Gianfranco Ravasi
«È così divertente credere in Dio!». E ancora: «Mi piace la compagnia dei monaci, delle suore e dei credenti di ogni genere e mi sono sempre sentito a casa tra le persone di quella fascia. Io non so esattamente perché, so soltanto che rende le cose più interessanti».
A fare simili dichiarazioni davanti a una selva di microfoni è stato un cantautore che sicuramente molti miei lettori conoscono, ma che io ho incrociato per caso solo perché anni fa il mio amico Roberto Vecchioni gli aveva intitolato una canzone: era Leonard Cohen dell’album Milady del 1989. Lo stupore in me era cresciuto quando avevo scoperto che la «Garzantina» della letteratura gli riservava una voce lunga quanto quella dedicata a Bob Dylan. Sì, perché questo «little Jew who wrote the Bible», come lui stesso si autodefinisce, nato nella canadese Montreal 76 anni fa, è stato anche un apprezzato poeta e romanziere. E domani sarà in concerto a Firenze per l’unica tappa italiana del suo tour.
Ora, finalmente, so quasi tutto di lui perché un infaticabile cultore dei nessi espliciti e segreti tra Bibbia e cultura contemporanea come Brunetto Salvarani, coadiuvato da Odoardo Semellini, un esperto di musica della sua stessa città, Carpi, ne ha offerto un ritratto capace di fondere insieme filologia e divertissement, documentazione e narrazione, testo ed emozione. Un po’ come il protagonista Cohen, che ha sempre cercato di intrecciare nel suo pensare, scrivere e cantare spirito e corpo, mito e storia, mistica e amore, sacro e profano, ma soprattutto Dio e uomo, avendo sempre accesa nel suo cielo la stella della Bibbia, cibo quotidiano della sua famiglia di ebrei mitteleuropei e stemma di un cognome così impegnativo (come è noto, in ebraico, kohen è il «sacerdote»).
Certo, la sua religiosità è iridescente come un arcobaleno e i vari capitoli di questo profilo ne sono il riflesso, affidati a una trama di citazioni, di episodi, di testimonianze che non lasciano varco alla noia o alla distrazione. Basti solo evocare una canzone la cui simbolicità è già nel titolo, «Hallelujah», sì, il termine dei Salmi e della liturgia. Si tratta di una manciata di minuti (oscillanti tra i quattro e i sette delle due versioni da lui approntate) che, però, fanno scrivere a un critico di Repubblica (che immagino “laico”), Gino Castaldo: «È una canzone di tale bellezza che da sola varrebbe una carriera».
L’ispirazione di questo «Lodate il Signore» (tale è il significato dell’ebraico Hallelujah) attinge a uno dei Salmi più celebri, il 51, cioè il Miserere, che la tradizione ha posto sulle labbra di un re Davide finalmente baffled, «confuso», dopo il suo adulterio con Betsabea e l’assassinio – per interposta persona – del marito di lei, l’ufficiale Uria dell’esercito ebraico (si rilegga la straordinaria “sceneggiatura” di questi eventi nei capitoli 11-12 del Secondo Libro di Samuele).
Non tracciamo ora la trama di questa canzone che Cohen elaborò in più di due anni, giungendo fino ad almeno ottanta strofe per farne sopravvivere solo cinque. L’esegeta potrebbe eccepire sulla confusione (voluta?) tra la storia di quel re di Giuda e la vicenda di Sansone e Dalila: «La sua bellezza e il chiarore della luna ti sconfissero / lei ti legò a una sedia da cucina, / distrusse il tuo trono, tagliò i tuoi capelli…». Ma ciò che brilla e che importa è da cercare nella finale del canto, allorché al volto di Davide subentra in dissolvenza quello di Leonard, vanamente teso in un’autogiustificazione che non resiste davanti alla «vampa di luce presente in ogni parola» divina. Ma a questo punto si assiste a una polimorfia di allusioni, di ammiccamenti, di rimandi poetici, personali, spirituali, teologici che i due autori del saggio dipanano con finezza, e alla fine Cohen-Davide altro non è che un Hallelujah vivente: «I’ll stand before the Lord of Song / With nothing on my tongue but Hallelujah». Davanti al Signore del canto, egli si erge avendo sulle labbra nient’altro che la lode, l’Hallelujah appunto.
Lasciamo al lettore di andare oltre nella scoperta della filigrana biblica e religiosa dell’opera di questo «little Jew», che rimpianse apertamente di non aver conosciuto l’autore italiano più vicino (a suo modo) a lui, cioè quel Fabrizio De André che si professava suo discepolo. In queste pagine una vasta bio-bibliografia ricostruisce tutta un’esistenza condotta «aspettando che l’Amore ti chiami per nome» (Love calls you by your name). Vorrei solo ricordare che la raccolta dei 150 Salmi biblici non ha affascinato solo Cohen, che ne respira ritmo e anelito anche quando non li adotta direttamente (si ascolti If it be your will, «una vera e propria preghiera dai contorni di un Salmo biblico»).
Anche Bono, il noto leader della band degli U2, ha saldamente imbracciato l’arpa di Davide, facendola echeggiare in alcune sue composizioni recenti, e giungendo al punto di scrivere la prefazione a un’edizione dei Salmi (da noi l’ha tradotta Einaudi nel 2000) ove confessa che «Salmi e inni sono stati il mio primo assaggio di musica ispirata… Parole e musica hanno fatto per me ciò che solide, addirittura rigorose argomentazioni religiose non sono mai riuscite a fare, mi hanno introdotto a Dio, non alla fede in Dio, piuttosto a un senso tangibile di Dio».
È un po’ questa anche l’esperienza di Cohen che un altro componente degli U2, il chitarrista The Edge, così dipingeva: «Leonard è per me colui che è sceso dal monte con le tavole di pietra, dopo essere stato lassù a parlare con gli angeli». È curioso notare che nelle nostre lingue il termine «ispirazione» è usato sia per indicare lo Spirito di Dio che attraversa gli autori sacri, sia l’afflato creativo del poeta, del musicista, dell’artista. La stessa Bibbia non esitava a usare la medesima radice verbale (nb’) per definire il profeta e l’opera dei cantori e dei musicisti (1 Cronache 25,1).
Il Sole 24 Ore – 31 agosto 2010