: “La libertà della libertà”, in cui ha voluto fornire ai ragazzi – come affermato in apertura – “un saggio di come noi ebrei interpretiamo la realtà”. Nell’occasione il rav ha espresso profonda gratitudine nei confronti di Gabriella Colla, direttrice dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Novara, “per le notevoli capacità organizzative e l’entusiasmo che riesce a trasmettere nella condivisione di questi temi”)