La seconda strofa del Lekhah Dodì comincia con l’invito vicendevole a uscire incontro allo Shabbat: Liqrat Shabbat lekhù we-nelekhah. Di ciò si è già parlato la scorsa settimana. Aggiungo qui che vi era anticamente anche una motivazione pratica a sostegno dell’usanza di “uscire”: i Battè ha-Kenesset in epoca talmudica erano per lo più collocati fuori dai centri abitati, ponendo problemi di sicurezza soprattutto il venerdì sera, allorché non è lecito trasportare con sé mezzi di difesa. Per consentire agli eventuali ritardatari di lasciare il Bet ha-Kenesset insieme a tutti gli altri al termine della Tefillah i nostri Maestri hanno addirittura istituito una Berakhah suppletiva dopo la ‘Amidah del venerdì sera che la riassumesse (Me’eyn Sheva’: Maghen Avot…) a differenza delle altre sere, dal momento che lo Shemoneh ‘Esreh di ‘Arvit non viene mai ripetuto.
Dobbiamo abituarci al fatto che da sempre i Paytanim (autori di Piyutim) si servono di citazioni bibliche estrapolandole dal loro contesto e intersecandole variamente creano un contesto nuovo. Ciò suscita nel lettore colto una benefica tensione intellettuale fra la consapevolezza del contesto originario e quello attuale. L’espressione è tratta dal libro di Yesha’yahu: Bet Ya’aqov lekhù we-nelekhah be-or H. “Casa di Ya’aqov, venite che procediamo nella luce di H.” (2,5). Il capitolo profetico descrive il Bet ha-Miqdash di Yerushalaim alla fine dei giorni come luogo di incontro universale “cui tutti i popoli affluiranno” (v. 2). Nella mente di R. Shelomoh lo Shabbat prende il posto del Santuario di Gerusalemme da ricostruire. Ciò anticipa l’argomento delle prossime strofe. Ci basti per ora ricordare che come lo Shabbat è paragonato a una sposa, così anche il Mishkan nel deserto, che anticipa il Tempio distrutto, è paragonato, con le sue cortine pendenti, a una sposa velata (Rashì a Shemot 26,9 e a Be-midbar 7,1).
Vorrei ora brevemente soffermarmi su un’altra espressione di questa strofa: ki hi meqor ha-berakhah. Lo Shabbat è la fonte di ogni benedizione. All’inizio della Parashah di questa settimana, Lekh lekhà, è detto ad Avraham Avinu we-hyèh berakhah (“sii benedizione” – Bereshit 12,2). Rashì commenta bekhà chotemin (“con te si chiude”): nella prima berakhah dello Shemoneh ‘Esreh si enumerano i tre Patriarchi nel ricordare il rapporto speciale che avevano con il S.B. zokher chasdè avòt, ma allorché si giunge al termine della Berakhah in cui si deve riassumere in due parole l’argomento solo il nome di Avraham viene ripetuto (Barukh attah H. maghen Avraham). Avraham è il primo dei Patriarchi, eppure è anche colui che chiude (chotèm) la serie, perché è il fondatore e in quanto tale poteva contare solo su se stesso. Spiega Rav Meklenburg che gli altri, a differenza di Avraham, avevano il “merito dei padri” ed essendo continuatori brillavano in parte di luce riflessa. Allo stesso modo lo Shabbat è l’inizio della settimana, dal quale traggono forza gli altri giorni, ma rappresenta anche la chatimah, la chiusura della settimana cui costantemente si guarda.
Il concetto è riecheggiato nelle parole successive dell’inno: sof ma’asseh be-machashavah techillah, lo Shabbat è stato creato per ultimo, ma nel progetto della creazione era il primo. Come narra il Midrash (Bereshit Rabbà 10,9): “Si può paragonare la fine della creazione ad un re che aveva allestito una chuppah, un baldacchino nuziale, con fregi e decorazioni magnifiche, ma mancava ancora della sposa che vi prendesse posto. Allo stesso modo il mondo mancava ancora dello Shabbat”. Ritorna qui il tema dello Shabbat = sposa che si affianca a quello dello Shabbat = regina. Spiega il Rav Kook nel suo commento alla Tefillah ‘Olat Reiyah che i due termini indicano momenti diversi dello Shabbat. Mentre il tema della regalità dello Shabbat ritorna in tutte le Tefillot della giornata (Yismechù be-malkhutekhà), il paragone con la sposa è solo per il venerdì sera. La sposa, dicevamo, è velata: ha in sé una componente di novità, di riservatezza e di inesperienza, di mistero. Lo Shabbat rappresenta il giorno in cui si chiariscono a noi i dubbi che ci sono sorti studiando la Torah nel corso della settimana. Ciò è reso possibile mediante la neshamah yeterah, la “anima addizionale” di cui veniamo dotati proprio all’inizio dello Shabbat. Non dimentichiamoci che la Torah stessa è “stata consegnata ad Israele come una sposa al suo sposo: come questi non può aver ancora conosciuto completamente la sposa il giorno delle nozze, così la Torah non può essere studiata tutta in una volta sola” (Rashì a Shemot 31,18). Non è un caso che il giorno da dedicare allo studio della Torah in modo privilegiato è proprio lo Shabbat. Lo studio della Torah durante lo Shabbat ci darà il merito di “ripristinare” il Tempio distrutto. Che sia ricostruito presto, ai nostri giorni!