Un brano tratto dal libro “Dio ha scelto Israele”
“Quando si vede un edificio già finito, non si pensa alla fatica impiegata per costruirlo”, ha detto qualcuno. Questo è particolarmente vero per quel particolare edificio che è l’attuale lingua ebraica. Nel suo soggiorno di Parigi Ben Yehuda scrisse un articolo che era un accorato appello per il ritorno degli ebrei in Israele. Non fu facile trovare un giornale disposto a pubblicarlo, ma alla fine la risposta positiva arrivò da una rivista mensile ebraica di Vienna: “Hashahar“, che significa “L’alba”. Nell’articolo, apparso nel 1879 con il titolo “Una questione degna di nota”, si diceva:
«Se è vero che tutti i singoli popoli hanno diritto di difendere la loro nazionalità e proteggersi dall’estinzione, allora anche noi, gli ebrei, dobbiamo avere lo stesso diritto. Perché il nostro destino dovrebbe essere più misero di quello di tutti gli altri? Perché dovremmo soffocare la speranza di un ritorno, la speranza di divenire una nazione nella nostra terra abbandonata, che ancora piange i suoi figli cacciati in terre remote duemila anni fa? Perché non dovremmo seguire l’esempio delle altre nazioni, grandi e piccole, e fare qualche cosa per proteggere il nostro popolo dallo sterminio? Perché non dovremmo sollevarci e guardare al futuro? Perché restiamo con le mani in mano e non facciamo nulla che possa gettare le basi su cui costruire la salvezza del nostro popolo? Se ci importa che il nome di Israele non si cancelli dalla faccia della terra, dobbiamo creare un centro per tutti gli israeliti: un cuore dal quale il sangue scorra lungo le arterie di tutto il corpo e lo richiami a nuova vita. Soltanto il ritorno a Eretz Israel può rispondere a questo scopo. […]
Oggi, come nei tempi antichi, questa è una terra benedetta dove mangeremo il nostro pane senza umiliazioni, una terra fertile cui la natura ha donato gloria e bellezza; una terra che ha solo bisogno di forti mani laboriose per farne il più felice dei paesi. Tutti i turisti che visitano quei luoghi lo dichiarano all’unanimità.
E ora è venuto il tempo per noi – gli ebrei – di fare qualche cosa di costruttivo. Creiamo una società per l’acquisto di terra a Eretz Israel; per comperare tutto quello che occorre per l’agricoltura; per dividere la terra fra gli ebrei che sono già residenti e quelli che desiderano emigrare, e per provvedere fondi per coloro che non possono trovare una sistemazione indipendente.»
Per coerenza con quanto aveva scritto, Ben Yehuda capì che doveva personalmente trasferirsi a Gerusalemme. Comunicò la sua decisione ai suoi amici e alla sua fidanzata in Lituania.
La moglie adatta per una famiglia eccezionale
Qui bisogna dire che il Signore per i suoi piani in questo caso non scelse soltanto un uomo, ma anche una donna, anzi due donne. Perché Eliezer sposò prima Deborah, di quattro anni più grande di lui, e in seguito, dopo la sua prematura morte, la sorella Pola, di quattordici anni più giovane di lui. Da queste due donne, a dir poco straordinarie, Eliezer ebbe undici figli. Molti morirono in tenera età, ma una figlia, Dola, è vissuta fino all’età di 103 anni.
Deborah era una ragazza affascinante, istruita, appartenente a una famiglia benestante e di elevata cultura. I suoi genitori avevano accolto in casa il giovane Eliezer quando aveva quattordici anni, e Deborah, che allora ne aveva diciotto, gli aveva insegnato in casa il russo, il francese e il tedesco. Rimase sentimentalmente legata a lui anche quando partì per Parigi, e poi accettò con convinzione di sposarlo e di seguirlo in un progetto di vita che a molti poteva apparire folle.
Si sposarono durante il viaggio verso Gerusalemme, dove arrivarono nel 1881. Pochi mesi dopo il loro arrivo, proprio alla vigilia di Pesach, la pasqua ebraica, ricevettero la visita inaspettata di un gruppo di giovani ebrei provenienti dall’Europa orientale. Erano sbarcati a Giaffa e avevano percorso a piedi ottanta chilometri per arrivare a Gerusalemme e incontrare Ben Yehuda. Erano i Biluim, giovani idealisti ebrei, quasi tutti studenti universitari, che avevano letto l’appello di Ben Yehuda sulla rivista viennese Hashahar” e avevano deciso di lasciare tutto alle spalle e di stabilirsi in Palestina per collaborare alla rinascita dello Stato di Israele.
Insieme a loro e ad altri intellettuali ebrei Ben Yehuda pose subito il problema della lingua. In una riunione indetta a questo proposito i partecipanti si organizzarono in un movimento definito “L’esercito dei difensori della lingua” e firmarono un patto che tra l’altro diceva:
«I membri residenti nella terra d’Israele parleranno la lingua ebraica fra loro, in società, nei luoghi di riunione, nelle strade, nelle piazze e non se ne vergogneranno. Si impegnano a insegnare la lingua ai loro figli, maschi e femmine, e a tutti gli altri componenti delle loro famiglie.
I membri vigileranno sul linguaggio nelle strade e nei luoghi di mercato, e quando sentiranno parlare russo, francese, yiddish, inglese, spagnolo, arabo, o qualunque altra lingua non mancheranno di fare un rimprovero, anche alla persona anziana, dicendo: ‘Non vi vergognate?’»
Ben Yehuda ebbe modo di mostrare subito la sua fedeltà al patto nell’organizzazione della sua famiglia. Alla moglie che stava aspettando un bambino fece fare una solenne promessa che suonava più o meno così:
«Il bambino non dovrà sentire parola, altro che in ebraico. La nostra casa dev’essere un santuario dove nessuno parla altra lingua che questa. Chiunque ne passi la soglia deve accettare questo patto, deve entrare con parole ebraiche sulle labbra. Finché la nostra crociata non avrà incontrato il favore popolare, dobbiamo isolare il bambino dalla contaminazione delle lingue e dei dialetti della diaspora. Questo è molto più importante di tutti i miei scritti e del mio insegnamento, perché con l’esempio potremo riuscire a trascinare il mondo israelita alla nostra idea.»
Deborah accettò e mantenne la promessa. Nel 1882 nacque il loro primo figlio, un maschio, e la prima parola che la madre disse alla sua creatura quando l’ebbe fra le braccia fu una parola ebraica: “Yaldi” (figlio mio).
Come si può facilmente immaginare, l’impegno preso non mancò di produrre qualche complicazione. Per fare solo un esempio, la signora che avrebbe dovuto assistere Deborah prima e dopo il parto era la moglie del capo della colonia degli ebrei britannici a Gerusalemme, che però non conosceva l’ebraico. Eliezer le aveva categoricamente proibito di parlare quando il bambino era nella stanza con la madre. Ma poiché non tutto si può esprimere a gesti, alla fine fu sostituita dalla moglie del rabbino, che parlava l’ebraico e gentilmente offrì il suo aiuto. In seguito, chi voleva entrare in casa Ben Yehuda doveva sottoporsi a una specie di esame di lingua, e nel caso questo non fosse superato, poteva entrare solo a patto di non aprire bocca.
Ma l’impegno fu mantenuto e fu coronato da successo. I figli di Ben Yehuda furono i primi, dopo tanti secoli, ad avere come lingua materna soltanto l’ebraico. Non mancarono le difficoltà e anche i dubbi, instillati nella mente dei genitori dai soliti amici benintenzionati. Il loro primo figlio, Ben Zion, cominciò a parlare molto tardi, e non dev’essere stato piacevole per Deborah sentirsi dire da qualcuno che con il loro sistema stavano allevando degli idioti. L’educazione impartita nella sua famiglia era per Ben Yehuda una sfida: se l’avesse persa, lo smacco subito sarebbe stato incalcolabile. Ma così non fu. A cinque anni Ben Zion parlava un perfetto ebraico, ed era l’unico bambino al mondo che in quel momento parlava soltanto quella lingua.
«Un giorno i due coniugi camminavano per una delle stradine contorte di Gerusalemme parlando ebraico tra di loro. Un uomo li fermò. Tirando la manica di Eliezer domandò in yiddish:
«Un giorno i due coniugi camminavano per una delle stradine contorte di Gerusalemme parlando ebraico tra di loro. Un uomo li fermò. Tirando la manica di Eliezer domandò in yiddish:
‘Scusate, signore, quella lingua che parlate, che cos’è?’
‘Ebraico’ rispose Eliezer.
‘Ebraico? Ma la gente non parla ebraico. E’ una lingua morta.’
‘Sbagliate, amico’, replicò Eliezer. ‘Io sono vivo. Mia moglie è viva. Parliamo ebraico. Quindi è una lingua viva!’»