CAPITOLO IV: I riti quali eventi evolutivi
4.1. La memoria, la storia, e la ritualità
4.2. Il Bar-mitzvà e il Bat-mitzvà: il passaggio all’età adulta
4.3. La Pasqua ebraica e i suoi contenuti pedagogici
4.4. Il rapporto scuola- famiglia
4.5. La crisi spirituale dei nostri tempi e la sua conseguenza sul valore dei riti
Questa trattazione ha lo scopo d’introdurre il lettore ai valori ebraici attraverso un ampia premessa che chiarisca su quali concetti ebraici si fondano e a quale particolare concezione etica della vita conducono.
4.1 LA MEMORIA, LA STORIA E LA RITUALITA’
La storia del popolo viene rivissuta essenzialmente attraverso le cerimonie, la liturgia e le feste ebraiche. Quindi vi è uno stretto legame fra la storia, le ritualità e la memoria.La memoria collettiva del popolo ebraico, proprio perché memoria di un popolo senza terra e quindi senza la possibilità di fissare in “monumenti” i momenti più decisivi del proprio passato, si è esplicata in forme diverse da quelle degli altri popoli.Nella tradizione ebraica la memoria ha sempre rivestito un ruolo fondamentale in quanto il passato non veniva consegnato alla storiografia, ma continuamente rivissuto e fatto presente. Infatti la storia, per tale tradizione, non rapresenta la “ciclicità della natura”, bensì un cammino verso un unica direzione, compiuto dalla collettività delle generazioni umane, da un principio verso un fine ultimo: l’arrivo del Messia.La memoria è diventata essenziale anche per la fede, ed è la Bibbia stessa in più punti a prescrivere il ricordo: “Ricorda queste cose o Giacobbe, perché tu, o Israele sei il mio servo; o Israele, non dimenticarmi mai” (Isaia, 44,21).La Bibbia non solo impone il ricordo, essa aborrisce l’oblio ritenuto il peccato cardinale da cui discendono tutti gli altri peccati e la maledizione più terribile per un uomo è che di lui non resti più alcun ricordo. A ragione si può affermare, come fa Guido Lopez, che “gli Ebrei sono fatti di memoria, un ebreo senza memoria non è più un ebreo”. Ma il ricordo di quali fatti è essenziale per la tradizione ebraica? Non certo di tutti essendo di per sé la memoria selettiva. La preoccupazione fondamentale è che non venga dimenticato quell’insieme di valori che ispirano e armonizzano la vita e il comportamento del popolo ebraico. Di conseguenza vengono selezionati quei fatti il cui ricordo garantisce il perpetuarsi del sistema di valori che la volontà ebraica formalizza nella Torà. Per ogni popolo, non solo per quello d’Israele, esistono degli elementi fondamentali del proprio passato, siano essi storici o mitici, o più spesso una fusione di entrambi, che assumono la dignità di Torà (letteralmente “insegnamento” dalla radice del verbo “oraà”), un insegnamento che può essere orale o scritto, ma che è sempre sancito, condiviso e oggetto di consenso; è però solo mutandosi in tradizione che può soppravvivere.In altre parole viene ricordato quel complesso di riti e di valori che costituiscono per un popolo il senso della propria identità e del proprio destino, diventeranno oggetto di trasmissione solo quei momenti tratti dal passato che vengono sentiti come educativi ed esemplari perchè il popolo si mantenga lungo la sua Halachà (la legge ebraica; dall’ebraico Halach: camminare da cui la Halachà: sentiero sul quale si cammina).
La memoria collettiva ebraica si è esplicata nei vari secoli, fino all’emancipazione del popolo d’Israele, in varie forme legate sempre, comunque a contesti rituali e liturgici.Infatti l’antica storiografia biblica non si basò sui fatti nel senso moderno del termine, ma su elementi poetici e leggendari che hanno fornito agli Ebrei la possibilità di percepire e organizzare il proprio passato in modo del tutto particolari rispetto agli altri popoli; per esprimere il senso della storia, più che alla storiografia e alle si è ricorso alle ritualità che la trasmette con più efficacia.Questo anche per il fatto, in se altamente drammatico, che le seconde avevano più probabilità di sopravvivere delle prime.43) La Bibbia, in questo contesto, viene considerata non solo come il compendio delle storie passate ma anche come la rivelazione del disegno globale della storia del mondo.Se i principi concettuali con cui interpretare i fatti erano già dati nella Bibbia e quindi nel passato, è chiaro perché poco è sempre stato l’interesse per il presente. La tendenza che prevaleva nella cultura ebraica era quella di ricondurre tutto ad archetipi “famigliari”; la storia è il ripresentarsi in forme sempre diverse di alcuni argomenti fondamentali che divengono vere e proprie categorie culturali come l’uscita dall’Egitto, la distruzione degli idoli, il patto con l’Eterno. Forse anche nel tentativo di sedare l’angoscia perchè in qualche modo anche le calamità più spaventose sembrano divenire meno terribili quando le si interpreta in conformità con vecchi schemi: persecuzioni e sofferenze sono viste come conseguenze naturali della condizione degli esiliati, e l’esilio stesso è la conseguenza dei loro peccati.Intorno ai riti e alle liturgie, si sono coaugulate le memorie dei sempre perseguitati che in questo modo sono riusciti a mantenere un senso di identità e di continuità col proprio passato; la fenomenologia della memoria collettiva ebraica è forse una delle spiegazioni della “miracolosa” sopravvivenza, nonostante i ripetuti stermini, di questo popolo la cui memoria è stata spesso memoria di morte e di persecuzioni.
4.2. IL BAR-MITZVA’ E IL BAT-MITZVA’: IL PASSAGGIO ALL’ETA’ ADULTA
Il Giudaismo non è soltanto un istituzione religiosa quanto un istituzione di legge, una filosofia di vita che abbraccia diversi aspetti dell’esistenza.
Ciò che caratterizza maggiormente in special modo l’Ebraismo è il fatto che l’educazione ebraica è improntata sopratutto alla pratica, all’applicazione delle proprie conoscenze e dei propri valori all’interno di un mondo reale; un educazione che esuli dalla pratica per restare su di un piano puramente teorico sarebbe sterile.La persona deve essere guidata con sufficiente chiarezza alla comprensione della relazione tra l’uomo e il suo mondo.Le ritualità ebraiche si collocano in un contesto pedagogico che miri proprio a chiarire il significato della propria esistenza alla luce di ciò che è possibile imparare dell’esperienza del passato, sia quello individuale di ogni singolo ebreo che come popolo a livello collettivo.
I riti della tradizione ebraica trasmettono valori ed insegnamenti pedagogici che contribuiscono a chiarire il rapporto fra l’uomo e Dio e quello fra uomo e uomo per cui si collocano sulla linea tradizionale del pensiero ebraico. Varie solennità dell’anno liturgico hanno, in tutto o in parte, la famiglia e i bambini quali protagonisti della celebrazione.
4.2.1. Il Bar-mitzvà
Letteralmente il termine “Bar/ bat-mitzvà” significa “figlio/a del comandamento” ed indica sia il raggiungimento della maturità religiosa e legale sia la cerimonia in occasione dell’acquisizione foremale dello status di maggiorità religiosa, assunta all’età di tredici anni per i maschi e dodici per le femmine.Una volta raggiunta tale età un ebreo è obbligato all’osservanza dei comandamenti.Malgrado è presente nel Talmud il termine “bar-mitzvà” ad indicare colui che è soggetto alla legge, il suo uso in occasione della maturità legale e religiosa non compare in testi ufficiali prima del quindicesimo secolo.Una persona che sia già divenuta Bar-mitzvà è responsabile delle implicazioni legali dei propri atti.La legge ebraica stabilisce l’età dei tredici anni in quanto è cosideratoa l’età della maturità fisica in cui è presunto che una persona cominci a divenire capace di controllo sui propri istinti.La prima fase dell’educazione religiosa del fanciullo ebreo si conclude appunto con la liturgia del Bar-mitzvà grazie alla quale si diventa membri a pieno diritto della comunità, capaci di assumersi in prima persona le responsabilità delle proprie azioni.Essa consiste in una benedizione che il padre pronuncia per essere sciolto dalla responsabilità legale delle azioni del proprio figlio.A sua volta, quest’ultimo, per provare publicamente la maturità raggiunta, il sabato che segue il compimento dei tredici anni è convocato a leggere la Torà nella sinagoga: pronunciando una serie di benedizioni appropriate, leggendo una parte della pericope settimanale nonchè il passo dezi profeti e tenendo un esposizione omelitica al gruppo dei presenti; ponendosi infine a loro disposizione e rispondendo a eventuali domande.
4.2.2. Il Bat-mitzvà
I rituali ciclici nel corso della vita sono particolarmente significativi alla luce della visione ebraica della donna.
Innanzitutto, la donna è protagonista di significativi cambiamenti personali mentre contemporaneamente partecipa a rituali che riguardano la comunità nel suo insieme: la nascita e il rituale del conferimento del nome, il matrimonio e la cerimonia nuziale, la pubertà e la cerimonia del Bat-mitzvà.Queste sono tutte occasioni in cui la donna è in relazione ad altre persone; fa eccezione, in un certo senso, il Bat-mitzvà in quanto parte del suo significato si ricollega alla separazione dall’infanzia e dalla dipendenza dalla famiglia.Quindi la cerimonia del Bat-mitzvà ha un forte potenziale intrinseco di educazione e crescita personale.Essa è una cerimonia piuttosto inusuale nell’ottica della civiltà del mondo occidentale in quanto lo stadio della pubertà risulta essere caratterizzato, spesso, dalla devianza o delle ideologie di gruppo spesso lontane dal mondo adulto. L’Ebraismo cerca in questo modo di creare un momento in cui il giovane viene posto al centro dell’attenzione in famiglmia e all’interno della comunità che lo accoglie trattandolo come un adulto a tutti gli effetti. Ciò ha il vantaggio di avere una funzione di spinta verso l’autonomia.Vi sono particolari differenze, però, fra il Bar-mitzvà ed il Bat-mitzvà quale il fatto che per il secondo non vi siano simboli centrali e particolari l’indossare i filatteri, rapresentanti nuovi ruoli. Inoltre a livello di responsabilità religiosa, una fanciulla non assume un ampia varietà di obblighi personali quanti quelli maschili.Comunque l’importanza di una celebrazione per la maturità della donna quale il Bat-mitzvà stà crescendo d’importanza e viene sempre più adottata nelle comunità in quanto essa è sia un occasione importante per la comunità che in tal modo accoglie al suo interno un nuovo membro sia nell’ambito delle esperienze significative nella vita di tale persona.
Questo rito di passaggio ha valore fondamentale alla luce del traguardo a cui mira lo stadio della pubertà: l’entrare a far parte effettivamente ed a pieno titolo nel mondo adulto. Esso è segnalato di fatto attraverso l’assolvimento di un compito importante quale la lettura ed il discorso publico sia per l’uomo che per la donna.E’ proprio in questo stadio di vita che il bambino/a scopre la propria virilità o femminilità e la pone in relazione con la propria capacità di avere successo nelle proprie azioni. Spesso, però, vengono messe in questione e alla prova le proprie capacità mentali ed intellettive ed è in questo contesto che il Bar/t -mitzvà può divenire un campo di prova e di confronto.Il ragazzo o la ragazza si trendono conto che la loro virilità o femminilità vengono posti maggiormente in risalto ed affermate proprio attraverso il successo in compiti di tipo intellettivo.In questo modo la propria identità ebraica viene saldata assieme alla preoccupazione per il figlio in quanto adolescente in modo da averne un mutuo beneficio.
E’ importante infine la fase preparatoria che precede il Bar/t-mitzvà in cui il bambino lavora e cresce assieme ad un tutor personale che lo pone in diretto confronto con una personalità adulta che può divenire un modello di ruolo. Questa esperienza ha la potenzialità di divenire un evento fondamentale nel corso della vita.
4.3. LA PASQUA EBRAICA E I SUOI CONTENUTI PEDAGOGICI
E’ compito del genitore occuparsi in prima persona dell’educazione intellettuale e spirituale dei propri figli ed in special modo per ciò che riguarda la trasmissione dell’identità ebraica.La Pasqua ebraica richiede talmente tanti preparativi che viene naturale domandarsi perchè proprio le domande che i bambini indirizzano ai genitori circa il significato della celebrazione sono il nucleo di essa e devono essere soddisfatte prima di ogni altra cosa.
Innanzitutto è necessario comprendere come la Pasqua ebraica sia la festa con maggior enfasi e significato pedagogico tra i numerosi riti ebraici.Un particolare significato caratteristico di questa celebrazione è il fatto di evidenziare come nessuna educazione impartita da terzi quale un insegnante può prendere il posto di un educazione trasmessa, attraverso un coinvolgimento personale, dal genitore stesso.Il sapere ebraico non è una questione semplicemente teorica o meccanica bensì una questione pratica che investe lo stile di vita di un uomo ed è per questo motivo che non può essere trasmessa unicamente a livello quasi del tutto teorico a scuola.
Questo è un messaggio importante che proviene dalla celebrazione della Pasqua che mette in centro l’ambiente famigliare ed enfatizza il ruolo educativo parentale.Così come ogni padre ha il dovere di addempiere alla sua funzione educativa allo stesso modo la legge ebraica si assicura che ogni carattere del figlio possa beneficiare dell’istruzione parentale.
I primi insegnamenti al rampollo vengono impartiti in famiglia dalla madre e dal padre i quali sentono come un dovere “parlare” ai figli ,almeno sino al Bar-mitzvà ,dei comandamenti, dei gesti, dei riti culturali della loro fede. Il procedimento si potrebbe schematizzare nell’esecuzione di un rito o di un precetto da parte del genitore, nella domanda del figlio che ne chiede il significato, e nella spiegazione “narrativa” del genitore.Ciò è molto evidente nella celebrazione della festa di Pesach, la Pasqua ebraica.Scrive Pinchas Lapide: “Nessun bambino ebreo arriva alla maggiore età religiosa (l’età del Bar-mitzvà ) senza aver vissuto come esperienza personale la storia dell’uscita dall’Egitto, e senza averne parlato con partecipazione (…). La pasqua infatti è sopratutto una festa di famiglia , nella quale I bambini svolgono un ruolo centrale”.E’ impossibile seguire tutte le fasi della cena pasquale ebraica, il cosidetto “seder” (letteralmente “ordine”); cercherò peraltro di coglierne il senso fondamentale, sottolineandone particolarmente la funzione pedagogica.La celebrazione della Pasqua ebraica commemora l’esodo biblico dall’Egitto ed ha una durata di una settimana in Israele e otto giorni nella diaspora.Nell’antichità si festeggiava l’uscita dall’Egitto e la libertà conquistata attraverso il sacrificio pasquale che consisteva in un ariete, l’animale che gli egiziani consideravano sacra e che servivano come divinità.Il fatto di cibarsi dell’ariete era così un gesto simbolico attraverso cui avveniva una vera dichiarazione di monoteismo.
I Samaritani considerarono le leggi riguardanti la Pasqua ebraica applicabili a tutte le epoche malgrado, con la distruzione del tempio di Gerusalemme, la pratica del sacrificio pasquale cadde d’uso.
Parecchi elementi del seder evidenziano il ruolo attivo svolto dai fanciulli ed il tentativo di sollecitarne l’attenzione e la partecipazione corso della celebrazione: la tavola rotonda solennemente imbandita, i cibi simbolici, la preparazione alla festa, in modo che la celebrazione pasquale si trasformi in una memorabile esperienza educativa e di fede.
Il loro ruolo comunque, è davvero decisivo in occasione della fase detta “maggid”, “raccontare”, ossia la fase narrativa. La liturgia ha qui al suo centro la narrazione dell’esodo dalla schiavitù egiziana in modo da rafforzare la propria identità ebraica e contemporaneamente trasmettere importanti insegnamenti pedagogici, diretti sia ai figli che ai genitori, e valori universali.E’ dovere dei genitori trasmettere l’insegnamento storico dell’uscita dall’Egitto rispondendo alle domande dei figli in accordo con l’intelligenza di ciascuno. Ad evidenziare la grande varietà della personalità umana con la consapevolezza che ogni persona è diversa ed unica nel suo genere, sul piano pedagogico, il testo della cena pasquale fa riferimento a quattro simbolici modelli filiali per altrettanti figli presenti: uno saggio, uno malvagio, il terzo “semplice” e l’ultimo incapace persino di formulare domande. Sulla bocca dei primi tre vengono poste domande provocatrici, per fornire al capofamiglia esempi di risposte pertinenti, che lui può ampliare a piacimento. Tutto questo per illustrare plasticamente e in modo molteplice, adatto alle diverse mentalità, l’epopea della liberazione del popolo ebraico.L’Ebraismo presenta qui la sua caratteristica di libertà, di apertura a diverse possibilità di interpretazione della festa: da quella del sapiente, propria di chi conosce il senso di Pesach , la Pasqua ebraica, di chi ne sperimenta quotidianamente la libertà e la gloria, a cui viene risposto di proseguire per tale stradfa, approfondendo sempre più; a quella del malvagio, che addirittura ignora la Pasqua, non conosce la libertà; è incapace di apprendere. C’è poi il “semplice”, l’ingenuo che appare del tutto superficiale e impossibilitato a porre vere questioni, ad evolvere. E’ l’uomo che crede di sapere e che, per questo, vittima della sua illusione, resta condannato all’ignoranza.Infine il figlio che non sa fare domande, probabilmente il più giovane, ma è disponibile ad apprendere, seguendo una pedagogia correttemente fondata.Il suggerimento del Midrash è di “aprirgli la bocca”, in modo socratico, stimolandolo ad interrogare, catturandone l’attenzione, rendendolo partecipe alla riflessione comune.Il sostantivo latino “infans”, da cui derive la parola “infante”ossia colui che non parla e che deve essere introdotto a parlare,riflette una fondamentale necessità pedagogica che l’Ebraismo dice consistere essenzialmente nell’indurre il bambino anzitutto a fare domande.
Consideriamo una per volta queste tipologie caratteriali identificate da quattro diversi figli ipotetici.La Hagadà (il libro che viene letto durante la Pasqua ebraica), parla del “figlio che non sa domandare” ossia un bambino il cui desiderio di conoscenza è assopito, ciò che accade intorno a lui lo lascia indifferente e non stimola la sua curiosità a tal punto da non sentire la necessità di domandare. Egli può anche non avere ancora raggiunto lo stadio in cui sente la necessità di domandare.La lezione pedagogica che è possibile trarre da ciò si riferisce al fatto che un infante formula le domande nella propria mente ancor prima di poterle esprimere verbalmente e a ben vedere è proprio la capacità di fare domande a distinguere l’uomo dal resto degli esseri viventi.
Un neonato impara molto durante il primo anno di vita perchè la sua mente attiva è in continua ricerca di risposte da dare alle proprie domande.E’ necessario accogliere la curiosità di un bambino quale segno della sua normalità ed un genitore non dovrebbe mai stancarsi di fornire risposte alle domande del proprio figlio proprio come lui non sembra stancarsi di formularle continuamente.Un genitore dovrebbe essere volenteroso ed attento nell’occuparsi di soddisfare le necessità intelettuali del proprio figlio proprio come lo sarebbe riguardo il suo benessere fisico.Se un infante non riceve risposte perde la propria curiosità naturale ed eventualmente smette di domandare; ciò potrebbe andare anche a discapito della sua capacità e potenzialità d’apprendimento.
Nel caso il figlio non avesse ancora raggiunto lo stadio in cui è capace di formulare domande è compito del genitore prendere l’iniziativa ed intavolare una conversazione per primo in modo da offrirgli degli stimoli.Durante la narrazione di Pesach si discute anche a proposito del figlio “semplice” cui desiderio di conoscere è vivo e si esprime verbalmente attraverso le domande. E’ necessario, quindi, che i suoi genitori siano preparati nel rispondere addeguatamente alle sue domande considerando che anche qualora non si conosca la risposta addeguata, il dichiarare apertamente la propria ignoranza, oltre ad essere un segno di modestia, permette al figlio di realizzare che vi sono limiti alla conoscenza umana. Inoltre l’essere consapevole che una persona non può essere alla conoscenza di tutto è essa stessa una conoscenza. E’ proprio al figlio considerato “semplice” o “ingenuo” che dovrebbero dedicare il proprio tempo dei genitori attenti, in modo da fornirgli risposte addguate alla sua personalità ed al suo livello di comprensione.
Nella parte strettamente narrativa della Hagadà si parla, inoltre, del figlio “saggio” come colui che non solo possiede già un certo bagaglio di conoscenze ma mostra anche segni della propria responsabile attitudine primariamente nei confronti della religione. Egli è in possesso di un bagaglio culturale, aricchito ulteriormente dalla fede.
Ciò che i genitori insegnano a questo “genere” di figlio attraverso la Pasqua riguarda innanzitutto la trasmissione del concetto che la fede ebraica si basa sull’esperienza vissuta dai propri antenati con l’uscita dall’Egitto e la fine della propria schiavitù, e non su principi filosofici rigurdanti la natura divina.Vi è, però, un ulteriore valore di estrema importanza che è necessario trasmettergli: il popolo ebraico fu schiavo in Egitto e fu straniero. La legge ebraica ha particolari statuti che proteggono lo straniero e lo tutelano in quanto è necessario comprendere i problemi dello straniero proprio come lo furono gli ebrei in Egitto.L’Egitto è spesso considerato un allegoria per i diversi paesi in cui gli ebrei, nei secoli, furono ospiti. E’, quindi, comprensibile l’estremo interesse ed empatia che gli ebrei ebbero nel tempo, e dovrebbero avere, nei confronti dello straniero, dell’immigrato.Il figlio saggio deve essere comunque introdotto allo studio teoretico della cultura ebraica e generale che deve continuamente essere alimentata e trasformata in azioni addeguate.L’ultimo figlio di cui si discute durante la fase narrativa del seder è il “malvagio” ossia colui che pur se in tenera età considera già qualunque attività in termini del proprio beneficio ed interesse personale.
Egli tende a smuovere ogni tendenza positiva e nobile in lui; il suo comportamento e le sue scelte sono determinate da un unica considerazione: se ciò gli procurerà un piacere personale.
Egli tende ad escludersi dalla famiglia e dalla collettività ebraica; infatti, nella hagadà, egli domanda simbolicamente ” quale valore a ciò per voi?” e non “per noi?” come ci si aspetterebbe. Con tale domanda egli si riferisce non tanto alla celebrazione quanto ai preparativi precedenti la festa che vengono effettuati molto minuziosamente (la pulizia della casa e di qualunque proprietà da qualunque presenza di lievito) e che possono apparire inutili ed insensati se al di fuori di un contesto religioso e di fede.Il figlio “malvagio” fa fatica a comprendere il motivo per cui, per un gesto di pura fede e non di interesse e beneficio pratico, l’uomo possa fare dei sacrifici personali. In questo senso tale figlio può essere considerato quello meno “spirituale” e maggiormente legato alla mondanietà ed ai piaceri fisici della vita. E’ necessario dare risposte a tale figlio in tutta serenità e solennità in modo da renderlo partecipe dell’atmosfera festiva e renderlo consapevole della felicità e del beneficio spirituale e non solo fisico che se ne trae in modo da ottenerne almeno il rispetto.
La felicità della liberazione dalla schiavitù, simbolo della schiavitù personale che ogni persona può sperimentare quotidianamente nei confronti dei piaceri fisici ma anche di un infinità di altre esperienze che possono limitare la naturale libertà, spirituale e fisica, a cui l’uomo aspira, può essere rivissuta attraverso la celebrazione che la ricorda cercando di ricreare l’atmosfera in cui gli ebrei si trovarono alla loro uscita dall’Egitto.Ogni uomo deve riuscire a liberarsi dalla “schiavitù” in cui vive quotidianamente ossia da ciò che sente come “schiavizzante” e aspirare ad una situazione migliore ed un bene maggiore. Infatti il popolo ebraico non solo fu liberato ma la sua condizione di vita migliorò una volta trovato un paese in cui risiedere.
Il valore della libertà deve essere insegnato, attraverso l’esperienza pratica, a tutti i figli, anche al “malvagio” che è in grado di comprenderlo.La conclusione del “botta e risposta”, certo non formale, tra il capofamiglia ed il rappresentante dei bambini, viene ad essere il canto detto “Dayenu”, alla conclusione della fase narrativa del seder, che anche i piccoli sono in grado di modulare assieme agli adulti.
4.4. IL RAPPORTO CASA-SCUOLA
La Bibbia descrive la prima donna come un compagno di caratteristiche opposte per insegnare che la maggior perfezione possibile si ottiene solo quando due individui differenti collaborano per uno scopo comune, ognuno donando il suo contributo specifico che l’altro non è in possesso.
E’ su questa istanza che si basa il principio della collaborazione fra casa e scuola all’interno del pensiero ebraico.Entrambe la scuola e la famiglia devono essere consapevoli della proprie specificità, dei propri doveri come dei propri limiti e quindi della necessità di una divisione di competenze.Le aspettative che la casa ha nei confronti della scuola è ben definito mentre la funzione educativa della famiglia è più complessa.
Le aspettative che la scuola nutre nei confronti della famiglia, persino spesso a livello di opinione publica, maggiormente diversificate rispetto a ciò che la famiglia richiede allez istituzioni scolastiche.
Le due istituzioni sociali devono essere consapevoli delle proprie diversità e specificità a livello funzionale pur mantenendo chiaro l’ideale intorno a cui la struttura si organizza ed evolve.
Nel pensiero ebraico la famiglia può trasferire una minima parte delle proprie funzioni educative alla scuola cui mancano i requisiti essenziali per proporre una vera e personalizzata educazione morale, nucleo per ogni futura conoscenza.Crescere ed educare un figlio significando essenzialmente l’immergersi totalmente nella personalità del bambino, non può essere una funzione assunta dalla scuola in quanto ciò non è possibile senon su di una base individuale.Vivere e lavorare assieme a compagni di scuola ed insegnasnti dovrebbe aiutare il bambino nella pratica delle buone maniere, nella conoscenza di principi etici basilari da mettere in pratica anche all’interno delle mura scolastiche, nell’autocontrollo e nell’allenamento mentale che porti ad un elasticità mentale ed ad un allargamento delle proprie vedute alla luce di un analasi dei fatti attuali.Per quanto riguarda questi aspetti la scuola è in grado di avere grande influenza anche sulla famiglia con cui collabora.
4.5. LA CRISI SPIRITUALE DEI NOSTRI TEMPI E LA SUA CONSEGUENZA SUL VALORE DEI RITI
Il declino radicale della fede religiosa degli ultimi settecento anni è stato accolto da molti quale il grande trionfo della grandezza umana sugli simboli e sulle cerimonie restrittive della libertà umana.L’alienamento che ne risultò allontanò l’uomo non solo dal suo Creatore ma anche da se stesso e dalle proprie necessità spirituali. Tale crisi spirituale finì col riflettersi sul valore e sulla pratica dei riti a carattere sociale e religioso.
Essa è anche conseguenza diretta dello sviluppo tecnologico dell’attuale società postindustriale che ha contribuito ad aumentare i bisogni umani rendendo l’uomo vittima di una società materialista.I bisogni, mai del tutto sodisfatti, rendono l’uomo schiavo dei piaceri del consumismo e sempre alla ricerca e alla creazione di nuovi bisogni; tutto ciò, secondo il pensiero e la filosofia ebraica, di fatto limita l’uomo e lo allontana dal mondo spirituale e, di conseguenza, dallo scopo della propria esistenza.
Le condizioni moderne hanno introdotto la meccanizzazione nella vita quotidiana rendendola sempre più impersonale.
Le instituzioni centrali della società moderna tendono ad identificare le persone più attraverso numeri che dalle proprie facce o dai propri nomi; tutto ciò rende l’uomo sempre più alienato anche nei confronti di se stesso in quanto egli tende ad identificarsi con l’immagine dell’uomo riflessa dalla società: un individuo anonimo e spersonalizzato.
L’anonimato e l’alienazione possono, in ultima analisi, portare l’uomo verso la deresponsabilizzazione.E’ a questo scopo che è necessaria una rivalutazione dei riti e degli obblighi che la società e la religione offrono alla persona.I doveri religiosi hanno la potenzialità di rendere l’uomo responsabile nei confronti di se stesso, delle proprie azioni, della propria personalità ma anche nei confronti del prossimo, in quanto l’uomo è relazionato attraverso un vincolo d’interdipendenza con il suo simile, ed infine con D-o.Secondo l’Ebraismo uno dei sudetti religiosi riguarda l’osservanza dei riti e la celebrazione delle cerimonie religiose in quanto è attraverso di essi che l’uomo diviene maggiormente consapevole della propria identità, in quanto uomo ed in quanto ebreo.
Inoltre i riti formano un legame fra l’uomo e la storia in quanto sono contestualizzati e storicizzati. Basti pensare alla cerimonia della festività pasquale in cui le azioni che vengono compiute durante il seder, quali il mangiare pane azimo,ricalcano quelle dei nostri antenati al tempo dell’uscita dall’Egitto e servono a riportare alla mente alcuni particolari avvenimenti.In questo senso è possibile apprezzare il valore delle ritualità e delle festività in quanto contribuiscono a ricreare un identità spesso frammentata dall’alienazione e dall’anonimato della società
contemporanea postmoderna.La crisi spirituale della società moderna è riflessa, all’interno del pensiero ebraico, da una crisi d’identità interna al popolo ebraico.
Lo scopo dell’ebreo moderno è quello di riscoprire la propria identità, trovando innanzitutto una soluzione alla crisi spirituale interna all’Ebraismo che rischia di frammentare ciò che per secoli è stata un identità ebraica unitaria.
Un altra fondamentale conseguenza dell’alienazione dell’uomo nella società moderna, è la profonda solitudine della persona.
Ciò deve essere combattutto dall’educazione impartita ai propri figli cui insegnamento più grande, a mio parere, è quello che nessun uomo è solo al mondo e che è necessario recuperare la fiducia nel prossimo che non è altro che il credere nell’essere umano.Tutto ciò è trasmettibile anche attraverso una rivalutazione dei riti, che pongono la famiglia al centro dell’attenzione permettendo la riscoperta di un istituzione fondamentale della società,e che permettono di combattere la solitudine dell’uomo moderno.La famiglia è la radice della società stessa; è possibile,quindi riscoprirne il valore intrinseco anche grazie alle festività ebraiche che si svolgono tutte all’interno delle mura famigliari e sono centrate su di essa.La riscoperta della famiglia può essere un utile arma contro la solitudine, l’alienazione e l’anonimato.E’ probabilmente grazie alla relativa stabilità della famiglia ebraica, pur avendo subito mutazioni nell’immaginario collettivo, che il valore dei riti non è andato perso del tutto a causa della crisi spirituale moderna.
43) Dobbiamo sempre tener presente che gli Ebrei vivevano in esilio e che la memoria di un popolo in tale condizione probabilmente assume forme particolari.