מִקְדָּשׁ מֶלֶךְ עִיר מְלוּכָה קוּמִי צְאִי מִתּוֹךְ הַהֲפֵכָה רַב לָךְ שֶׁבֶת בְּעֵמֶק הַבָּכָא וְהוּא יַחְמֹל עָלַיִךְ חֶמְלָה הִתְנַעֲרִי מֵעָפָר קוּמִי לִבְשִׁי בִּגְדֵי תִפְאַרְתֵּךְ עַמִּי עַל יַד בֶּן יִשַׁי בֵּית הַלַּחְמִי קָרְבָה אֶל נַפְשִׁי גְאלָּהּ
“O Santuario del Re, o città reale orsù sollevati dalla rovina, ti basti di stare nella valle del pianto poiché Egli avrà di te pietà; scuotiti sollevati dalla polvere, indossa gli abiti della tua gloria o popolo mio, per l’opera del figlio di Jesse di Betlemme avvicinati all’anima mia redimila”
Dopo le prime due strofe, che hanno come tema principale lo Shabbat, subentra un nuovo tema, il riscatto di Yerushalaim e la redenzione di Israele, che verrà affrontato sino all’ottava strofa del brano. Assistiamo ad un salto logico, perché dallo Shabbat, visto come redenzione in una dimensione temporale, passiamo a considerare categorie di ordine spaziale. Il legame fra Shabbat e redenzione viene esplicitato in una famosa affermazione dei Chakhamim (Shabbat 118b): “ha detto R. Shim’on Bar Yochai: se Israele rispettasse due Shabbatot secondo le loro regole, sarebbero subito redenti”. L’attesa della redenzione è di certo collegata al periodo in cui l’autore visse, la generazione successiva alla cacciata degli Ebrei dalla Spagna, che provocò enormi sofferenze al popolo ebraico e venne intesa da molti come chevlè mashiach, doglie messianiche.
Il poeta si rivolge a Yerushalaim chiamandola “Miqdash melekh ‘ir melukhàh”. L’espressione, con una minima variazione, deriva dal libro di Amos (7,13 – Miqdash melekh uvet melukhàh), e rispetto al contesto originario è totalmente stravolta, perché queste parole sono rivolte ad Amos dal profeta idolatra Amatziàh, che era alla corte del re Yarov’am, con l’intenzione di fargli abbandonare Bet El, e tornare da dove era venuto, Teqoa’ nel regno di Giuda. Nell’espressione originaria pertanto abbiamo sì un santuario, ma di un culto idolatra, ed il regno di un re idolatra! Certamente si allude anche alla parabola di Bet El, che aveva ricevuto il nome da Ya’aqov all’inizio della parashàh di Wayetzè con il sogno della scala, nella speranza che il luogo, ed Eretz Israel in generale, potessero acquisire nuovamente la santità che anticamente li caratterizzava. Ma non dobbiamo dimenticare che Malkut, nel linguaggio proprio dei mequbalim, indica una delle sefirot, ed in particolare l’ambito dell’influenza sul mondo circostante. Difatti questa sefiràh è propria della “parte immanente” di H., quella che entra in contatto con questo mondo, e quindi la prima parte della strofa può riferirsi anche alla Shekhinàh, la Presenza Divina. Dobbiamo altresì ricordare che nella visione del mondo dei mequbalim vi sono tre categorie fondamentali: il mondo, l’anno e l’anima, tradotti nel nostro linguaggio, lo spazio, il tempo e l’umanità, ed i protagonisti del Lekhàh dodì, lo Shabbat, Yerushalaim ed il popolo ebraico, hanno ciascuno a diverso titolo la caratteristica della regalità. L’espressione mitokh ha-hafekhàh deriva invece dalla parashàh di questa settimana: la sofferenza dovuta all’esilio di Israele viene paragonato alla distruzione di Sedom e ‘Amoràh, dalla quale venne risparmiato Lot, che “(H.) aveva mandato via dal sovvertimento (mittokh ha-hafekhàh)”.
L’Emeq ha-bakhàh, la valle del pianto viene dal salmo 84 (Lamenazeach ‘al ha-ghittit), che conosciamo tutti bene, in quanto si recita ogni giorno all’inizio della tefillàh di minchàh. In realtà il senso letterale del verso si riferisce ad una specie di pianta, ma non è da escludere, come effettivamente fa il Midrash, che già vi sia già nell’intenzione del Salmista alludere al pianto, bekhi. Parimenti l’emeq, la valle, richiama l”omeq, la profondità propria della disperazione di chi si trova imprigionato in una certa situazione e non sa come uscirne. Il poeta probabilmente intende alludere al rapporto fra lo shabbat e gli altri giorni della settimana, nei quali siamo assoggettati al dominio della materia, o rimanendo a livello di senso letterale, si tratta delle lacrime versate dal popolo ebraico in esilio per via delle sofferenze subite, o le lacrime dovute alla nostalgia per Yerushalaim. Un ulteriore significato possiamo trarlo dal commento di Rashì a Yesha’iahu 9,17, dove il termine viene inteso come smarrimento (come nevukhim hem ba-aretz nel libro di Shemot). E’ possibile altresì sostenere che il lettore moderno è eccessivamente influenzato dall’accezione moderna dell’espressione, che richiama episodi nefasti della storia recente, come la Shoàh, o la battaglia della guerra del Kippur che portò ingenti perdite all’esercito israeliano, mentre l’autore voleva riferirsi principalmente al senso dell’espressione del Tanakh, senza ulteriori allusioni.
In Geremia 15,5 il profeta chiede “chi avrà pietà di te, Yerushalaim?” Il poeta, usando la medesima espressione, risponde che sarà direttamente H. ad avere pietà di lei. Il termine utilizzato è Hù, che per i mequbalim ha un senso ben preciso, e richiama la sefiràh del Keter, che secondo molti non rientra nel computo delle dieci Sefirot. Il Keter indica un concetto non ulteriormente riducibile, che è quello della volontà, che non ha ulteriori cause precedenti e determina un rapporto causa effetto.
Dalla strofa successiva iniziano i riferimenti a brani del profeta della consolazione per antonomasia, Yesha’iahu. Il sollevamento dalla polvere infatti deriva da Isaia 52, riferito a Yerushalaim, che sedeva sulla polvere per il lutto per i suoi figli. Questa volta è la Shekhinàh a trovarsi nella polvere, che sprofonda con il perpetuarsi dell’esilio. Shelomò Alqabetz effettuerà almeno in tre altre occasioni questa operazione di eliminazione di Yerushalaim, che compariva nel contesto originario. Non è da escludere che questa scelta fosse collegata al contesto politico dell’epoca, in cui Zfat ed il suo circolo di mequbalim facevano concorrenza a Yerushalaim, proponendosi come inizio della redenzione di Israele. Fra l’altro è possibile che vi sia un riferimento alla baraità in Masshekhet Rosh ha-shanàh (31b), dove si parla della Shekhinàh che si scuote e si rialza dalla polvere di Tiberiade, per salire con ogni probabilità sui monti della Galilea. In questo modo, pur utilizzando una terminologia che appartiene alla redenzione di Yeruashalaim e senza, vista la delicatezza dell’argomento, dirlo mai esplicitamente, il poeta intende affermare la supremazia della Galilea su Yerushalaim.
Con il termine dell’esilio è la Shekhinàh ad indossare nuovi splendenti abiti, anticipando la vestizione di Yerushalaim del verso precedente in Yesha’iahu (52,1). Queste due strofe del Lekhàh dodì utilizzano delle immagini molto forti, in particolare l”emeq habakhà e la Shekhinàh nella polvere. Per questo l’autore del Chemdat Yamim modificò queste parti nel componimento, elaborando una versione alternativa nella quale erano eliminate le espressioni che avevano un’accezione negativa.