CAPITOLO V: Educazione, famiglia, Shoah
5.1. L’influsso della Shoah sul progetto di vita dei giovani
5.2. Il problema dell’elaborazione
5.3. Problematiche educative
5.1 L’INFLUSSO DELLA “SHOAH” SUL PROGETTO DI VITA DEI GIOVANI
Desidero cominciare tale trattazione introducendo le parole di Simon Wiesenthal, il famoso sopravvissuto “cacciatore di teste naziste”, che in un suo articolo del dopoguerra si rivolgeva così ai giovani: ” (…) Oggi la gioventù, in particolare nelle democrazie, è spesso abbandonata a se stessa. Dopo la seconda guerra mondiale, per la prima volta, i giovani sono rimasti senza ideali. L’unica cosa cui sono invogliati a dedicarsi è il consumo. (…) Parlo dei giovani, ma continuo sempre a pensare a quel lungo filo nero che ai miei tempi a portato all’Europa dei Lager. L’analisi deve essere spietata anche se brucia. Allora dico: (…) Semmai si trattasse di difendere la libertà anche gli stati democratici più militarmente preparati incontrerebbero qualche problema con i giovani: perché i giovani non sanno cosa sia la libertà e che per vivere veramente nella libertà occorrono rispetto e comprensione per tutti.(…) Si deve combattere ogni giorno ed ogni ora per convincerli: non capiscono quello di cui parliamo. Bisogna che insegnanti, psicologi e non so chi altri siedano attorno ad un tavolo e studino il modo di combattere questo vuoto spirituale (…) e tornino a ricordare la lezione terribile che viene dalla tragedia dei lager. Perché la violenza….. è la falsa conseguenza di una situazione di base. Bisogna agganciare gli indecisi prima che si incamminino verso la via sbagliata.(…) Questo è il grande compito di oggi.
Dalle parole di S. Wiesenthal emerge con chiarezza l’importanza del motivare non superficialmente le giovani generazioni. Molto è scritto sulla maniera pedagogica migliore per trasmettere i messaggi della Shoah alle giovani generazioni mentre ben meno è trattato l’influsso che tale educazione o conoscenza ha su di loro. Per quanto riguarda l’educazione dopo Auschwitz, quindi, secondo diverse opinioni essa risulta efficace qualora non si propinino semplicemente informazioni ma si riesca a rompere la barriera naturale che c’è fra il docente e il discente. Questo lavoro non finisce mai di mettere in discussione non solo chi trasmette tale conoscenza ma anche chi la riceve, di appassionare e di far riflettere sulla maniera di migliorare sempre più gli interventi educativi che aprino un varco nella mente dei giovani e che permettano davvero di lasciarvi un segno.Quindi la scuola può e deve essere un punto di riferimento per i giovani dove si fabbrichino progetti carichi di valori che scaturiscano dall’analisi della contemporaneità, e a loro trasmessi perché possano conservarli e farne tesoro per costruire una società che, in linea con le tradizioni e la cultura, ponga alla base della convivenza, la solidarietà e il rispetto per la persona.
Ma quale invece l’influsso della Shoah sul progetto di vita e sul patrimonio culturale e valoriale dei giovani? Per dare una risposta a tale interrogativo è necessario chiarire come numerose siano state nel tempo le ricerche, i lavori di elaborazione su tale tema organizzate da classi scolastiche in collaborazione con vari enti, quali l’Aned44) e il Cedec45), mentre viva è stata la partecipazione ai seminari in merito, a simbolo del crescente interesse dei giovani verso le problematiche sollevate dalle riflessioni sulla Shoah. Malgrado ciò non vi sono trattazioni generali riguardo al forte impatto che il racconto della Shoah suscita sulle giovani generazioni, probabilmente a causa dalla molteplicità di influenze e di reazioni personalissime che tale racconta ha la potenzialità di suscitare. L’influsso della Shoah sulla gioventù odierna dipende fortemente dal backgraund culturale, dall’esperienza famigliare e personale, dalla sensibilità individuale di colui a cui viene trasmesso tale bagaglio conoscitivo. L’ impressione personale avuta dalle varie ricerche, dalle domande e dai commenti storici emersi da trattazioni riguardanti visite alle mostre, ai campi di sterminio, o dai commenti alle recite scolastiche organizzate attorno al tema della Shoah, è essenzialmente positiva in quanto è facile notare che ciò che accumuna le diverse esperienze è il vivo interesse che tale tema suscita. Emerge, però, chiaramente che parlare di Auschwitz in classe o ascoltare le testimonianze dei soppravvissuti è estremamente difficile non per un motivo di carattere scientifico o organizzativo ma per ragioni essenzialmente psicologiche o semplicemente umane: il discorso sulla Shoah ha un carico emotivo difficile da controllare. Questo carico si appesantisce ulteriormente qualora si partecipi in maniera attiva alla lezione, come auspicabile. C’è chi davanti al racconto della Shoah si chiude in un timido mutismo e chi prende l’iniziativa di porre apertamente domande inerenti ad essa o alla testimonianza.
La conoscenza della Shoah è un pesante carico da tramandare alle future generazioni in quanto la coscienza del giovane ne viene turbata ed egli si domanda spesso come la razza umana sia stata capace di tanta attrocità. Questo turbamento però, se rielaborato addeguatamente sia a livello personale che collettivo, porta il giovane a riflessioni generali e particolari più profonde in grado di estendersi a considerazioni sulle lacune del mondo e della società attuale. Credo che il giovane sia così in grado di rafforzare la propria potenzialità e le proprie credenze e valori anche grazie ad un lavoro di attualizzazione che può portare il racconto sulla Shoah a divenire un messaggio e monito attuale e universale. Il giovane coglie dalla Shoah il suo messaggio universale circa la natura dell’uomo, del Bene e del Male.
E’ fondamentale chiarire la natura della memoria storica dei giovani, inoltre, in quanto l’influsso della Shoah su di essi dipende in larga parte da ciò che la memoria giovanile considera importante e detiene. I giovani vivono in una dimensione storica e temporale del tutto diversa di quella della generazione della Shoah. Ogni generazione ha la sua memoria che di conseguenza non può trasmettersi del tutto intatta di generazione in generazione. Ogni generazione è portante di una variante specifica della memoria storica collettiva per cui ciò che risulta fondamentale è il rapporto tra le giovani e le vecchie generazioni e la trasmissione di conoscenze sulla Shoah. Il patrimonio culturale che viene trasmesso subisce modifiche da ogni generazione che vi porta un contributo.La comunicazione verticale tra le generazioni è però, scarsa mentre gli stessi giovani sono coscienti dell’importanza di poter avere accesso diretto ai racconti delle generazioni precedenti, alle testimonianze dei “nonni” che permettono di cogliere in profondità il tempo storico e l’insegnamento che esso porta. In tal modo il giovane si confronta con una realtà passata che egli collega con la realtà del presente e ne trae un valore attuale, universale, arricchendo così la propria coscienza e riflettendo su di una realtà storica di cui sente di far parte. Pur nella loro ingenuità, le giovani generazioni pongono domande nate da una distanza emotiva dagli eventi che permette di elaborare interpretazioni che ai contemporanei della Shoah sarebbero apparse illegittime o fuori luogo. Il vero problema è costituito dai giovani che non si pongono interrogativi; ma se ad una parte dei giovani manca una coscienza civile molto dipende dagli stessi educatori, genitori o insegnanti che siano.
La memoria che i giovani hanno di quegli eventi dipende dal senso che attribuiranno loro rispetto all’importanza che tali vicende rivestono nell’arco della loro vita. Ciò che permette, a mio parere, ai giovani di inserire la conoscenza della Shoah nella loro biografia personale e di vivere tale riflessione in maniera anche emotiva e intima è spesso il loro venire a contatto diretto con le testimonianze dei sopravvissuti. In questo modo gli eventi della Shoah vengono presentificati e vissuti più da vicino. Non deve, quindi essere sottovalutato l’impatto della testimonianza diretta sulla coscienza del giovane, che ne viene turbato e contemporaneamente arricchito. Spesso i testimoni temono di non essere ascoltati o compresi soprattutto in classe, a contatto con le giovani generazioni; temono di dare l’impressione di essere degli anziani combattenti di un epoca lontana e di una realtà diversa, troppo distante da quella dei giovani di oggi. D’altra parte, però, durante la testimonianza in classe si crea spesso un alta atmosfera morale ed etica riflessa dagli interrogativi e dalle profonde riflessioni che emergono dai commenti dei giovani.
5.2. IL PROBLEMA DELL’ELABORAZIONE
Come premessa a questo paragrafo intendo introdurre l’argomento della Shoah attraverso una breve trattazione a riguardo dell’influenza che essa ebbe su carnefici e vittime per poter, in seguito, comprendere con più precisione l’influsso degli studi e delle testimonianze della Shoah sul progetto di vita delle giovani generazioni.
Per comprendere in profondità la natura del trauma subito dai sopravissuti vittime della Shoà è necessario evidenziare che in conseguenza al genocidio di un popolo, le vittime di esso si trovano in uno stato d’impotenza e di inabilità a proteggere se stessi e le persone intorno a loro.Le SS e l’organizzazione dei Lager facevano di tutto perché i detenuti si trasformassero in massa obbediente e mansueta. L’uomo in campo di sterminio è portato a svalorizzare il proprio Io, il prigioniero si costruisce una barriera talmente forte contro il rischio di provare sentimenti che arriva a sperimentare se stesso solo come una parte minima della grande massa e del grande gregge.Sopravvivere significava, nel Lager, non farsi notare, non notare nulla e sopratutto dimostrare alle SS che non si sapeva nulla. L’insensibilità era l’unica forma di difesa possibile di fronte ai continui orrori.
La sensazione di non esistere affatto veniva prodotta sia dallo svuotamento fisico di ogni sensazione e sentimento sia dall’annientamento di qualunque attività mentale. I riti del lutto avevano perso ogni significato poichè la morte avveniva così spesso che veniva persa la capacità di piangere la morte di parenti e amici. Le condizioni del Lager impongono inoltre la regressione; si regredisce all’infanzia ed esattamente ad uno stadio in cui l’unica preoccupazione è mangiare e dormire. Si vive unicamente nel presente; passato e futuro svaniscono.
Tutto ciò contribuiva ad un risultato psicologico preciso: un senso di depersonalizzazione, un esperienza di “come se”. Ciò permise al prigioniero di “adattarsi” alle condizioni di vita del Lager superando lo shock iniziale ed il terrore acuto.
Nonostante l’esperienza dei Lager sia stata differente per ciascun detenuto, non vi è dubbio che tutti soffrirono per il deperimento fisico, per le continue umiliazioni, per l’indeterminezza della durata dell’imprigionamento. Ciò che probabilmente contribuì ancor più a rendere questa esperienza traumatica è stato il continuo confronto con la morte.
Dalle numerose ricerche condotte è emerso che l’esperienza del Lager viene continuamente proiettata dagli ex deportati oltre la liberazione come se il campo di sterminio vivesse ancora dentro di loro; sembra quasi esserci una sovrapposizione tra passato e presente.
Essere sopravvissuti ad Auschwitz ha un prezzo alto: la percentuale di suicidi tra loro è alta come quella delle malattie fisiche e mentali e gran parte di essi sono diventate persone depresse e sofferenti. I postumi del rientro crearono fragilità emotive così gravi che alcuni sopravvissuti non riuscirono a superarle lasciandosene travolgere, altri riuscirono a padroneggiarle solo in parte.
Il sopravvissuto, a fine guerra, si trovò davanti all’impellente bisogno di rielaborare la propria tragica esperienza ripetendo, raccontando, cercando di trasformare il trauma del passato in un nuovo modo di vivere, “aricchiti” da tale esperienza. Anche nella remota possibilità che il sopravvissuto abbia potuto ricomporre la propria famiglia e riprendere la vita di prima, egli sentiva fortemente la perdita di se stesso, della propria identità e il peso della propria impotenza di fronte all’attacco massivo contro i propri valori e la propria appartenenza ad un gruppo e ad un popolo.
Nei Lager migliaia di famiglie furono sterminate. A guerra finita, con la liberazione dai Lager, centinaia di famiglie si ricostruirono; quando la speranza di poter ricongiungersi con i famigliari e di ricostruire le proprie stesse vite si spegneva, molti sopravvissuti sperimentavano un senso di vuoto, di solitudine che cercarono di colmare formando nuove famiglie, talvolta in maniera troppo avventata e precipitosa.
Nonostante il persistere della “frigidità emotiva”, utilizzata prima nei Lager come meccanismo di difesa e poi, in quanto reduci, come scelta inconscia di rimanere ataccati alle persone decedute, i sopravvissuti alla Shoà sentirono il bisogno di creare nuove famiglie.
Spesso tali unioni non si fondavano su autentiche relazioni interpersonali ma avvenivano piuttosto come nostalgia della dipendenza, come tentativo di alleviare ricordi e sensazioni dolorose e di sfuggire alla solitudine ristabilendo forti relazioni. La scelta del partner spesso avveniva secondo i criteri più disparati; una somiglianza fisica con parenti uccisi, la provenienza dei due reduci dalla stessa città o stato, perché la persona incontrata portava lo stesso nome di una persona cara oppure per aver condiviso simili esperienze durante la Shoà. In questo senso, i matrimoni permettevano di evitare il processo di lutto, per tanto tempo posticipato. Il risultato fu che circa l’80% dei sopravvissuti scelse di sposarsi tra di loro, probabilmente anche per la convinzione che potessero essere del tutto compresi solo da coloro che avessero sperimentato le stesse esperienze.La scelta più o meno conscia di continuare a soffrire e rielaborare il proprio dolore fu il modo attraverso cui portare avanti la propria testimonianza ed espiare il proprio senso di colpa.
Amare di nuovo significava tradire ed abbandonare di nuovo i famigliari asassinati e le migliaia di persone sterminate nei Lager. In ogni caso la creazione di nuove famiglie e la nascita dei figli divenne il simbolo della vittoria contro l’ideologia nazista che aveva programmato la distruzione del popolo ebraico. I figli sopratutto rapresentavano la vita ed il futuro ma anche il recupero del passato.Infatti le relazioni genitori-figli si caratterizzano dall’idea predominante della ricostruzione delle famiglie perse.
Inoltre l’esperienza della fame patita nei campi di sterminio ha provocato nei sopravvissuti una forte preoccupazione per l’alimentazione; ciò è riflesso dal rapporto parentale in quanto l’attenzione predominante dei genitori verso i figli si dirige ad una sfera quasi esclusivamente fisica o materiale. In effetti i sopravvissuti alla Shoà riescono difficilmente ad empatizzare con i problemi psicopedagogici dei propri figli in quanto spesso troppo occupati e coinvolti nei propri ricordi. Inoltre è come se i figli non avessero alcun diritto a lamentarsi in quanto ogni loro problema è nullificato di fronte a ciò che subirono i genitori.
Nei più differenti contesti i sopravvissuti paragonano la fortuna di oggi con le sofferenze del passato.Il diritto naturale di vivere viene vissuto come una fortuna inspiegabile e ingiustificata. Se già dentro il Lager il prigioniero aveva dovuto lottare per dare un senso al dolore, a casa il cammino non è purtroppo concluso. I profondi sensi di colpa, di cui ho parlato, gli impongono di trovare una giustificazione davanti a se stesso e agli altri per la propria sopravvivenza; esso comporta un profondo obbligo morale nel tentativo di dare uno scopo al proprio esserci.
Queste problematiche risultano essere strettamente legate ai rischi inerenti all’elaborazione dell’esperienza della Shoah da parte del sopravvissuto.Penso che i sopravvissuti, di cui ho letto le testimonianze, per lo più ebrei laici, abbiano sperimentato nell’elaborazione, una nuova integrazione della propria personalità e nel travail delle loro memorie, un riavvicinamento con le proprie radici ebraiche.
Per molti sopravvissuti alla Shoah rielaborare l’esperienza vissuta ha significato essenzialmente concentrare i propri sforzi nel tentativo di comunicarla agli altri, per divenirne maggiormente coscienti. Quindi nella comunicazione del trauma, i sopravvissuti, hanno trovato un mezzo per l’elaborazione dell’esperienza e per il superamento delle proprie angoscie.Dalla tradizione ebraica recuperarono, tra gli altri elementi, l’imperante monito a divenire memoria vivente, la testimonianza divenne per molti il senso da dare alla propria sopravvivenza, facendo di ciò che aveva radicalmente spezzato la loro vita, il contenuto della loro memoria ed il nucleo fondamentale di una nuova identità.
Innanzitutto la testimonianza è passata attraverso la seconda generazione, i figli dei sopravvissuti.La letteratura psicoanalitica che si occupa dei figli dei sopravvissuti descrive, come meccanismo utilizzato nella trasmissione del trauma, l’identificazione inconscia con le esperienze vissute dai genitori. A livello psicoterapeutico è stata notata una profonda rassomiglianza tra i disturbi lamentati dai figli dei sopravvissuti ed i disturbi lamentati dai sopravvissuti stessi. Sembra che condividano un angosciante memoria collettiva della Shoah sia nei loro sogni che nelle loro fantasie.Malgrado ciò, anche tra quei sopravvissuti che scelsero di parlare pubblicamente e di dare quindi testimonianza, la comunicazione in generale, e del trauma in particolare, risulta comunque essere difficile per cui l’elaborazione dell’esperienza tragica risulta spesso parziale.Nei Lager, come ho già ricordato, era necessario costruirsi un guscio attraverso la repressione di ogni sentimento ed emozione; di conseguenza, uscendo dal Lager, non sorprende che il sopravvissuto per preservare una certa integrità mentale, abbia scelto di mantenere il silenzio e quindi di elaborare silenziosamente e attraverso altri mezzi, il proprio trauma.
In conclusione, per quanto riguarda la difficile elaborazione dell’esperienza fatta dal sopravvissuto, parole e scrittura divengono un modo per dare volto alla sofferenza, per riuscire a padroneggiare intelettualmente ed emotivamente la sconvolgente esperienza vissuta. Nel raccontare si rivive la stessa storia tante volte nel tentativo di riuscire a contenerla assimilandola al proprio vissuto senza esserne travolti. Spesso, tramite il racconto si cerca anche un interlocutore, un altro con cui condividere, comunicando, un peso troppo grande per essere sopportato in solitudine, ma sopratutto la testimonianza diviene un modo, per chi sente la colpa di essere vivo, per discolparsi.
Per quanto riguarda, invece, l’elaborazione dell’esperienza della Shoah dei figli dei sopravvissuti a cui è stata trasmessa, essa si caratterizza e viene vissuta e sviluppata diversamente in base alla modalità di trasmissione del trauma più che in base alla personalità della prole.
E’ necessario tenere presente che i figli sono essenzialmente un simbolo della ricostruzione, della vita che rinasce46) per cui sono investiti di grosse aspettative nei confronti dei propri progetti di vita. I reduci vivono il rapporto coi propri figli come fonte di sicurezza e gratificazione, ripropongono grandi aspettative su di loro, sopratutto nella sfera dei conseguimenti professionali.I figli dei reduci forniscono la giustificazione alla loro sopravvivenza e in tal modo ne espiano il senso di colpa Sui figli dei reduci pesano le pressioni che i genitori ripongono su di loro perché raggiungano successi, sia in campo educativo che in quello professionale.I figli dei sopravvissuti hanno il compito messianico di giustificare la propria esistenza attraverso un grande operato che “rimedi” e dia un senso alla “colpa” dei padri di essere sopravvissuti a discapito di altri forse più meritevoli. L’insistenza nel conseguimento dei risultati è forse da attribuire quindi ad un desiderio di compensare le esperienze di deprivazione vissute dai genitori durante la guerra nel tentativo di trasformare l’umiliazione, la vergogna, e la colpa dei genitori in trionfo sull’oppressore.. Nell’elaborazione del trauma sembra che ci sia un influenza diversa a seconda che la comunicazione provenga dal genitore maschio o femmina, dalla madre, cioé, o dal padre. Questo è stato, ad esempio, riscontrato nella ricerca che lo psicologo Lichtman ha svolto su sessantaquattro figli di reduci. Considerando i figli dei sopravvissuti come gruppo unico, non diviso cioé in base al sesso, è stato trovato che la comunicazione materna è correlata significatimente a caratteristiche quali ansia e paranoia. La comunicazione paterna, invece, risulta essere inversamente correlata alla depressione e all’ipocondria. Questo sembra suggerire che la madre trasmette una dimensione di “vittimizzazione” nel racconto delle sue esperienze, mentre il padre sembra proporre l’identità di combattente. La trasmissione del trauma percorre in questo caso una via totalmente inconscia.Questa doppia comunicazione sia avvenuta in forma diretta che indiretta, produce come conseguenza una specie di doppia identità nei figli. Devono dimostrare di essere persone felici di fronte ai genitori, ma in realtà, nel loro privato, sentono di dover essere infelici per tutto quello che hanno vissuto i loro genitori.
Il genitore d’altro lato, vuole proteggere il figlio cercando di non infliggere il peso del suo trauma ma contro la sua volontà lo trasmette inconsciamente; il messaggio comunicato al figlio è così del tutto contradittorio. Da una parte quello che è accaduto durante la Shoah deve sapersi e non deve assolutamente essere dimenticato, dall’altra è impossibile venirne a conoscenza poiché il genitore non racconta; il figlio è allora obbligato a riempire le aree mancanti della propria elaborazione della Shoah con la sua stessa immaginazione.Inoltre nell’elaborazione dei figli dei sopravvissuti influisce il particolare rapporto creato dalla relazione parentale: i sentimenti di un figlio quali ad esempio dolore, agressività, ribellione non vengono tollerati facilmente dai genitori e spesso ritenuti inaccettabili. Vi è inoltre un forte senso di colpa verso i genitori sopravvissuti che nasce anche dai sentimenti di rabbia nei loro confronti in quanto i figli si sentono in dovere di proteggere i propri genitori per cui gli è impossibile esprimere rabbia senza sentirsi in colpa47). I reduci, inoltre, sviluppano un legame spesso di tipo iperprotettivo con i propri figli “simbolo”, assicurandosi così la continuità con le loro famiglie distrutte, per cui la relazione parentale assume spesso caratteristiche di dipendenza e di attaccamento simbiotico.La famiglia insomma per sopravvivere deve stare unita.Ci sono due distinte ragioni per cui i genitori sono riluttanti nel lasciare andare i figli durante il loro processo di crescita che si ricoleggano a problemi di elaborazione dell’esperienza. Da una parte, come ho già spiegato, i figli sono la reincarnazione dei parenti perduti, dall’altra per i sopravvissuti la separazione presagisce la morte, poiché durante la Shoah la separazione ha significato questo.Inoltre la letteratura clinica ha individuato come i reduci tentino disperatamente di ottenere o recuperare la loro stessa identità attraverso i figli. D’altro lato i figli dei sopravvissuti hanno incontrato problemi nell’elaborazione della narrazione della Shoah avendo come modello genitori che non sono stati in grado di essere affettuosi e calorosi con loro; questo ovviamente ha prodotto, in alcuni figli, lo stesso tipo di menomazione con i loro partners, bloccando la normale fusione e apertura affettiva.
I figli dei sopravvissuti sentono un forte senso di indignazione nei confronti delle ingiustizie subite dai loro genitori, e come risultato ciò ha prodotto in molti di loro una gran sensibilizzazione verso i soprusi commessi nei confronti di tutti i gruppi di minoranze. Molti di loro, infatti, sono impegnati politicamente nella difesa dei diritti civili, molti altri ancora si occupano di problemi sociali e, fra questi, si ritrovano molti assistenti sociali, psicologi, psicoanalisti; molti altri si dedicano alle attività politiche e culturali legate alle loro comunità ebraiche di appartenenza.Un altro elemento positivo nel rapporto parentale instaurato dai sopravvissuti vi è il fatto che essi furono spesso capaci attraverso la regressione, di risolvere un conflitto dei propri figli risalente ad un particolare stadio della vita.
Vi è un altro aspetto ad essere influenzato dall’elaborazione fatta dalla seconda generazione sulla conoscenza della Shoah: il sentimento nei confronti dei non ebrei. Tra le domande nella ricerca che lo psicologo Hass ha svolto nel 1990 sui figli dei reduci, ve ne sono alcune che indagano proprio il rapporto tra loro e i non ebrei. Le risposte illustrano chiaramente che l’atteggiamento predominante è di diffidenza sospetto e paura, mentre solo un piccolo gruppo di intervistati confida una quasi contro fobica attrazione verso i non ebrei.
Nell’elaborare le proprie conoscenze e la propria esperienza in quanto figli di sopravvissuti, questi ultimi associano spesso e fanno confusione tra vita e morte; temi che vengono ad assumere un motivo centrale della loro personalità. Dal momento che i figli vengono a rapresentare, per i genitori, un ponte di continuità tra passato e futuro, l’introiezione delle immagini di morte e l’identificazione con esse diviene qualcosa di vitale e necessario, perchè in esse è sepolto il seme della vita.
Un altro problema di elaborazione presente nei figli dei reduci è, quindi, l’incapacità ad affrontare la morte. Il motivo è da far risalire a due cause principali:
– La prima é dovuta al fatto che i genitori non hanno potuto provvedere ad un modello efficace per fare ciò, dal momento che loro stessi non sono stati capaci d’impedire le uccisioni di cui sono stati testimoni;
– La seconda è collegata all’incapacità dei figli a dominare i loro stessi desideri e pulsioni di aggressività e le loro stesse fantasie di distruttività;
Inoltre i figli dei sopravvissuti ma anche tutti coloro che elaborano l’eredità del passato dominio nazista, si trovano davanti alla vergogna di ciò che il genere umano ha potuto realizzare. In questo ambito per il figlio di un sopravvissuto è ancor più lacerante il dubbio circa la moralità dei propri genitori , costretti ad azioni abbienti e a volte immorali, e la constatazione della loro incapacità di salvare i propri simili dalle degradazioni e dalla morte finendo per ricoprire il ruolo di “insensibili” testimoni.
I figli dei sopravvissuti, però, sembrano avere una memoria e particolare comprensione della Shoah che non è direttamente collegata e và addirittura oltre a ciò che i genitori hanno saputo trasmettere direttamente loro. Ad esempio, inconsciamente è stata trasmessa ai figli l’incapacità d’identificarte chiaramente l’oggetto delle proprie paure, forte barriera contro una sana elaborazione dell’esperienza. Spesso essi sentirono come missione il dover vivere nel passato dei propri genitori finendo per avere, a volte, una visione distorta della realtà circostante e sviluppando un autonomia limitata nei confronti dell’adulto. Ciò fu spesso sintomatizzato da crisi anoressiche, problemi dell’alimentazione, ansietà e fobie. Inoltre la rielaborazione del lutto per i propri famigliari e amici perduti veniva posticipata dal sopravvissuto durante la dentezione, come spiegato sopra, per cui essa fu uno dei primi aspetti dell’esperienza a necessitare un elaborazione, seppur sofferta, una volta liberati dai campi.
Il problema forse più imponente che i sopravvissuti dovettero affrontare nell’elaborazione della Shoah è il fatto che l’ideologia non coinvolse solamente i suoi aderenti ma anche le proprie vittime; Infatti alcuni sopravvissuti s’identificarono con il proprio oppressore, in special modo se ancora nell’infanzia, non ebbero la possibilità di avere come modello maschile il proprio padre così da porsi paradossalmente in rapporto d’identificazione con l’unico modello adulto stabile presente nei campi, ossia il proprio carnefice. Di conseguenza alcuni finirono per ristabilire lo stesso genere di “rapporto parentale” con la propria prole adottando atteggiamenti aggressivi nei loro confronti ed emulando in questo modo il trattamento ricevuto dall’oppressore.
Ciò spesso, ma non sempre, fu facilitato dal racconto della propria esperienza a terzi.48) Il sopravvissuto che, ancora infante, sperimentò i campi di sterminio senza i genitori subì un trauma tale che la sua elaborazione provocò interferenze con lo sviluppo dell’Ego e del Superego provocando inoltre un precoce attaccamento al gruppo più che ad un unica figura adulta. Questo elemento si accompagna, come prevedibile, da bassa autostima e tendenza ad instaurare relazioni di dipendenza.Colui che invece superò l’esperienza del campo di sterminio accompagnato da uno o entrambi i genitori dovette comunque avere a che fare con frequenti problemi di regressione in quanto era diffusa l’idea dei sopravvissuti che il bambino fosse preferibile all’adulto. Tale mancanza di fiducia nll’adulto gli rese vulnerabili ad una società dell’epoca tendenzialente adultocentrica.
In conclusione dalle ricerche svolte, venne nel tempo a delinearsi una vera e propria “sintome del sopravvissuto”, probabilmente latente in ogni uomo, che viene attivata in particolari situazioni catastrofiche o di emergenza.
Il compito evolutivo dei figli dei sopravvissuti e dei sopravvissuti stessi si può quindi sintetizzare nell’elaborazione dell’esperienza genitoriale attraverso una comprensione del passato che eviti i rischi di idealizzazione o di degradazione del proprio genitore. In un certo senso quindi, questo compito non è fondamentalmente diverso da quello del divenire adulto di qualunque persona ma in realtà ciò che rischia di minare alla base lo sviluppo di una personalità equilibrata è la fiducia nell’essere umano e nell’evoluzione della storia dell’uomo.Purtroppo infatti la già debole speranza nell’uomo e nel futuro è ancor maggiormente instabile qualora si ripetono eventi d’intolleranza persecutoria, nel risveglio di sentimenti antisemiti e in procedimenti discriminatori che proteggono ex nazisti.
5.3. PROBLEMATICHE EDUCATIVE
Sono passati più di quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e ancora oggi ci si domanda il perché di tutti gli orrori che hanno macchiato il nome del popolo tedesco, ci si chiede increduli come abbiano potuto esistere i campi di concentramento e di sterminio nazisti e che cosa abbia spinto le SS all’odio incondizionato verso gli ebrei e tutti gli altri popoli considerati “Gegenrasse” (antirazza), per il fatto di non appartenere alla razza ariana, “al puro sangue germanico”.
P. Levi nella sua ultima opera prima del suicidio, I sommersi e I salvati sottolinea la paura dei sopravvissuti, la sua paura, di non essere creduti, perchè sia le vittime sia gli oppressori avevano chiara la consapevolezza dell’enormità e quindi della non credibilità di ciò che avveniva nei campi di concentramento. Un educazione dopo Auschwitz deve essere quindi essenzialmente importata verso la chiara consapevolezza storica di cosa sia stata e cosa abbia significato la Shoà per chi l’ha vissuta, attraverso una pedagogia veritiera e ricca di eticità.
La memoria con il passare del tempo e la scomparsa di molti superstiti, si fa più problematica. Colui che racconta rischia di ricordare solamente i fatti terrificanti e morbosi avvenuti nei Lager, dando così una visione parziale seppur ricca di una forte personalizzazione, della vita dei prigionieri.Questo passato, però, è in realtà ancor vivo vicino a noi. Storia e memoria risultano fortemente intralacciate al discorso pedagogico circa le caratteristiche di un educazione dopo Auschwitz.
La separazione tra storia e memoria è molto rischiosa, poiché si lascia che prendano campo le voci di coloro che negano l’esistenza delle camere a gas.La memoria della Shoah pone il problema di dover continuamente confrontare la propria etcità ed i valori in cui si crede con ciò di cui l’essere umano è stato capace durante la Shoà, ed ha quindi il potere di creare la necessità di un confronto ed un ripensamento e rafforzamento dei propri valori.Uno degli elementi etici che devono essere discussi e rivalutati è il problema del ruolo divino e dell’identità del Bene e del Male dopo Auschwitz. In che prospettiva si collocano i valori del Bene e del Male dopo Auschwitz? All’interno ed all’esterno del mondo ebraico si sollecita ad occuparsi con una nuova e diversa serietà dell’uomo, del suo senso d’essere e del suo modo di essere con gli altri all’interno di una maggiormente consapevole cornice valoriale. Se da una parte è necessario che vi sia una trasmissione obbiettiva di conoscenze e di informazioni controllate dalle regole della critica storica, dall’altra, parlare della Shoah significa trasmettere qualcosa, consciamente o inconsciamente,di più: un emozione particolare che ponga i sentimenti dell’uomo a diretto contatto con le emozioni evocate dalla Shoah. La problematica educativa inerente a questo discorso quindi non è solo trovare degli strumenti di trasmissione obbiettiva delle informazioni, ma anche trovare il giusto tono per presentare l’argomento. Le esperienze trattate richiedono forti motivazioni ideali e coerenza di metodi e di intenti se si vuol cercare una trasmissione di valori con effetti possibilmente duraturi.E’ necessaria inoltre una nuova teoria dell’uomo che muova da una sorta di filosofia della storia ossia prenda consapevolezza che la Shoah è la manifestazione tragica della possibilità dell’interruzione della storia operata dalla volontà, che considera il Male come il risultato di una logica di prevaricazione che lo lascia apparire come Bene e lo maschera. Dall’esperienza della Shoah traspare che il Bene ed il Male possono confondersi, la storia non è soltanto la storia della lotta fra il Bene ed il Male ma sopratutto quella della volontà del Bene o del Male.
Dopo Auschwitz è necessaria una critica dei valori costruttiva ed una coscienza della Shoah che si fondi sulla consapevolezza della responsabilità storica di ogni uomo anche attraverso l’autoriflessione, che parta da una chiara conoscenza del passato.Risulta quindi necessario creare una coscienza storica.Il recupero della storicità passa,per ogni singolo individuo, dal ritrovamento della propria coscienza per ricostruire pensieri forti e nuovi ideali che possano rendere l’uomo più responsabile e consapevole anche dei conflitti di oggi. L’educazione morale e civica non può essere separata da quella storica.Tutti gli eventi traumatici che si abbattono su popolazioni vittimizzate hanno, infatti, in comune il fatto di tentare una degradazione dell’uomo e del popolo e d’impedirne la propagazione del seme.In parte la Shoah può essere considerata il risultato della diseducazione ma contemporaneamente “pensare” dopo Auschwitz significa considerare questo fallimento come un punto d’inizio per una nuova era. L’offesa recata dalla Germania hitleriana al popolo ebraico, infatti, è stata un offesa alla cultura, alla tradizione e alla civiltà della razza umana.Inoltre è necessario meditare sul fatto che il fondamento della negazione dei valori perpetuata dalla Shoah consiste nel considerare le persone alla stregua di cose negando nell’uomo la sua qualità di essere umano capace di scegliere in autonomia. Quest’ultimo concetto costituisce un importante messaggio universale da lanciare attraverso un educazione che si ponga all’interno dei confini della modernità e dell’attualità di una società spesso basata sul successo economico, sull’apparire, sul presente e quindi sulla cancellazione di ogni memoria.Il pensare dopo Auschwitz quindi, significa meditare e rielaborare importanti concetti etici e morali soprattutto confrontando se stessi e le proprie credenze con la Shoah, sapendo porsi anche in discussione per aprire la strada ad una pedagogia più addegguata.Infatti una delle problematiche educative cui deve far fronte colui che voglia trasmettere la conoscenza della Shoah è proprio il fatto che è spesso questa incertezza di se stesso, ossia di colui che trovandosi a conoscenza della Shoah ne viene trafitto e non riesce a darsi una giusta risposta di come sia accaduto, che egli proietta come difficoltà pedagogia nei confronti degli allievi. Ma le difficoltà specificamente educative più grosse non riguardano il rapporto docente e discente bensì l’insegnamento stesso; la discussione stessa del fenomeno ha carattere problematico e spesso ambiguo.In ogni caso la grande difficoltà pedagogica resta non tanto la complessità della materia quanto il rapporto personale che il docente e l’allievo intrattengono con l’argomento. Il momento conoscitivo e quello affettivo devono essere fusi in modo equilibrato.
Un altra importante problematica educativa riguarda il rapporto Auschwitz/ modernità in quanto uno dei messaggi attuali più forti derivati dall’esperienza dei crimini contro l’umanità perpetrati dai nazisti riguarda il prevenire che essi vengano nuovamente commessi. Oggi è necessario che vi siano richiami ai comportamenti di individui e di popoli; contro il ripetersi di esplosioni di odi nazionali e razziali o contro il rinnovarsi dell’antisemitismo. In questo senso il messaggio della Shoah è un messaggio attualizzabile e universale, anche se si pensa ai principi di Norimberga scaturiti da tale vicenda che contribuiscono a spingere verso la salvaguardia delle libertà democratiche.
I progetti educativi improntati alla memoria del “passato che non passa” pongono inoltre questioni di metodo pur tenendo presente che essi non devono essere rigidamente vincolanti. In sintesi il problema della deportazione e dello sterminio deve trovare la sua collocazione in un progetto educativo globale che si ponga come obiettivo l’educazione morale del cittadino di una società democratica e che faccia leva prevalentemente sull’insegnamento della storia. La ricostruzione del contesto storico richiede strumenti diversi; pur essendo utile l’uso della stampa dell’epoca attraverso l’uso di riproduzioni e gigantografie sono tuttavia necessarie anche carte geografiche, tabelle statistiche, tavole comparative. Indico tutto ciò allo scopo di dare un immagine della complessità del lavoro di pianificazione necessaria all’educazione inerente alla Shoah. Bisogna comunque tener presenti che resta uno scarto tra le possibilità offerte dalla storiografia e la capacità umana di comprendere questo evento difficilmente spiegabile. Le tematiche della Shoah non devono, inoltre, essere inserite nella didattica della storia in modo episodico ma come un momento di un percorso educativo che assuma, la Shoah, come una pagina della storia moderna la cui eventualità nel presente resta sempre possibile.Bisogna quindi superare la concezione della scuola come luogo di trasmissione di saperi specialistici che non si occupano dell’educazione morale tenendo sempre presente il pericolo dell’indottrinamento e del relativismo di tanta cultura contemporanea. Nella programmazione del lavoro inoltre è spesso preferibile il continuo intreccio delle attività individuali e di gruppo, il ricorso controllato a diversi tipi di strumenti di trasmissione del sapere volta a volta reperibili e considerati validi, il circonstanziato inquadramento storico dei fatti e delle idee, privilegiando, soprattutto in sede scolastica, i profili politico, economico e culturale con esposizioni sempre documentate. Il testimone, lo studioso, l’insegnante e l’allievo devono unire i propri sforzi in un progetto di ricerca comune che abbia come nucleo centrale il dialogo.
Un altra fondamentale problematica educativa riguarda il corretto utilizzo dei materiali e degli strumenti conoscitivi in possesso dell’insegnante che permettano di non isolare i casi singoli o le realtà locali ma inserirli in un quadro generale insistendo sulla loro specificità.
Le memorie e le autobiografie, ad esempio, potrebbero servire a confrontare le esperienze individuali con quelle collettive del Lager oltre che approfondire il paragone tra Lager diversi.
In questo senso è inoltre importante affrontare i problemi relativi alla metodica della rappresentazione della memoria.Essa deve tener conto innanzitutto, che sembra assodato che il primo fondamento di ogni valorizzazione della memoria è l’informazione ma sembra ugualmente assodato che l’informazione acquista maggiore rilevanza con il tempo. Purtroppo però più ci si discosta dall’evento più è necessario che intervenga l’informazione ed in maniera maggiormente qualitativa. Quindi un informazione corretta in un dato momento può non esserlo più dopo un lasso di tempo relativamente lungo.
In questo contesto è chiaro che il problema tra l’immagine e la scrittura assume una rilevanza prioritaria; il testo scritto deve aiutare a meglio leggere le immagini e non viceversa. Ad esempio è evidente che il materiale documentario utilizzato al di fuori del contesto dei luoghi di sterminio sarà diverso da quello usato per le visite ai luoghi stessi.Nel caso di pubblicazioni a larga diffusione , una condizione indispensabile è che vi sia un rapporto tra testo scritto e immagine fotografica o iconografica.Inoltre bisogna tenere conto che è impossibile scindere i modi della rappresentazione dai contenuti della stessa. Ad esempio vi è la necessità di evitare modi di rappresentazione che scarichino sullo spettatore soltanto un forte impatto emotivo ed impediscano di far riflettere e di organizzare risposte emotive ed intelletuali più meditate.Tra le esigenze imprescendibili di una giusta informazione va inserita anche una corretta tipologia dei campi di concentramento proprio allo scopo di dimostrare la complessità del fenomeno della deportazione49).
Una scelta non casuale della vasta letteratura memorialistica deve inoltre essere accompagnata dalla preziosa testimonianza orale dei superstiti.E’ fondamentale il valore della testimonianza orale, che permette un approccio alla Shoah più umano, nella formazione etico politica della gioventù. Si provi a immaginare come sarà il percorso della conoscenza il giorno in cui non potremo più disporre dei testimoni, non soltanto in riferimento all’emotività che l’esperienza viva del sopravvissuto suscita ma soprattutto pensando a quei dettagli che non si troveranno mai nei libri di storia e che soltanto il protagonista riesce a rendere adeguatamente.Ad esempio, un importante messaggio che può essere trasmesso attraverso la testimonianza riguarda il concetto d’identità. In effetti i prigionieri dei campi di stezrminio che riuscirono a mantenere il senso della propria identità, una volta liberati, mostrarono la capacità umana di prestare attenzione ai bisogni degli altri e il riconoscimento reciproco di doveri e diritti. Ciò insegna senza dubbio che solo a partire da questa condizione di formazione dell’identità dell’individuo che egli può agire in modo etico.E’ giusto riflettere inoltre su un altra problematica educativa: quasi mai l’ex deportato ricostruisce il contesto, il quadro storico di riferimento, non soltanto perchè in lui prevale la sua soggettiva esperienza ma anche perché è importante che egli parli attraverso la mediazione dello storico, così come lo storico ha bisogno della convalida della testimonianza.Il testimone garantisce, infatti, in virtù della sua stessa presenza, la verità, l’autenticità e la drammaticità della Shoah, contro ogni tendenza a relativismi e revisionismi. E’ stato detto erroniamente che la Shoah ha trasformato ogni sopravvissuto in un testimone ed ogni testimone in uno scrittore. Ogni testimone ha la sua maniera personalissima di testimoniare o, come spesso è accaduto, di non farlo. Non tutti i reduci nacquero con la capacità a testimoniare. Questo è uno dei motivi per cui il compito di chi ascolta è quello di non ostacolare la testimonianza qualunque sia il mezzo d’espressione adottato. Recentemente si stà diffondendo sempre più la tecnica di registrare sul video le varie testimonianze come il famoso recente film La Shoah che Lanzmann ha documentato50). Il più grosso vantaggio di tale tecnica è il fatto che il processo di ricostruzione della memoria che restava quasi del tutto invisibile nei testi letterari emerge chiaramente assieme ad un tentativo di autoriflessione del testimone. Inoltre dalla testimonianze emergono sempre delle tracce di storia che il testimone non comunica ma fa trasparire dalla propria gestualità e che risulta essere compitio ed abilità dell’ascoltatore far emergere e notare. Più spesso la memoria viene trasmessa in pochi squarci di momenti associati assieme liberamente che solo grazie alla ricostruzione di un contesto che li circonda assumono un significato preciso nella mente dell’ascoltatore.La testimonianza ha la potenzialità di far rivivere il passato filtrandolo dall’esperienza personale e singolarissima di ogni sopravvissuto ma non può essere l’unico garante per il futuro. La speranza è che l’educazione in futuro possa colmare il vuoto lasciato dalla mancanza di testimoni; essa deve permettere di comprendere la sofferenza del prossimo, stabilendo così un empatia senza limiti. Queste sono le grosse sfide dell’educazione del “dopo Auschwitz”, per permettere alla memoria storica della Shoah di acquistare spessore. Ciò che l’educazione non deve mai perdere di vista è che la Shoah è un evento con un importante funzione simbolica nella coscienza collettiva. Esso non deve essere quindi solo oggetto di discussioni e spiegazioni storiche che sarebbero riduttive e relativizzerebbero la Shoah. Questo tema non si è ancora del tutto sedimentato nella tradizione scolastica e in quella storiografica per cui presenta ancora i caratteri di una memoria ancora in corso di elaborazione con tutte le problematiche educative che questo stato di fatto comporta. Ad esempio, spesso succede che dei maestri non considerino necessaria una preliminare conoscenza della Shoah, ed una preparazione emozionale in vista di una visita ai campi di concentramento. In realtà la scuola deve costituire un canale di trasmissione di questa eredità attraverso le generazioni. Ciò risulta giustificato pedagogicamente con il valore fortemente educativo riconosciuto a tale evento; il suo stesso carattere estremo lo renderebbe infatti esemplare della distruttività e della follia della razza umana. La memoria della Shoah svolgerebbe quindi una funzione centrale e fondamentale nell’educazione etica, civile e politica delle nuove generazioni.
Un’ altra problematica riguarda il concetto che un educazione che miri a sviluppare una coscienza personale e sociale nei confronti della Shoah, deve tener sempre presenti i pericoli rappresentati da fenomeni quali il revisionismo, riduzionismo e negazionismo. Di tanto in tanto la stampa ci ragguaglia sulle attività di un gruppo di presunti storici che si sforzano di convincere il mondo che la Shoah è “la grande impostura del XX secolo”. Secondo questi autori, Auschwitz e le camere a gas non sarebbero altro che un invenzione della propaganda alleata, di matrice sionista, per estorcere ingenti riparazioni di guerra alla Germania sconfitta, allo scopo di finanziare lo stato d’Israele. Solitamente ci si riferisce a loro come revisionisti ma la storiografia scientifica preferisce chiamarli “negazionisti”, in quanto mentre ogni storico è revisionista nel senso che è disposto a rimettere costantemente in gioco le proprie conoscenze, il negazionista è colui che nega l’evidenza storica stessa. E’ possibile inoltre individuare una forma specifica di revisionismo: il “riduzionismo”. Le argomentazioni del riduzionismo tendono a ridimensionare la responsabilità dei tedeschi per la guerra. (Si tratta ad esempio della teoria coltivata da Nolte). Tuttavia mentre il revisionismo ed il riduzionismo partono da una base storiografica accettata (l’avvenuto sterminio degli ebrei), il negazionista rifiuta tale base e di conseguenza rifiuta apriristicamente qualunque documento o testimonianza che attesti l’esistenza dello sterminio. Mentre gli scritti dei primi negazionisti della Shoah rivelano esplicitamente le proprie ascendenze ideologiche antisemite e posizioni antisioniste, il nuovo negazionismo, quello sviluppatosi cioé a partire dalla fine degli anni settanta, fa di tutto per conferire alle proprie pubblicazioni un’ apparenza di neutralità ideologica e di rigore scientifico. A questa maggiore consapevolezza circa la necessità di occultare la propria matrice nazista si aggiunge un diffuso clima di scetticismo che, con la complicità del frequente sensazionalismo dei media, permea l’universo delle comunicazioni di massa. L’educazione non deve dimenticare uno dei suoi scopi fondamentali: combattere le ideologie purtroppo ancora permeate di razzismo ed antisemitismo, fondamenti delle diverse correnti del negazionismo e del revisionismo di cui è necessario comprendere l’essenziale differenza. E’ allo scopo di combattere tali tendenze che è necessario che l’educazione evidenzi la grande diversità dei destini e delle situazioni che hanno dovuto affrontare i detenuti nei campi e distingua, ad esempio, fra campi di concentramento e veri e propri campi di sterminio. Queste distinzioni sono necessarie ai fini di inquadrare la profonda complessità della Shoah.
Il razzismo è considerato ostacolo gravissimo alla realizzazione dei valori umani più alti. Oggi esso punta sulla rilevazione di profonde differenze culturali e sociali tra i popoli, che giustificherebbe i giudizi di maggiore o minore capacità nativa di sviluppo dei diversi popoli. Il razzismo è inoltre sorretto da nuove paure: quella per la marea degli immigranti del Terzo Mondo, e quella per il risveglio dei popoli di tale Mondo. Purtroppo alcune antiche motivazioni soprattutto quelle naturalistiche pseudo-scientifiche continuano ad operare.
Da tutte queste riflessioni emerge chiaramente che il compito della scuola in specifico è quello d’inserire tale argomento di studio all’interno del proprio piano formativo generale trasformando la Shoah in un “contenuto scolastico” nell’accezione positiva del termine. Oggi, infatti la scuola non si limita più a trasmettere le conoscenze e i valori ritenuti significativi dalla società ma mira a promuovere il pieno sviluppo delle capacità intellettive, affettive e critiche dei giovani servendosi anche di argomenti che risvegliano profonde problematiche educative, quale l’avvento della Shoah.La storia ed il simbolismo con cui può essere letta la Shoah deve poter essere affrontata dallo studente con mezzi e strumenti critici fornitegli in anticipo e attraverso cui poter discernere le varie chiavi di lettura con cui può essere affrontata l’esperienza della Shoah. Vi è purtroppo, oggi, una tendenza a rappresentare Auschwitz quale l’immagine del male assoluto e in tal modo a normalizzare e banalizzare tale esperienza, trasformata in un astrazione temporale che rischia di far dimenticare che il mondo della Shoah è lo stesso in cui viviamo oggi. Considerare la Shoah semplicemente nella sua singolarità rischia di destoricizzare il fenomeno, e di conseguenza spersonalizzare il rapporto che l’uomo può intrattenere con tale esperienza.Questo è un rischio da non sottovalutare.
La conoscenza della Shoah si deve radicare profondamente nella coscienza dell’individuo. Vi è però un rischio pedagogico ulteriore nella comprensione della Shoah: comprendere tutto è impossibile in quanto vi è il rischio di finire per approvare o giustificare. Quando la memoria sembra aver ceduto il passo all’oblio bisogna ricordare che il futuro non è mai ineluttabile; al contrario esso può presentarsi sotto forme diverse ma ma resta nella sostanza identica nel suo perpetuare crimini che provocano la sofferenza umana e soffocano l’umano che vi è nell’uomo.
La Shoah è servita a rendere l’uomo consapevole delle proprie potenzialità autodistruttive; l’educazione deve quindi essere essenzialmente rivolta a rendere l’uomo sempre più consapevole pur senza perdere la fiducia nel futuro e nell’essere umano.
Ritengo opportuno concludere la trattazione con le parole profondamente toccanti e significative dello scrittore Primo Levi, di cui e da un anno trascorso il decennale della morte: ” Per il reduce, raccontare è impresa importante e complessa. E’ percepita ad un tempo come obbligo morale e civile, come un bisogno primario, liberatorio, e come una promozione sociale: chi ha vissuto il Lager si sente depositario di un esperienza fondamentale, inserito nella storia del mondo, testimone per diritto e per dovere, frustrato se la sua testimonianza non è sollecitata e recepita, remunerato se lo è”.
44) ANED: Associazione nazionale ex deportati.
45) CEDEC: Centro di documentazione ebraica contemporanea.
46) Molti di loro, sopratutto primogeniti, vengono chiamati con I nomi dei parenti deceduti durante la Shoah, quasi a dover testimoniare e portare avanti la loro esistenza.
47) Trovano difficoltà ad esprimere la rabbia in maniera appropriata; la capacità di ribellione viene a mancare.
48) Bisogna ricordare che molti dei reduci dai campi non parlarono, inizialmente, della propria esperienza per paura di non essere creduti, talmente assurdo sembrava l’accaduto.
49) Ad esempio non tutti I campi di concentramento erano campi di sterminio.
50) La “Shoah” è considerato una delle più grandi finzioni del reale della nostra epoca non solo dal punto di vista contenutistico ma anche per la sua forma.