Rav Umberto Piperno
«Tutto ciò che è in basso, ha la sua radice in Alto (Zohar)». Nel pensiero ebraico vi è una contiguità o più spesso corrispondenza tra il microcosmo di natura umana ed il macrocosmo di origine divina. La dimensione della storia umana assume la sua centralità, non come elemento accessorio, bensì base portante della stessa realtà divina. La tradizione cabalistica arriva ad universalizzare l’esilio del popolo ebraico come aspetto particolare «dell’Esilio della realtà cosmica da se stessa» fino a cercare nel comportamento dei singoli e delle nazioni il Tiqqun, correzione e perfezionamento, per superare l’Esilio di Dio dal Mondo.
La Civitas e l’Ir
Non è un caso che la prima città sta stata costruita da Caino dopo la sua condanna alla peregrinazione: costruì una città e la chiamò come il nome del figlio Hanoch.
L’educazione (hanoch) è alla base della convivenza, così come la discendenza è l’unica giustificazione della convivenza politica. Non a caso i discendenti di Hanoch sono gli artefici delle arti tecniche: Ioval della pastorizia mentre Yuval dell’arte della musica ed infine Tuval Qaiin progenitore della tecnica del ferro e delle armi. Queste discendenze di Caino furono cancellate dal diluvio alla settima generazione.
Il termine ” ‘ir”, città non corrisponde totalmente alla polis greca, né esiste un parallelo nella terminologia politica ebraica. Dobbiamo partire dal ” Millot HaHigaion ” del Maimonide per ricostruire il cammino del pensiero politico attraverso il rapporto funzionale con la terminologia politica araba.
Nella Torà insieme ad ” ‘ir “, città, abbiamo il termine, “qirià” che significa città cinta di mura, ad es. Qiriat Arbà. Il termine amministrativo è invece “Medina” che deriva dalla radice “din”, luogo di esercizio della giustizia. Da questa parola deriva ora il termine “stato” scelto dal parlamento d’Israele. In effetti questo termine è di natura “politica” in senso stretto di “amministrazione della città”, mentre lo Stato ideale, o la patria comune è chiamata “umma”.
Specificatamente questo termine identifica la nazione, ” matria ” piuttosto che patria, per definire l’unità di popolo che ha un ascendente comune, una comunanza genetica da una madre unica. Maimonide distingue seguendo Alfarabi tra le leggi necessarie per l’amministrazione della città Nimusim (da Nomos), Huqqot o Huqqim e Datoth e quelle che provengono dalla saggezza divina per la guida dell’uomo nelle ” scelte divine “.
La riflessione politica tra novità e tradizione
1.1. La filosofia della politica
“La ragione è la radice di tutta la libertà” . Essa fa l’uomo veramente uomo perché lo libera della tirannia delle cose sensibili e presenti e lo porta al fine che è veramente suo, cioè di se stesso come essere razionale e morale. Senza ragione non vi è quindi libertà” .
Se ciò è valido per tutti gli aspetti della vita umana, se i nostri Maestri affermarono che è chiamato uomo “solo colui che è veramente libero “, libero dall’idolatria dell’accettazione incondizionata di una ideologia, allora per la filosofia della politica ciò diviene per lo meno essenziale. “Uno dei compiti principali, se non il compito fondamentale della filosofia della politica è quello della ricerca della Ratio Essendi , del titolo e del fondamento dell’obbligo politico.
1.2. La tradizione della politica ebraica
La riflessione politica, per quanto debba essere valutativa e non meramente descrittiva trae sempre ispirazione dalla osservanza della realtà politica contingente. Tradizione politica significa continuità nel pensare i principi fondamentali del potere, del governo, del rapporto governante-governati, significa una lunga catena di esperienze dalle quali si è cercato di trarre il senso ultimo, il filo conduttore il Leit Motiv . Già in questo senso la tradizione politica ebraica presenta una profonda anomalia. Come si può parlare di tradizione politica per un popolo che dalla perdita della indipendenza nazionale e per duemila anni è stato privato di quella fonte ispiratrice della riflessione politica che abbiamo indicato nella vita statuale, nel rapporto organico o dialettico tra Stato Governo e Stato società? Quale poteva essere la problematica politica di un popolo disperso per i quattro angoli della terra, perseguitato, esiliato alla ricerca di un governo che almeno la tollerasse? La speranza e la certezza del ritorno poteva assumere solo forme letterarie o messianiche sotto le quali si disperdeva il substrato politico. Tuttavia bisogna riconoscere che l’aspetto giuridico-normativo costituì forse l’essenza della tradizione ebraica, quindi la riflessione giuridica, la speculazione sul processo nomogenetico, non cessò mai di pulsare nel cuore e nella mente di Israele. Esamineremo dettagliatamente gli aspetti fondamentali di tale tradizione politica, che faticò persino a produrre la sua terminologia, probabilmente se non fosse intervenuto un pensatore della levatura di Maimonide non l’avrebbe neanche prodotta . Nell’impossibilità di effettuare l’analisi politica sulla realtà storica, lo studioso si doveva volgere il primo sguardo al passato, alle forme politiche presentate dalla Bibbia e dalla tradizione Orale che costituirono per il popolo in esilio il rifugio dal quotidiano e nello stesso tempo l’elemento giuridico e culturale che ancora legava le varie componenti del popolo.
Studiare e commentare la Bibbia significava non solo l’adempimento di un precetto religioso, ma una ricerca di identità. La Bibbia divenne così e non solo per gli Ebrei l’arena in cui si confrontavano le diverse posizioni ideologiche sorte dalla feconda produzione filosofica ebraica; il dibattito si svolse sempre nel massimo rispetto delle posizioni altrui nella consapevolezza che solo la libertà interpretativa poteva corrispondere all’esigenza di conciliare l’origine divina, con la razionalità umana che in ogni generazione assume posizioni differenti e spesso contrastanti. Sorse così il problema di difendere l’originalità del pensiero ebraico dal periodo di confusione o immedesimazione, con altri sistemi filosofici irrimediabilmente condannati a cadere nell’oblio con il sorgere di una nuova coscienza e di una nuova ideologia. Non sappiamo fino a che punto questo tentativo abbia avuto successo particolarmente in relazione all’aspetto politico; è certo però che l’ebraismo mantenne la propria originalità ed identità più per la vitalità della sua produzione giuridica, che avvolgeva e relegava minuziosamente la vita quotidiana, che non per la produzione filosofica così diversa per interessi ed indirizzi che fa qui negare la continuità di una tradizione comune. Anche la politica quindi continuò ad essere coltivata nel suo aspetto giuridico in relazione alle istituzioni costituzionali del passato; si tentò di trasferire in forma ridotta nel presente, nella vita della comunità o nell’esercizio delle sue prerogative di autonomia amministrativa. Ma l’amministrazione comunitaria invischiata nei piccoli problemi quotidiani, sull’idoneità del cantore e del macellaio, non poteva aprirsi agli orizzonti della riflessione politica o spiccare il volo verso l’arduo problema del fondamento dell’obbligo politico. Sennonché è intervenuto un fatto del tutto nuovo nella storia: dopo venti secoli di esilio e di dispersione un popolo che aveva cessato di essere nazione in senso politico riacquista la piena indipendenza ed autonomia, erigendo così uno Stato nel proprio territorio. Sorge così il problema di fondare o meglio di rifondare la propria dimensione della politica. “Per mantenere la propria identità la nuova politica deve essere fondata su qualcosa che costituisca la sua stessa coscienza, la sua dimensione esistenziale, che investa tutte le manifestazioni della vita. Si tratta quindi di ricercare se un tale elemento esiste e quale esso sia. “Il popolo deve ritrovare e continuare la via che ha interrotto quando si trovava in condizioni profondamente diverse da quelle in cui si trova ora”. Secondo Elia Samuele Artom esso deve faticosamente riallacciarsi ad un passato al quale sì molto lo lega, ma che è profondamente diverso dal presente e che non può essere fatto senza altro ricevere; non deve iniziare una vita del tutto nuova che non sia intimamente legata con quella del suo passato né ritornare al tempo in cui cessò la sua indipendenza annullando artificialmente tutto ciò che è avvenuto al di dentro e al di fuori durante quasi due millenni – se pure ciò fosse possibile – poiché questo lo metterebbe completamente al di fuori della realtà e quindi della vita. L’elemento che può costituire il filo conduttore principale della nuova esistenza come continuazione della antica deve possedere alcuni caratteri speciali e soprattutto deve corrispondere a queste due condizioni: 1) esser sempre stato sentito come costitutivo della sua essenza e non qualcosa di contingente e passeggero; 2) esser tale da poter accomunare ed unificare non solo quella parte del popolo che risiede nello Stato di Israele ma anche quella parte che è la maggiore, che risiede ancora fuori dei suoi confini”. Secondo Artom l’unico elemento che risponde alle esigenze sopra indicate è l’osservanza della Toràh , che trae la sua obbligatorietà dalla centralità che il pensiero e la vita ebraica le ha offerto nel corso dei secoli senza soluzioni di continuità. “Il popolo d’Israele senza Toràh è come un corpo senza anima” affermano i nostri Maestri . Il problema è innanzitutto culturale-filosofico come affermò Bruno Zevi. “I Maestri dell’ebraismo hanno sempre tenuto conto delle culture maturate intorno ad essi vagliandone le concomitanze e le compatibilità elaborando versioni rinnovate, attrezzate della filosofia biblica. L’ebraismo ha dialogato con l’aristotelismo, con il neoplatonismo, più tardi con l’idealismo, l’esistenzialismo”. Oggi l’ebraismo impronta largamente la cultura occidentale ed il pensiero ebraico dialogando oggi con “l’altro da sé” incontra i suoi stessi prodotti che paradossalmente non sono stati ancora interiettati esaustivamente dalla cultura ebraica. Non si tratta di procedere ad una revisione dell’ebraismo ma di “arricchire, estendere, riformulare il messaggio ebraico per applicarlo quotidianamente ai campi della politica, dell’economia, del lavoro, del tempo libero e della creatività e metterla al servizio. Non si tratta di elaborare un messaggio unico od unitario. L’ebraismo si alimenta delle sue diversità e la dissonanza gli è congenita. Si tratta invece di “scavare nel significato universale di una civiltà dissociante indicando nuove ipotesi di interpretazioni del mondo e della vita”.
In questo spirito la cultura ebraica sta tentando di compiere questa prodigiosa operazione di conciliazione tra temporaneità ed eternità anche nel campo della riflessione politica tanto che Rav Kook affermò: “L’eternità è il senso più ampio della vita civile nel senso più ampio della parola” . Per riformulare i problemi di filosofia della politica nei termini originari, bisogna innanzitutto gettare uno sguardo retrospettivo alla storia della filosofia ebraica, per trarne quegli elementi vitali che possono portare un contributo alla creazione di una nuova dimensione della politica per infondere nella prassi quotidiana quei valori fondamentali che costituiscono l’essenza della vita in società.
1.3. Abravanel ed i Problemi dell’autorità
“L’individuo che pur nella sua individualità limitata e finita conosce l’universale e l’eterno ed aspira all’universale ed all’eterno, non si tiene questa conoscenza che è la più intima qualità e la più intima forza sua, nella più riposta parte del suo essere, ma la porta in ogni atto della sua vita e di ogni sua azione concreta” .
Per questo motivo abbiamo ritenuto opportuno volgere il nostro sguardo nel passato – all’interno della cornice di rifondazione della tradizione politica ebraica – al personaggio che maggiormente esercitò attività politica puramente speculativa da un lato e storicamente pragmatica dall’altro, traendo dall’analisi dell’esperienza comune quegli stimoli necessari all’approfondimento teorico e al giudizio valutativo. In un’epoca in cui la cultura circostante cominciava ad approfondire la riflessione sul mondo politico, l’analisi smaliziata sullo Stato reale, repubbliche o principati governati “per principe assoluto o per ottimati o per populo” mentre sorgeva lo Stato moderno, la cultura ebraica cercava di fuggire in un mondo ideale, e invocando nella dimensione messianica la risoluzione del reale. Abravanel viene a porsi in conflitto con la dottrina politica ebraica tradizionale, un conflitto che però, teniamo a precisare fin d’ora, si svolse completamente nel suo interno.
Per tutta la vita Abravanel lotta contro il “tralcio estraneo” ed “i rami di uva straniera per riportare la gloria di Israele al suo antico splendore”. Prende parte attiva alla vita politica, frequenta corte e monarchi in un rapporto ambivalente di esaltazione e profanazione. Non compie solo analisi del reale attraverso il passato come facevano gli umanisti fiorentini, bensì l’indagine del testo biblico delle antiche forme costituzionali d’Israele attraverso la dimensione storica contemporanea. Se tale soluzione non è corretta dal punto di vista critico od esegetico a noi non interessa; resta il dato di fatto che tale metodologia riesce a proporre modelli validi per il presente, cogliendo non tanto l’aspetto contingente della forma politica pragmatisticamente intesa, bensì quei valori fondamentali a cui essa deve ispirarsi.
Questa problematica riassume in pratica tutta la sua profonda tensione intellettuale e psicologia tra Vita activa et contemplativa tra civitas hominum e regnum De-i , o meglio con espressione ebraica, Malkhuth Shamaim , tra antropocrazia e teocrazia, tra dimensione storica e messianica, tra mondo medievale e rinascimentale; probabilmente è proprio quest’ultimo conflitto provocato dal fatto di essere l’ultimo grande interprete dell’aristotelismo, pur difendendo la libertà di indagine umanistica, l’elemento decisivo della sua formazione e della sua produzione. Anche in campo culturale quindi Abravanel vive il conflitto tra principio di Autorità e di Libertà. Così descrive Shmueli questo complesso rapporto : “Nel fiume della vita e delle opere di Abravanel si riflettono due sponde: la generazione ed il mondo che vanno con lui e la vita intorno a lui. I limiti della generazione a causa del periodo e dello spirito sono in larga misura i limiti delle sue angosce. Ogni generazione ha in sé la sua Entelechìa , le sue caratteristiche decisive non sono assorbite dalla vecchia generazione”. Shmueli vede in Abravanel un figlio del suo tempo che lotta con le angosce del suo periodo e rinnova le risposte tradizionali di fronte ai problemi eterni della natura e legittimità dell’obbligo politico e della autorità che da essa promana.
“La rinascita nazionale ebraica dei nostri tempi conduce più ad una restaurazione della coscienza politica ebraica, che al ristabilimento del sistema di governo ebraico. Il primo passo del processo è la riscoperta della tradizione politica ebraica. La proposta dell’esistenza di una tradizione politica ebraica non deve far pensare che vi sia un singolo, uniforme, monolitico “modo ebraico di far politica”; una tradizione politica si sviluppa intorno ad aspettative condivise da tutti, come la giustizia nei pubblici affari, un comune senso delle utilizzazioni convenienti del potere nella ricerca di obiettivi politici, una condivisa armonia del sistema di relazioni reciproche tra potere e giustizia nel corpo politico, una visione comune di un conveniente sistema di relazioni tra governanti e governati, è costruito intorno ad un continuo consenso, un pensare insieme (consentio) attraverso generazioni di una parte dei membri di una particolare comunità o corpo politico su questioni comuni.
Le risposte a queste questioni non possono necessariamente essere identiche per tutti i membri consenzienti del corpo politico; se fossero le stesse noi avremmo una dottrina politica, non una tradizione che necessita implicitamente di un continuo dialogo, basata su una condivisa formulazione delle questioni fondamentali.
In un senso reale una tradizione si sviluppa intorno alla tensione esistente tra le sue differenti espressioni, ma rimane all’interno della stessa struttura dialettica.
Il dialogo politico ebraico iniziò con l’emergere del popolo ebraico come corpo politico circa 3200 anni ed è continuato fino ad ora in tempi fortemente clamorosi, particolarmente quando gli ebrei hanno vissuto indipendentemente sulla propria terra, ed in altri meno clamorosi. Ironicamente, dopo la sopravvivenza nonostante i continui cambiamenti di regime politico; l’esilio e la dispersione, la tradizione politica ebraica sta per essere perduta nei nostri tempi che hanno realizzato pienamente una vita politica ebraica con lo Stato di Israele. L’Emancipazione degli ebrei nell’era moderna, nata al prezzo di una virtuale rinuncia all’identità ebraica la condusse in uno spazio chiuso.
L’esistenza di una tradizione politica ebraica è particolarmente importante per i caratteri degli interessi politici ebraici. Vi furono degli ebrei che fecero derivare le loro idee politiche dalla filosofia, forse potrebbe essere appropriato considerare una filosofia politica ebraica, oppure filosofi preminentemente politici che potrebbero essersi manifestati ed espressi con ideologie derivate dalla filosofia.
Questo è il metodo della maggior parte dei politici europei ed è la caratteristica di molti popoli che hanno operato una frattura con il loro passato, e quindi hanno bisogno di un terreno ideologico. Gli ebrei, che si proclamano e si identificano tali, però, non mutarono la loro struttura dalla filosofia, e non fanno dipendere la loro esistenza da una ideologia e non possono quindi affidarsi ad una filosofia per procurare una base alla vita politica ebraica.
La frattura rivoluzionaria degli ebrei risulta la Bibbia e fu espressa attraverso il Midrash (esegesi analogica) e la Halakhà (esegesi normativa), ampliamente conosciuta, che, come Leo Strauss puntualizzò, creano un alternato sistema di filosofia. Come nel caso di altri popoli la cui base non è filosofica o ideologica, la tradizione ha sempre occupato un ruolo di estrema importanza nell’ebraismo (la parola ebraica tradizione, Masoreth significa letteralmente vincolo, legame, così come la radice lego nella parola latina religio). La tradizione politica ebraica è una parte integrale dell’intero edificio della tradizione ebraica, una sine-qua non all’impegno ebraico per la concezione popolare e l’attesa della redenzione, attraverso la creazione di una buona società sulla terra.
Il mantenimento di una tradizione politica è la chiave per una continuità politica, che in fondo è una parte necessaria della continuità del giudaismo.
Una tradizione persiste su due livello: il formale ed il subconscio; affinché una tradizione rimanga pienamente vivente i suoi portatori debbono essere per lo meno consci di essere una parte di essa, e che per lo meno loro, la stanno manifestando con le loro idee ed azioni. Quindi, sempre sotto queste condizioni, una tradizione assomiglia al proverbiale iceberg la cui maggior parte non è un’articolazione di materiale conscio o autocosciente, ma influenze, pensieri e comportamenti sconosciuti ai suoi portatori; nelle peggiori condizioni una tradizione può sopravvivere a livello inconscio per un tempo considerevole dopo che essa è formalmente soppressa o abbandonata. E’ facile dire che mentre la tradizione politica ebraica ebbe il suo declino nell’era moderna come entità articolata, continuò tuttavia a persistere nel subcosciente in molti metodi di cui la maggior parte della gente ha facilmente notizia.
Quello che forse è più irresistibile è che, senza la necessità di riscoprire la tradizione politica ebraica, gli ebrei continuarono ad esercitare una funzione nell’arena politica in non piccola misura, sulla base della loro tradizione politica, però senza consapevolezza e conoscenza di stare esercitando una funzione all’interno di una tradizione vivente specificatamente loro. Le straordinarie somiglianze nella struttura delle istituzioni ebraiche, in Israele e nella Diaspora, presenti e passate, le caratteristiche fondamentali del comportamento politico ebraico, le fondamentali credenze e pratiche incastonate nella cultura politica ebraica, attestano tutte la persistenza di una tradizione politica ebraica che rimane per la maggior parte inesplorata”.
Terminologia politica
La Società politica (Il popolo ebraico )
1) Le società politiche ( Medinoth ) sono estensioni di una relazione pattizia costituitasi consensualmente dalla totalità dei loro costituenti, sia come contratto di partecipazione, sia come meta-compartecipazione (metapartnership).
Non c’è nessuno stato nella tradizione politica ebraica nel senso di una entità politica materiale completa in sé e solo in se stessa. Il vero temine Medinàh si riferisce ad una unità politica geografica, mentre questo termine oggi è usato per Stato, ma i suoi echi ci fanno rammentare che politìa, società politica, sia una traduzione più esatta (cfr. in arabo Medinah , che significa città). Il termine più tardo offre una più vasta ed una più ristretta espressione di un consistente significato con l’ebraico originale, più vasto per il fatto che tutte le entità con propria giurisdizione politico-legale sono politìe, e più ristretto, in quanto nessuna politìa esiste indipendentemente dai suoi componenti e né c’è un possesso di sovranità assoluta; entrambe le dimensioni sono elementi vitali della tradizione politico ebraica, infatti essa non riconosce la sovranità dello stato nel senso moderno di assoluta indipendenza; nessun stato, che è sempre creazione umana, può essere sovrano; classicamente solo Dio è sovrano.
2) Il popolo ebraico è fondamentalmente una comunità politica di uguali, una congregazione ( Edàh ) con tutto quello che implica per la organizzazione e la conduzione degli affari politici. Mentre nessuna singola forma di organizzazione politica è comandata dalla legge o tradizione ebraica, ogni forma scelta deve includere il principio basilare repubblicano; i regimi ebraici devono essere necessariamente un repubblica democratica, ed a causa della enfatizzazione del ruolo divino ebbero tendenze aristocratiche che spesso degenerarono in forme di governo oligarchico, ma fatte veramente poche eccezioni, non diventarono mai autocratici ed il fondamento repubblicano della tradizione politica ebraica prevenne ciò. Una propria comunità politica ebraica è un’entità che comprende una propria tendenza ebraica è un’entità che comprende una propria tendenza di rapporti politici piuttosto che una struttura od un regime particolare. Questa enfatizzazione del Rapporto è particolarmente rilevante per una comunità politica a base federale o pattizia, ed aiuta a rinforzare il repubblicanismo ebraico.
3) Il popolo ebraico come comunità politica cominciò con un forte impegno di pattuire, negoziare (come dal modello di base) la realizzazione delle decisioni politiche. Nel suo senso migliore ciò condusse ad una cooperazione negoziata basata sull’obbligazione contrattuale pattizia; nel suo senso peggiore ciò condusse ad una propensione ad assoggettare ogni cosa ad una cavillizzazione senza riguardo per norme e procedure accettate.
Responsabilità politica
1° La base della responsabilità politica ebraica si pone su una auto-percezione collettiva di essere un popolo che è combinato dai suoi caratteri religiosi e politici, che in un certo senso, trascende il tempo e lo spazio, anche se sempre si localizzò l’attenzione sulla terra di Israele come centro ideale per la massima autorealizzazione ebraica individuale e collettiva. Ciò ha facilitato il mantenimento dell’unità e la sopravvivenza di un popolo in esilio per millenni e disperso per tutto il mondo.
Tradizione politica e linguaggio del discorso politico
Bisogna ora chiarire la terminologia chiave usata nel discorso politico ebraico, termini per la maggior parte ancora rimasti immutati dalla Bibbia che rimane la fonte prima dei termini politici ebraici, che rivestono particolare importanza per una esatta comprensione delle fondamentali relazioni, strutture e rapporti della vita politica ebraica.
Berith (Patto)
Il Contratto tra D+o ed i patriarchi, D-o ed il genere umano, D-o ed il Suo popolo che liberamente accettò la Toràh (Pentateuco) nella promulgazione della legge sul Sinai (Esodo cap. XVIII-XX). La forma del regime fu sempre lasciata libera all’iniziativa umana, anche nella Bibbia si parla della Costituzione di una struttura amministrativo-giuridica formulata da Iithrò, suocero di Mosè. Abbiamo altri patti di accettazione del regime politico dopo l’entrata in Israele (vd. Giosuè cap. XXIV).
Hesed
L’Obbligo pattizio di misericordia per fare interpretare il contratto tra i Benè – Berith (figli del patto, parti del contratto) nel senso più lato, respingendo così l’inclinazione umana di interpretare l’obbligo politico nel senso più angusto possibile. Date queste premesse, gli ebrei ove poterono, organizzarono le loro istituzioni politiche su base federale, fin dalla forma dell’antica confederazione tribale, il politeuma ellenistico, le comunità della diaspora nell’Impero Romano, le confederazioni medievali di comunità locali, fino al consiglio delle quattro terre.
‘Edah congregazione e Qahal assemblea: la base repubblicana
Il patto non solo trasforma il goi (gens) in ‘am (popolo), ma il popolo, un gruppo di affini diventa un ‘ edah (congregazione), un corpo politico basato sul consenso. Lo stesso termine letteralmente implica un’assemblea che si incontra ad intervalli regolari o frequenti. Sempre nei tempi antichi divenne l’equivalente ebraico di confederazione o repubblica (nel senso originale res publica) con forte intonazione democratica. Secondo Weinfeld il termine ‘edah descrive il regime precedente alla instaurazione della monarchi, come il Landesgemeinde in Svizzera, e solo nell’Israele contemporaneo il termine ha perso il suo autentico significato per diventare una espressione sociologica intenzionalmente vuota di significato politico. La letteratura documentale di ogni tempo è piena dell’uso classico; per lo più la ‘edah fu invariabilmente definita come includente tutti gli adulti maschi come partecipanti nel prendere ogni fondamentale decisione.
L’edah offrì una varietà di adattamenti dei principi federativi con una nuova essenza per ciascuna nuova era del regolamento politico ebraico. Un alto livello fu raggiunto nelle comunità ebraiche del Medio Evo, la stessa forma congregazionale, il Qahal o Qehillà è un prodotto secondario e sussidiario del vincolo del contratto e della ‘edah .
Dieci maschi ebrei, persone o famiglie, venivano insieme a formale il Qahal unendosi tra loro stessi per creare una struttura locale (all’interno della più larga struttura della Torah, legge), per condurre la loro vita religiosa politica e sociale. Il termine Qahal è usato per lo più come sinonimo della ‘edah biblica, costituitasi nella sua dimensione locale. La fondamentale eguaglianza della ‘edah non può oscurare il fatto che la tradizione politica ebraica ha una forte corrente aristocratica, non nel senso di una aristocrazia come struttura politica, ma dei rapporti a causa dei quali coloro che detennero il potere furono amministratori sia del popolo sia della legge, e scelti e selezionati sulla base di alcune qualifiche per essere amministratori, come santificazione divina ( Cohen famiglia sacerdotale), tradizione scolastica, o ricchezza. In ultima analisi perciò la tradizione politica ebraica fu basata su ciò che S.D. Goitein definì una “democrazia religiosa” usando il termine religiosa nel suo senso originale di legame, religioso.
Da tutto ciò che abbiamo detto potrebbe sembrare ovvio definire il regime politico ebraico quale un regime teocratico, ma dobbiamo controllare il senso di questa affermazione; in questi termini definisce Ephraim Shmueli la questione: “Giuseppe Flavio, creatore del termine Teocrazia dette un’impronta greca ad un concetto teologico che costituì un grave problema al centro della storia ebraica e della storia dei popoli e delle religioni che ricevettero qualche cosa dall’ebraismo. Tutti i pensatori politici, minori o maggiori, erano impigliati nel linguaggio e nel pensiero teologico, e parimenti i teologi sia che si occupassero o meno di politica compresero che la divinità e le sue manifestazioni con immagini del potere dei regimi politici. Nell’opera Antichità ebraiche-Contro Apione Giuseppe Flavio formulò il concetto di teocrazia con una formula più ampia, fondamentalmente polemica. Mosè ricercò il migliore tra tutti gli apparati legislativi e trovò la via più giusta tra le fedi del mondo e su di essa basò il regime politico. “Ecco gli uomini sono diversi enormemente gli uni dagli alti per quanto attiene le loro consuetudini e le loro leggi, in tutti i particolari. Riguardo a ciò c’è da dire: vi sono quelli che consegnarono il governo del loro Stato in mano ad un unico governante (Monarchia) che in mano di pochi (Oligarchia) che in mano della massa del popolo (Democrazia). In verità il nostro legislatore non ha avuto riguardo per nessuna di queste tre forme ma ci ordinò il governo di D-o “la teocrazia”. Con questo concetto che tradusse in lingua greca una antica idea ebraica è inserito un nuovo problema nell’indagine relativa ai fondamentali regimi del mondo. Il passo ha spiegato che cosa non è la teocrazia ma non ha spiegato sufficientemente la sua natura, quale sia precisamente la forma del suo potere. Come è noto il concetto di Teocrazia ha assunto con il passar del tempo il significato di potere dei sacerdoti della religione, Ierocrazia, che discrimina gli appartenenti ad altre religioni e vari tipi di eretici. La posizione di Flavio è conservatrice dal punto di vista politico, glorificando il potere della classe sacerdotale e del Sommo Sacerdote .
L’idea teocratica contiene però in nuce un carattere rivoluzionario che Giuseppe Flavio stesso mise in bocca ad Eliezer, l’eroe di Masada: “Ecco, abbiamo accettato ciò senza servire i Romani né altri padroni, se non unicamente D-o, poiché Egli solo è colui che governa l’uomo con verità e giustizia ed ecco è giunta l’ora che ci intima di completare con l’opera delle nostre mani il dono della nostra persona”.
Così le leggi della Toràh ci hanno ordinato: “Siate liberi mentre abbandonate il mondo terreno”. Inoltre Flavio racconta che anche coloro che scamparono alla spada dei Romani e poi giunsero ad Alessandria (d’Egitto) indussero gli Ebrei locali ad insorgere e ribellarsi “accettando solamente il giogo del Regno dei Cieli”.
Con la crisi ed il crollo dello Stato ebraico e la perdita di ogni forma di indipendenza politica ed autonomia amministrativa nel I secolo D.E.V. il pensiero politico ebraico perso l’elemento vivificatore rappresentato in gran parte dal contatto con la realtà quotidiana. La normativa costituzionale divenne una materia priva di attualità similmente alla normativa relativa ai sacrifici, provocando così l’interruzione delle sviluppo normativo. I dottori della Mishnah e del Talmud raccomandano generalmente l’astensione o l’indifferenza dalla vita politica attiva affermando “Ama il lavoro ed odia il potere (o la grandezza)” o “siate cauti con i vostri rapporto con il potere” anche se siamo in possesso di precisi dati storici che testimoniano i rapporti familiari tra i più grandi Maestri e gli imperatori, come nel caso di Rabbi Yiehudà HaNas’ì (Giuda il Santo) ed Antonino Pio.
Contemporaneamente nel settore filosofico Filone Alessandrino elaborava la presentazione delle leggi ebraiche alla luce delle teorie politiche greche. La Toràh non sarebbe altro che la costituzione dello Stato creato da Mosè.
Secondo Filone in questo Stato convivevano cittadini di vario tipo, governati da un Re, un sommo Sacerdote ed un Consiglio di Anziani ( Ziqnè ha Edàh , Senato), sotto la guida delle leggi divine, in una forma di Teocrazia diretta.
La dottrina dell’uomo
La concezione dell’uomo rappresenta in ogni filosofia la su stessa giustificazione, nel senso che definendo i suoi destinatari, sulla base di questa definizione si modella tutta la dottrina. Ciò è particolarmente importante per un pensiero politico, in cui l’uomo rappresenta necessariamente il punto di partenza, l’artefice, l’utente ed il destinatario della società politica, creata da lui e per lui, a sua misura. Per il momento è necessario dare un breve visione d’insieme per comprendere il rapporto tra Abravanel e la cultura del tempo. Molteplici sono le interpretazioni fornite dai recenti studiosi di Abravanel: c’è chi la definisce pessimista, chi stoico, chi cinico . Senza dubbio si pose fuori dello spirito rinascimentale, che particolarmente con Niccolò Cusano (1401-1464), di cui sicuramente Abravanel lesse gli scritti, difese la dignità dell’Uomo, “obiettivo e fine di ogni creatura morale attraverso cui si riflette l’attribuzione delle cose della Realtà a D-o”. Ugualmente la tradizione biblica prima e rabbinica dopo, affermò la dignità dell’Uomo creato ad immagine divina; a questo proposito rammentiamo la nota disputa tra Hillel e Shamma’i sull’opportunità della creazione dell’uomo. Abravanel riconosce che Adamo fu creato dall’uomo come un essere con perfette potenzialità spirituali e fu posto nel Giardino dell’Eden per realizzare la sua natura spirituale. Facendo uso del suo libero arbitrio scelse di rifiutare il suo destino spirituale, secondo cui aveva già pronto tutto il necessario per soddisfare i suoi bisogni naturali, per soddisfare le sue esigenze, per poter dedicare tutte le sue energie alla sua natura spirituale ed alla conoscenza di D-o. Deviò invece verso il superfluo, e da questo momento l’uomo si dedicherà allo sviluppo delle tecniche e delle arti, particolarmente l’arte edilizia, darà vita ai primi insediamenti urbani ove verrà con lo sviluppo della civiltà sempre più distolto dall’obiettivo originario. Quando eresse a simbolo della sua potenza e del suo dominio politico la torre di Babele, D-o confuse le loro favelle per evitare l’eccessivo accertamento urbano e politico. Vi è nel suo pensiero una difesa della Natura contro la Cultura e la civiltà, il progresso tecnico che per Abravanel non corrisponde ad un progresso spirituale, anzi provoca la decadenza dell’Umanità. Con la condanna dalla Cultura è conseguente anche la condanna della politica, della vita sociale e della obbligazione statale, temperata tuttavia dalla osservanza della Legge e del Patto a cui ci si è liberamente sottoposti. Secondo Finkelsherer e Baer Abravanel sarebbe fortemente influenzato dalla lettura di Seneca, da Abravanel interpretato come seguace dei Cinici piuttosto che dello stoicismo. E’ chiaro il motivo: nella cultura classica solo la filosofia cinica emise una condanna così netta dell’ordine politico e della cultura, reclamando un ritorno dell’uomo alla Natura. Abravanel però diede alla critica cinica della cultura un significato totalmente differente, dichiarando che le vere finalità dell’uomo e della vita naturale sono la conoscenza di D-o e la perfezione morale e religiosa dell’uomo. Secondo Guttman queste dottrine ascetiche che si trovano già nella prima filosofia del Giudaismo, in Bahia Ibn Paquda e per alcuni aspetti in Maimonide, dove tuttavia non erano completamente sviluppati; ora con Abravanel conducono ad una definitiva critica, una condanna senza appello della cultura. Il pensiero di Abravanel risulta così del tutto originale all’interno del Giudaismo e della filosofia religiosa ebraica.
Abravanel però non dispera: intravede la salvezza dell’uomo, della società in un avvenimento che riscatterà la Storia e l’Umanità, senza porlo tuttavia in una dimensione trascendente, ma a misura e sul modello della dimensione umana e terrena.
La dottrina messianica
Per interpretare la dottrina messianica del nostro autore useremo una frase dello stesso Abravanel a proposito della fede messianica di Rabbi Aqibà nella figura di Bar Kokhbà’: “Capiterà frequentemente ad ogni persona saggia di pensare e credere in ciò che la sua psiche anela e spera di essere”.
L’uscita dall’Eden
Lo Status Naturae
Il primo uomo tra natura ed artificialità
“E’ evidente che ogni concezione politica giuridica e le varie forme storiche di organizzazione politica-giuridica dell’umanità sono sempre condizionate da una data concezione dell’uomo e della vita, che pertanto costituisce il presupposto di ogni forma di vita organizzata.
Nella loro essenzialità tre sono le concezioni della vita e del mondo che si possono cogliere nella storia del pensiero politico-giuridico e quindi nelle varie forme storiche di organizzazione politico-giuridica, che ne sono la proiezione sul piano dell’azione pratica: da una parte una concezione pessimistica, dall’altro una ottimistica ed una terza quella realistica che considera la compresenza dialettica dell’aspetto positivo e di quello negativo delle due concezioni precedenti”.
Come si venne a formare la realtà politica dello Stato?
Per capire l’approccio di Abravanel verso questa problematica bisogna innanzitutto leggere ed interpretare il suo commento ai primi capitoli della Genesi che vedono nell’inizio della cultura un atto di ribellione e decadenza dall’antico status naturae e dalla originaria legge di natura che regolava la vita della specie umana.
“Questa ipotesi basilare era comune a tutti i teologi cristiani, dalla patriastica a Tommaso d’Aquino; Abravanel tolse però l’abito teologico a queste concezioni, tornando alla loro forma primaria ed alla formulazione originaria come aveva riscontrato in Seneca prodotto della Stoà Romana ……. “In principio D-o creò l’uomo a Sua immagine razionale, affinché si sforzasse di completare il suo spirito con il riconoscimento del suo Creatore e l’intendimento delle Sue opere…. gli fece trovare per il miglioramento della sua vita tutte le cose necessarie alla sua sopravvivenza…. tutto ciò nella realtà naturale, senza necessità di fatica o sforzo né di opera creativa umana , ma affinché i suoi generi necessari fossero pronti e reperibili sempre presso di lui , affinché non affaticasse la sua persona nella ricerca dei generi necessari al suo corpo, ma al completamento del suo spirito, per il quale fu c reato, perciò (D-o) gli comandò di accontentarsi delle cose naturali che fece trovare per le sue necessità, e non venisse attirato dietro cose superflue necessarie per le opere creative (arti o professioni) e per le cose immanenti” (Commento a Gen. II, 5). Un brano particolarmente illuminante sulla genesi della società politica è contenuto nel commento al cap. III della Genesi relativo alla prima trasgressione di Adamo, cosiddetto “peccato originale”.
Così Abravanel interpreta il divieto divino:
“Mangerai da ogni albero del Giardino”, cioè a dire io non ti vieto le cose necessarie alla tua alimentazione per il sostenimento del tuo corpo e della tua anima, da tutti gli alberi del Giardino e dall’albero della vita potrai mangiare, m non mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male, che è l’occupazione e la conoscenza delle cose immanenti, ciò che è bene per inseguirlo e ciò che è male per allontanarsene, ecco da questo albero e da questa saggezza, dato che vedrai e ti affaticherai che essa è necessariamente un piccolo giovamento, poiché mentre sarai occupato con l’albero della conoscenza, ti allontanerai dall’albero della vita, e questa è la Morte”.
Secondo Abravanel il racconto dell’albero della vita e di quello della conoscenza del bene e del male nel giardino dell’Eden fu un fatto reale, che allude alla natura dell’uomo che comprende questo mondo e lo stesso giardino allude al mondo inferiore, ove vi sono molte specie che cambiano forma, così come i vegetali del giardino.
L’albero della Vita allude alla Toràh (Legge), la capacità di acquisire dati intellettuali e conoscenze divine a cui l’uomo deve attaccarsi con la vita spirituale ed eterna, e per questo motivo ha detto che era nel giardino, per far sapere che era il Fine del giardino, che tutto ruota intorno a questo e per questo è stato creato. L’albero della conoscenza del bene e del male era per la necessità della Guida Politica… perché fu creato l’albero della conoscenza del bene e del male, cioè perché la natura ha posto nell’intelletto dell’uomo la capacità di comprendere la realtà esterna pur provocando con ciò un ostacolo (che condusse) verso il peccato?
Era bene che così come il corpo dell’uomo è materiale in tutte le sue parti e tende verso il concreto (la materialità), parimenti l’uomo nella sua potenzialità d’animo e del suo intelletto tenda tutto a cose intellettuali e speculative e non alla realtà concreta, perché il testo ha spiegato che è impossibile per l’uomo secondo la sua completezza stare nel mondo isolato, senza una Società Politica poiché da solo non potrebbe procurarsi i cibi, prepararli né tanto più occuparsi di cose intellettuali e ciò è quanto dice il testo ” Non è bene per l’uomo star solo, farò per lui un aiuto simile a lui”, ciò fu detto solo per la necessità di una donna per quanto ottiene alla procreazione ma anche al suo essere sociale per natura tanto che si unisce al suo programma. Il testo ha spiegato che era impossibile che l’uomo si unisse con gli animali domestici o selvatici o i volatili che si accomunano con i tipi di animali, ma si poteva accomunare solo con individui della sua specie umana, la donna ed i figli del prossimo. Per spiegare meglio ciò, il testo ha ricordato che D-o fece passare davanti all’uomo gli animali per vedere cosa gli succedesse, cioè quale fosse il tipo di vita che l’uomo desiderava per la sua società, se li avesse chiamati presso di lui per stare insieme con lui nella società politica o non desiderasse la loro compagnia ed il fatto che l’uomo impose dei nomi agli animali, (relativi allo) stato animalesco, ciò dimostra che così è il loro nome e la loro natura e non desiderava la loro compagnia, dato che l’uomo impose dei nomi a quegli animali, indugiò la loro natura ed in nessuno di essi trovò un aiuto simile a lui, cioè animali che lo aiutassero associandosi in uno Stato, perciò dovette costituire la sua Società composta solamente di uomini del suo tipo, e ciò è quanto fu detto allegoricamente, ed un accenno di questo si trova nel fatto che D-o fece piombare il sonno addosso all’uomo, ciò allude all’infanzia ed alla fanciullezza, quando ancora l’intelletto e le sue facoltà mentali sono assopite o nella tensione dell’uomo al desiderio sensuale ove allora senza dubbio si addormenta la capacità intellettuale e materiale. Il fatto di prendere una costola è un cenno all’uscita del liquido seminale per quanto attiene alla procreazione da cui provenne la compagnia della donna ed i figli, (ciò) che è il primo nucleo (o ente) etico, quanto dice “Questa volta è ossa delle mie ossa e carne della mia carne” finché l’uomo abbandona il padre e la madre e si congiunge con la moglie per la necessità sociale, ed alcuni uomini per la compagnia dei loro concittadini o del loro clan hanno abbandonato il Padre Celeste e la Toràh che è la loro Madre, tanto più abbandoneranno il padre e la madre materiale per seguire la loro società; scaturisce da ciò che stando in società fu necessaria una Guida secondo l’intelletto pratico, nelle cose belle e spregevoli della realtà; questo è quanto ha portato al mondo l’albero della conoscenza del bene e del male, cioè a causa della compagnia della donna, dei figli e di tutti gli appartenenti allo Stato, e riguardo a ciò (il testo) ha detto: “Ed erano ambedue nudi e non si vergognavano”, cioè se l’uomo e la donna, cioè se l’uomo fosse stato isolato e separato dalla società, non avrebbe avuto bisogno di meditare sul bene e sul male della realtà; ma vivendo in società come può essere che siano ambedue nudi, uomo e donna, tanto più gli altri, e non si vergognano? Ciò è veramente impossibile, poiché la società li porterebbe alla vergogna, poiché hanno avuto bisogno di conoscere il bene ed il male nelle cose pratiche.
Anche nelle presunte parole che Abravanel mette in bocca al serpente (I pag. 119) viene ripreso il tema del legame tra conoscenza pratica e società politica.
“Con il vostro intelletto sarete come divinità giudici, governatori di paesi che conoscono il bene ed il male”; il male che colpì l’uomo proviene dalla società e dalle idee contrastanti che si svilupparono in essa.
Abravanel contesta il Maimonide ( Morèh II), spiegando che la colpa di Adamo non fu di far deviare il suo intelletto dall’approfondimento della verità alla conoscenza del bene e del male, dalla realtà intellettuale alla realtà pratica, il suo peccato fu invece di scegliere la conoscenza sensibile-materiale malgrado conoscesse dall’origine della sua reazione cosa fosse bene e cosa fosse male, attraverso una conoscenza intellettuale-spirituale come un essere superiore, invece sprofondò nel mondo del sensibile.
Secondo Ephraim Shmueli l’autore è costretto a forzare i testi per introdurvi il suo pensiero, abbandonando la loro interpretazione letterale. Qui divengono chiari due aspetti: l’uomo è obbligato a conoscere la realtà pratica dal momento che la società è necessaria e l’intelletto pratico assolve a questa funzione. Però l’affondamento nell’esistenza empirica è una trasgressione. Perciò Adamo ed Eva vennero cacciati dal giardino dell’Eden ove vi era la benedizione divina senza sforzo o fatica per potersi dedicare alle attività intellettuali.
Strauss è d’accordo con la tesi del Baer che il criticismo della civiltà umana derivi dalla novantesima epistola di Seneca, osservando che esso è sviluppato anche nel suo commento ad Esodo XX, 25 e che la distinzione tra i tre tipi di vita (bestiale, politica e teoretica) applicata ai tre figli di Adamo è ovviamente ripresa da Aristotele .
Altra fonte possibile è Giuseppe Flavio ed i padri della Chiesa conciliando la dottrina greca con quella ebraica esposta nei primi capitoli della Genesi. Egli concepisce la vita urbana ed il potere, così come la proprietà privata come un prodotto della ribellione contro l’ordine naturale istituito da D-o; l’unica vita in accordo con la Natura è lo stato di libertà ed eguaglianza di tutti gli uomini, la proprietà comune dei beni naturali o come suggerisce in altri luoghi , la vita “nei campi” di famiglie indipendenti. Secondo Nethaniahu l’accettazione da parte di Abravanel dei Padri della Chiesa può essere spiegata con la sua filosofia della storia. Cosa che è più strana, egli sembra aver accettato anche la concezione di Aristotele.
Da un lato egli afferma che l’uomo allo stato originario non aveva bisogno non aveva bisogno dei servizi che gli offre la Nazione e che la crescita della città ed il potere che si sviluppò è un risultato della deviazione dell’uomo dalla sua natura originaria. Da un lato asserisce come Tommaso d’Aquino che l’uomo è per natura un animale politico e che la mutua cooperazione rappresentata dallo Stato è essenziale per l’esistenza dell’uomo e per il benessere. Egli ovviamente ha cercato di eliminare l’opposizione delle due dottrine.
I Padri della Chiesa pur considerando il governo un risultato della corruzione della natura dell’uomo, sostenevano che esso sia benefico per l’uomo nella ua natura pervertita. La formula di Abravanel secondo Nethaniahu sarebbe molto simile a quest’ultima anche se non identica.
Finkelscherer sostiene che Abravanel non ebbe un’unica concezione dell’origine della società e mancò di conseguenzialità e sistematicità.
“L’origine della società umana, l’intera cultura esteriore della comunità, così come lo Stato concepiti come superflui per non dire peccaminose. L’idea che Nimrod fosse fondatore del regno era diffusa non solo fra i teologi cristiani come Agostino ( De Civitate Dei , XVI, 3, Migne, Pl , XLI, 479) ma anche in autori ebrei, a partire dal Pirqe de Rabbi Eliezer (XXIV, 11) al Qimhi fino al Nahmanide. Il peccato della “generazione della divisione” fu di voler divenire da semplice “gente rurale” uomini politici, Polismenschen. Riguardo la opposizione tra la dottrina aristotelica dell’uomo
e quella stoico-epicurea, in parte fatta propria dalla patristica, tali dottrine di critica della cultura hanno una matrice tutt’altro che religiosa. Fondamentale sarebbe il romanzo (laico) di Ibn Tufail Havy Ben Yaqdhan che secondo il Guttmann gli era ben noto.
Baer sostiene invece la fonte cinica attraverso la lettura di Seneca. Abravanel si avvicina molto all’idea contrastata da Cicerone ( De Officiis , I, 44 par. 158): Qualora gli uomini ricevino tutto ciò di cui hanno bisogno attraverso un miracolo, avrebbero dovuto dedicarsi alla Scienza (in Abravanel: perfezionamento dell’anima) senza fondare la comunità statale. C’è però un’antinomia già espressa nel pensiero cristiano: la tradizione classica vede lo Stato come organismo ed il singolo come parte del tutto; se però il fine ultimo è di coltivare l’anima individuale, allora non c’è più alcuna necessità o alcun fine nello Stato o nella società umana. L’antinomia venne risolta anche da Tommaso, concependo lo Stato come una istituzione necessaria a causa del peccato originale. Ora anche Abravanel vide nella trasgressione dell’albero della conoscenza una diminutio nella conoscenza di D-o e nella perfezione individuale. La colpa della generazione della divisione sarebbe di aver mancato a quel fine, volgendosi alla comunità politica priva di fini. E’ interessante notare che Yizhaq Arama (nell’opera Aqedath Yizhaq ) sostenne la tesi ottimista; la società politica, mezzo per il perfezionamento dell’uomo, sarebbe divenuta oggi fine a se stessa e la confusione delle lingue evita questo errore in futuro.
Finkelscherer sostiene che Abravanel non trasse le conseguenze logiche delle premesse da lui poste; contraddittoria è anche la figura di Abele, primo creatore del potere politico. La fonte di Abravanel deve essere stata di natura religiosa, i Padri della Chiesa e l’antico apocrifo Libro dei Giubilei.
Caino ed Abele: sviluppo della dicotomia
Dopo l’allontanamento dall’Eden vi fu una continua degradazione dell’uomo, particolarmente nelle scelte operate da Caino ed Abele. Caino “scelse come suo dominio il lavoro del terreno per inseguire le cose materiali ed i beni apparenti” seguendo l’opinione di Giuseppe Flavio mentre: “Essendo Abele di animo grande, tendenzialmente proteso verso la gloria effimera ed il potere, divenne pastore, guida e governante di animali, cosa che è più onorevole dei vegetali (di Caino); perciò era considerato come un grande principe loro guida, facendoli pascolare tra i campi d’erba, conducendoli verso acque tranquille come un buon pastore, perciò fu chiamato Hebhel (Soffio) poiché gli onori ed i poteri sono cose effimere che inducono in errore…
Però all’infuori di quanto è stato detto, il governo e l’onore sono una cosa buona di per sé, fino al punto che D-o fu chiamato pastore d’Israele, e così i Patriarchi ed il Re David; tutti in futuro saranno pastori e non agricoltori. D-o vide che l’intenzione di Abele era di inseguire la virtù e l’intelletto, anche perché l’onore allontana l’uomo da ogni vizio, perciò Abele era onorato di per sé, ministro e giudice per la sua attività, guida.
Caino era invece agricoltore e la sua natura tendeva alla materialità che D-o aveva maledetto; egli cercava attività e cose casuali, come se si fosse reso schiavo della terra e dei beni animali e non dominatore .
Il testo dice: “Se migliorerai ti innalzerai”, cioè se farai il bene e ciò che è retto agli occhi del Signore, avrai maggior potenza e maggior forza più di Abele, tuo fratello, e con ciò fece sapere che anche Abele non era del tutto completo poiché non si dedicava alla vita intellettuale speculativa ma alla vita politica pratica .
Ecco quindi che viene spiegata la supremazia di Abele su Caino, sia dl punto di vista dell’oggetto della loro attività, dal momento che Caino si occupava di cose artificiali, avendo (a disposizione) tutto il giorno per seminare squarciando e distruggendo la terra, mentre Abele guidava le cose secondo Natura, senza attività pratica. Caino era sollecitato dalla ricchezza senza porre attenzione all’onore, mentre Abele fuggiva da ogni manchevolezza e cercava ogni virtù, perciò D-o ascoltava Abele, si rivolse a lui, controllando la sua onorevole qualità di uomo libero eccelso in tutti i suoi comportamenti e verso la sua offerta che era di un animale vivo sensibile, nato naturalmente senza nessuna attività. Invece non si rivolse verso Caino a causa della sua malvagia attività né verso la sua offerta . Anche Abele non era integro come dovuto, poiché non tendeva alla vita razionale ed intellettuale, ma alla vita politica realistica. Il vero ideale lo raggiunse solo ?et che era ad immagine e somiglianza razionale dell’uomo, attirato dalla razionalità e dalla perfezione spirituale vera ed eterna .
Abravanel termina l’immagine dei tre prototipi della specie umana: “e già i politici hanno ricordato che la vita dell’uomo è realmente di tre tipi: la vita animale, come gli animali e gli agricoltori; la vita politica secondo la qualità degli uomini che si occupano della condizione dell’uomo stesso, la sua casa e degli uomini del suo Stato ritenendo sufficiente la rettitudine e la giustizia ed un diritto retto, ed appartengono a questa categoria i Re ed i consiglieri dei paesi, i giudici ed i militari. c’è poi la Vita razionale, che è secondo l’indagine razionale e la ricerca politica”.
Queste tre tendenze della specie umana sono rappresentate per mezzo di Caino, Abele e ?et. Perciò “derivarono (da essi) tutte le categorie (classi) degli uomini del mondo. Una classe verrà attirata dall’opinione di Caino, che la coltivazione del terreno ed il cibarsi dei soi frutti sia la base di tutto ed appartengono a questa specie le masse della plebe: artigiani ed agricoltori e questa classe è gelosa dei leaders politici e pensa di ucciderli e molte volte li uccise, come fece Caino con Abele. L’altra classe è attirata dall’opinione di Abele e pensa che la cosa fondamentale sia il potere e l’onore e si esporranno al pericolo per queste cose come fece Abele , e qui, aggiunge l’Umanista (come fa notare Baer) “appartenevano a questa classe gli anziani reggenti romani, i senatori, i consiglieri e i re che vissero in ogni generazione, ed i Parnasin , preposti al popolo quando se ne occupano in nome del Cielo”. Un’altra categoria è attirata dall’opinione di ?et e pensa che la cosa fondamentale sia il servizio divino .
La Torre di Babele
La confusione delle lingue
Caino continuò a far sviluppare la civiltà per il male del genere umano, fino ad arrivare al peccato della “generazione della divisione” delle lingue. Affrontiamo subito il testo di Abravanel nel suo commento a Genesi XI.
“Dirò che la spiegazione più plausibile e più logica del peccato della “generazione della divisione” (delle lingue) la loro colpa è di essere inciampati (in ciò) ove già peccò il nostro progenitore, suo figlio Caino e la sua discendenza. Se l’uomo così come D-o lo ha creato a Sua immagine possiede un’anima speculativa in modo che perfezioni la sua anima con la conoscenza del suo Creatore, la conoscenza delle Sue opere, perciò predispose tutte le cose necessarie per la sua vita dal cibo alle bevande, la frutta, gli alberi del giardino, le acque dei fiumi, tutto ciò nella realtà naturale, senza assoluto bisogno di attività umana affinché non si affaticasse nella loro ricerca, ma solo nelle conoscenze divine, per cui fu creato e l’uomo peccò per non accontentarsi delle cose naturali che D-o aveva posto di fronte a lui e si protese verso i desideri, le attività pratiche, e la sua trasgressione provocò che venisse cacciato dal Giardino dell’Eden ad Oriente, posto del suo riposo, dimora, si saziasse delle vergogna di cui la terra fu maledetta a causa sua e non gli bastarono le cose naturali, e dal momento che scelse il superfluo ebbe bisogno di duri lavori, così come scrisse (Maionide) nel Morèh . In verità anche Caino scelse di occuparsi di cose artificiali, perciò divenne agricoltore; tutto il giorno arava per seminare, apriva solchi tra la sua terra ed il suo intelletto fu sottomesso alla parte animale e lo servì, perciò divenne agricoltore, mentre al contrario Abele divenne pastore, fu proteso verso le cose naturali e si accontentò di esse, dato che non c’è lavoro fisico nella pastorizia, ma solamente di condurli verso ciò che è naturale, perciò i patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, le tribù, Mosè, David, nostri progenitori erano pastori e non agricoltori, ed anche Noè malgrado avesse peccato rivolgendosi al vino, il testo non lo chiama “lavoratore della terra” ma “Uomo della terra”, cioè padrone e generante di essa, ma Caino, a causa della sottomissione del suo intelletto alla sua parte animale nei lavori fisici venne chiamato “Lavoratore della terra”, perciò costruì una città e la chiamò Hanokh , poiché educava i suoi discendenti nell’attività concernenti la costruzione di città e l’agglomerato sociale, perciò i discendenti di Caino seguirono tutti l’esempio del loro progenitore di tendere alle attività superflue, perciò Yubhal fu il progenitore dei suonatori di cetra e piffero, Tubhal Qayin progenitore degli affilatori di rame e di ferro, ed anche Yubhal sforzandosi con il suo gregge già vi aveva mischiato degli elementi artificiali che non c’erano prima, perciò fu chiamato progenitore di tutti coloro che risiedono nella tenda con un gregge (cioè tra i pastori) ed i figli di Caino inseguendo tutti le cose superflue, violenza e rapina, aumentarono (di numero) nel popolo, finché a causa di ciò vennero puniti con il diluvio e cancellati dalla faccia della terra e così il peccato della generazione della divisione assomiglia a quello di Adamo, di Caino e dei suoi discendenti, poiché pur avendo abbondanza di beni naturali necessari al sostentamento, dal Signore e dal Cielo, essendo liberi dal lavoro e da ogni sforzo e pronti ad occuparsi del perfezionamento della loro anima, non si placò la loro coscienza con ciò che dispose il creatore con la Sua larga generosità naturale, ma tentarono di intraprendere e porre ogni loro pensiero nell’arte edilizia di costruzione delle città che comprende molti lavori, e di una torre in mezzo ad essi per riunirsi per diventare Mediniim Politici invece di essere residenti agresti, pensando che il loro fine loro destinato fosse l’agglomerazione sociale per far tendere alla cooperazione ed alla Società , dato che questo è il più alto dei fini dell’umanità con tutto quello che deriva da ciò dai nomi, i titoli, le cariche, gli onori effimeri ed il desiderio di raccogliere beni, violenza, furti, spargimenti di sangue che ne derivano, tutte cose che non si trovavano mentre stavano nei campi, ognuno per conto suo, come disse Salomone ( Ecclesiaste , VII) D-o fece l’uomo retto e loro fecero molti calcoli essendo tutto ciò superfluo, non naturale,. ciò che impedisce ed ostacola l’uomo dal raggiungere la sua vera perfezione, perciò questi trasgressori vennero puniti nelle loro persone, D-o confuse loro le lingue e li disperse in tutta la Terra, così come cacciò Adamo dall’Eden, cacciò Caino dalla terra ove risiedeva ed i suoi discendenti li cacciò dal mondo con il diluvio, dato che la loro colpa era uguale, nel porre il loro fine per ultimo nell’albero della conoscenza ed abbandonare l’albero della vita, che è il vero fine, però la loro punizione doveva anche assomigliare…. ed ecco che Cam ed i suoi discendenti furono ribelli, indussero in tentazione i loro contemporanei di seguire le arti superflue nella costruzione delle città e della torre, cercando per loro Potere, titoli, sugli altri uomini, e così dissero i nostri Maestri ( Yalquth Genesi , 62) “Dissero l’uno all’altro: impastiamo mattoni” chi lo disse, a chi?
Kush lo disse all’Egitto, Canaàn lo disse a Put , essi sono i quattro figli di Cam, così come i figli di Caino, spinsero tutto il mondo ad inseguire le arti superflue, i desideri spregevoli, la violenza il furto ed a causa di ciò vennero il diluvio. Così Cam ed i suoi discendenti traviarono tutto il genere umano ella costruzione della città e della torre, perciò vennero puniti con la confusione dei loro linguaggi, divisione e dispersione sulla terra, poiché Cam tra i figli di Noè aveva assunto il ruolo di Caino tra i figli di Abramo e la confusione delle lingue al posto del diluvio. Dal momento che la trasgressione del diluvio era molto grave, poiché già erano stati messi da loro in atto violenza, furto e corruzione dei costumi, vennero puniti con la distruzione; invece la generazione della divisione, dal momento che la loro colpa ancora non era arrivata a quel livello e non era stato messo ancora in atto nulla di quella corruzione, ma solamente iniziarono a costruire la città che è la cosa da cui derivano certamente (le corruzioni), perciò la loro punizione fu solo che D-o confuse i linguaggi di tutta la terra e li disperse da quel punto, a somiglianza della punizione di Adamo che venne cacciato dall’Eden, e la punizione si adattava bene, secondo il contrappasso, loro prima di ciò erano un unico popolo sulla Terra con un’unità naturale avendo un’unica lingua ed un unico comportamento naturale , comune a tutti, e non si accontentarono di ciò, ma vollero costituire una società ed un’unità artificiale, allora venne tolta da loro l’unità naturale che avevano prima, e ciò venne realizzato attraverso la confusione delle loro lingue, dato che la comunanza di lingua è motivo di associazione ed effetto mentre la diversità di linguaggio genera dispersione divisione, quindi non poterono raggiungere quella società politica che pensavano di realizzare in quella città, fino ad essere dispersi da là…
Non avrai però la possibilità di dire che se quelle attività erano superflue e così anche la società politica nello Stato e nella Città era una cosa negativa agli occhi del Signore coma mai D-o non le ha vietate ad Israele dopo di ciò? Ma la risposta a ciò è chiara, dal momento che D-o aveva già visto che Adamo ed i suoi discendenti erano sprofondati nei desideri di attività superflue ed erano affondate in esse, non le vietò al Suo popolo, poiché vide che non le avrebbe tolte da loro, essendo anche loro di carne, ma mise in guardia i figli di Israele affinché si comportassero in quelle cose superficiali con rettitudine, nella maniera adatta e non spregevole, e ciò è simile al problema del re, che agli occhi di D-o era una cosa spregevole, ma quando vide che in tutti i casi lo avrebbero scelto, ordinò che la sua scelta venisse compiuta attraverso i suoi profeti affinché sia (uno) tra i loro fratelli, così altri precetti relativi alla monarchia, come verrà spiegato a suo luogo. Però vedrai che finché i figli d’Israele vagarono nel deserto secondo la guida divina, D-o soddisfece le loro necessità solamente con beni naturali: la manna, le quaglie fino ai vestiti ed i calzari, le nuvole di gloria e non con cose artificiali, come è scritto: “il tuo vestito non si consumò sopra di te e la tua gamba non si gonfiò”, mentre quando arrivarono alla terra abitata, li lasciò alla loro natura con tutti gli usi delle loro attività pratiche “.
La costruzione di una città, ci ricorda il Baer, è il prodotto dell’istinto cattivo ma non è però addirittura opera di Satana come in Agostino la fonte diretta di Abravanel sarebbe ancora una volta Seneca .
Nel mondo naturale dominava la lingua universale oggettiva (chiaramente l’ebraico) mentre nel mondo artificiale si diffusero i linguaggi basati su convenzioni reciproche, “inventato”. Le radici di questa artificialità sono da un lato l’intelletto, che naturalmente fa grandi calcoli relativi con separatismi artificiali, d’altro lato la volontà politica di ingrandirsi e dominare tutto il mondo abitato; l’uomo rurale, libero che esisteva prima della generazione della separazione (delle lingue) era contrario all’agglomerazione statale. ” La natura ha fatto tutti gli uomini liberi ed uguali” affermava Abravanel duecentosessanta anni prima di Rousseau nel Contratto Sociale senza voler operare d’altro canto un collegamento diretto tra i due pensatori.
Dal momento che la natura fece gli uomini liberi ed uguali per origine, all’inizio vi era la fratellanza e la proprietà era in comune, mentre quando deviarono creando nuove attività nella costruzione di una città e della torre di Babele, si allontanarono dalla fratellanza, i beni e le proprietà divennero privati, arrivarono allo scambio per appartarsi, a causa del loro desiderio di prendere ogni cosa e porla in relazione particolare con se stessi e dire: “Il mio è mio ed il tuo e tuo” , tanto che a causa di ciò si separarono l’uno dall’altro.
Così vennero a contendere e a farsi guerra, il simbolo dell’artificialità è la spada “dal momento che la spada è un oggetto artificiale fatto per distruggere le cose naturali”. Abravanel si accorge delle difficoltà testuali relativamente al motivo fornito per la colpa della generazione del diluvio, ma omesso per la generazione della divisione delle lingue. Il peccato della generazione del diluvio è la corruzione, il furto, la violenza e ciò si trova in misura maggiore o minore in tutte le generazioni, perciò il testo fu obbligato a fornire il motivo delle loro trasgressioni per dare un avvertimento ed un insegnamento alle generazioni successive, affinché non si rendano colpevoli di ciò. Invece la trasgressione della generazione della divisione che consistette nella scelta di attività superflue e nella urbanizzazione si prolunga per tutte le generazioni come disse (il testo) cominciarono a fare “e dal momento che divenne per tutti una cosa lecita, non vi sarebbe stato alcun giovamento con un avvertimento relativo a ciò, e per questo motivo il testo non ha spiegato la loro trasgressione”.
E’ strana qui la logica. Secondo questa risposta evasiva, nell’evidente prolissità del testo si riconosce che egli condannava similmente alle violenze e rapine tutto l’ordinamento di questo mondo. Secondo Ephraim Shmueli Abravanel ricevette questa dottrina, (che non ha nulla di ebraico), sicuramente dall’esterno. C’è una fusione tra le idee della Scolastica ed il fondamento della teoria agostiniana .
Può essere che abbia ricevuto l’influsso dei suoi auctores romani o dalla accentuazione rinascimentale dei “diritti originari dell’uomo”. I motivi dei Cainiti e degli Stoici vennero di nuovo alla ribalta in questo periodo, si rafforzavano le voci che invocavano la Riforma, la restituzione della corona della dignità dell’uomo alla sua originaria antichità al tempo della sua perfezione, prima del peccato originale.
Anche i critici della civiltà urbana, della scuola degli “spirituali” nei loro ordini e monasteri ed anche gli Umanisti, critici della Chiesa, esaltarono lo Status Naturae e la società naturale. Il bene privato è considerato anche dalla Chiesa del Medioevo come un sovrappiù, qualcosa di posteriore alla natura dell’uomo, in una scelta di miseria. Otto anni dopo la morte di Abravanel veniva pubblicata la Utopia di Tommaso Moro. La critica della civiltà in bocca ad Abravanel, tesoriere delle casse statali e politico legato all’ordine di questo mondo è spiegata da Ephraim Shmueli, sulle tracce di Heinemann come la protesta contro la vita attiva che vanifica l’intenzione divina, come espressione della lacerazione che vi fu tra la sua vita e la sua opera.
Ephraim Shmueli tenta di conciliare le opposte tesi sulle fonti della dottrina di Abravanel, privilegiando tuttavia alla cultura classica l’influenza dello spirito cattolico e la visione della Renovatio delle sette ereticali largamente influenzò gli Umanisti .
Secondo Baer una parte dell’odio per la civiltà nutrito così fortemente da Abravanel deriverebbe da una interpretazione semplicistica, compiuta dallo stesso Abravanel, della tradizione ebraica, particolarmente espresso nell’opera Nahalath Abhoth (L’eredità dei Padri) commentando il passo “Ama il lavoro, odia la grandezza e non farti amico dei potenti” . Secondo ciò ogni incarico ed ogni potere sia nella società ebraica che nell’atrio dei Padri dei re dei Gentili è una delle cose da cui l’uomo deve allontanarsi, e chi non fa così alla fine trasgredirà tutti e dieci i Comandamenti; è meglio per l’uomo vivere con modestia, appartato, alimentandosi del prodotto delle sue mani; e come furono belle le parole del Re Salomone riguardo a ciò ( Proverbi XXVII; 23-25). “Abbi cura diligente del tuo gregge e porrai la tua attenzione verso le mandrie, poiché la forza non è eterna né il potere perenne, spunta il fieno, si raccoglie la verdura e si raccolgono le erbe dei monti, e ti resteranno i prodotti di lana dal gregge…. e non avrai bisogno dell’organizzazione statale, ma quando vorrai un vestito da indossare non andrai dal mercante della città ad acquistarlo, poiché farai lana per i tuoi abiti dalla lana degli agnelli, mentre la grandezza ed il potere in città non è così, ma provoca sempre liti.
Qui c’è secondo Baer non l’immagine semplificata ma il lamento nostalgico del cortigiano e dell’Umanista che ha letto a quanto pare le Bucoliche di Virgilio. Secondo noi non si tratta di puro afflato lirico, ma c’è un supporto di notevole spessore filosofico.
Abbiamo quindi visto come Abravanel consideri l’esistenza delle Nazioni, distinte una dall’altra come un prodotto di un peccato, parimenti all’esistenza della città. Tuttavia, come giustamente fa notare Strauss , il criticismo relativo all’origine della vita politica non implica necessariamente la richiesta di una vita politica naturale negando la funzione e la giustificazione dell’obbligazione politica e dello Stato. Come abbiamo visto lo Stato naturale ha in Abravanel delle connotazioni miracolistiche quali le condizioni del popolo d’Israele nel deserto; secondo Strauss l’afflato bucolico di Abravanel proverebbe, oltre che da Seneca a Virgilio, dall’aforisma di Geremia II, 2 “Ricordo la grazia della tua giovinezza, l’amore delle tue nozze, quando mi seguisti nel deserto, una terra non seminata” .
Nella tradizione biblica Abravanel trova un supporto per esporre le sue teorie sulla genesi del potere dello Stato anche forzando il significato letterale del testo per fornire ad esso un’attualità alla luce delle idee predominanti nella cultura del suo tempo che per elaborare una propria riflessione filosofico-politica che senza dubbio rappresentò un caso unico nella cultura ebraica; la corrente dello Status Naturae fornirà la materia prima per quelle conclusioni relative al fondamento dell’obbligo politico a cui Abravanel non approdò, forse per mancanza di impulso ideologico; non è scientificamente provato e corretto trarre autonomamente conclusioni non tratte dall’autore stesso facendo violenza al suo pensiero, magari per considerarlo un antecedente di Hobbes o Rousseau. Bisogna invece interpretare Abravanel con i suoi stessi parametri, collezionando vari aspetti del suo pensiero politico esposto in diverse occasioni; perciò l’origine artificiale del potere e dell’obbligazione statale non implica necessariamente come abbiamo visto la su condanna e la privazione della sua giustificazione allo stato attuale della realtà. Tale visione fondamentalmente pessimistica verrà costretta dalla dottrina politica del Patto tra D-o ed il Suo popolo come modello di ogni obbligazione personale “come dalla soluzione repubblicana proposta per la Costituzione ideale”. Come Abele, con le sue contraddizioni di uomo dedicato ad un’attività naturale tuttavia simbolo della tendenza alla guida politica, viene sopraffatto dalla violenza dell’uomo nello stesso tempo animale ed artificiale, così Abravanel uomo certamente contraddittorio pratico della politica viene sopraffatto dal corso implacabilmente crudele degli eventi storico-politici speso guidati da esseri pronti a sacrificare i valori fondamentali dell’umanità per l’affermazione personale, rivelando la loro natura bestiale o nella sete feroce di potere, nel folle tentativo di rafforzare la materialità dell’obbligazione politica senza rendersi conto che così facendo negano qualunque altro elemento normativo o sociale che può realmente contribuire alla stabilità dello Stato.
Il problema statuale nella Bibbia
L’antico Oriente non aveva nessuna parola corrispondente a Stato ed il primo termine, l’accadico Sharrutu significa “monarchia” . Anche la Bibbia conosce fin dai tempi di Abramo solo la forma monarchica. Sarebbe impossibile tentare di riassumere le varie soluzioni proposte al problema statuale biblico da critici, storici, filosofi , ma non possiamo accettare la tesi ” Regio-centrica “. Il Levy ci fa giustamente osservare che il filone biblico rileva continuamente il confronto tra il popolo d’Israele e le altre Nazioni. Questo separatismo non può essere compreso che sul piano delle idee, delle credenze, dei costumi. La Bibbia mette in evidenza la disparità dal punto di vista ideologico tra Israele e le nazioni che si rileva particolarmente nel carattere evolutivo delle idee e delle credenze. Gli altri popoli sono presentati sotto i medesimi tratti da un luogo all’altro del testo biblico, con le medesime divinità, la medesima idolatria ed il medesimo regime politico. La narrazione biblica sottolinea il carattere statico delle altre civiltà.
Il Faraone divinizzato e gonfio d’orgoglio appare nei rapporti con Abramo, Mosè, Isaia ed Ezechiele sempre con le stesse caratteristiche. La Bibbia prende in esame solo la figura del monarca, ignorando l’amministrazione reale egiziana una delle più perfezionate nel Bacino Mediterraneo. Sembra ignorare che PR-Aa vuol dire “grande casa” anche se appaiono i vari dignitari di corte ed amministratori ognuno con il suo compito specifico dal capo dei coppieri a quello dei panettieri, al macellaio. Lo stesso termine Faraone non è accompagnato da nome proprio. Le città cananee al tempo di El-Amarna avevano imitato il modello egiziano, così Abdi-Hepa Gerusalemme prima delle invasioni del XIII secolo che segnarono la fine delle invasioni e della dominazione egiziana.
Tutti i popoli dell’orizzonte politico biblico ci appaiono con il re alla loro testa, dalle piccole città in terra di Canaan ai grandi regni del Nord. Giosuè combatterà contro altre quaranta sovranità. Secondo Levy la Bibbia non assegna a queste città alcuna evoluzione politica, sociale o religiosa. Tuttavia dobbiamo obiettare che il libro dei Giudici ci testimonia un’altra importante costituzione politica, quella filistea, costituita da una lega di cinque città con a capo dei Seranim ; qualcuno vi ha voluto vedere l’assonanza con il nome greco t…………… interpretandoli come governi dispotici sul modello spartano. Tuttavia negli altri popoli domina la stabilità politica costituzionale, malgrado la forte instabilità internazionale. Invece all’interno del popolo ebraico l’idea statuale è in continua evoluzione; i patriarchi non avrebbero mai pensato di esercitare un potere monarchico sul loro clan. Esaù è il padre di una moltitudine di capi ( ‘Alluph ) “prima che regnasse un re sui figli di Israele” .
Quando Giuseppe narrerà ai fratelli i suoi sogni di gloria, verrà venduto come schiavo. Suo padre sul letto di morte concederà il potere politico a Jehudàh e non a lui. Quando il clan diverrà attraverso dodici tribù un vero e proprio popolo, il potere sarà esercitato da un capo e dall’Assemblea degli Anziani. Questi organi sono essenzialmente di natura giurisdizionale ed amministrativa. La vera guida politica, le scelte fondamentali, secondo il testo biblico, il re, il capo, può e deve essere solamente D-o.
Ciò non esclude che sul piano storico il potere venga effettivamente esercitato da personaggi “carismatici”, quali Mosè, Giosuè, i Giudici. L’aspetto carismatico della guida politica ebraica fu sottolineata perfino da Weber che parla di “abitudinarietà del carisma” .
In una tale situazione parlare solo di legittimità “carismatica”, di processo carismatico, di cui la divinizzazione dei dittatori è un caso tipico, ma non di legittimità del potere politico del governo inteso come possibilità concreta effettiva che i governati esprimono liberamente i loro giudizi di valore, ossia il loro attivo libero consenso o dissenso, il loro attivo, libero accordo o disaccordo nei confronti dei fini delle scelte delle decisioni dei governanti. Invece il potere è di carattere carismatico quando poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro e alla forza eroica o al valore esemplare di una persona e degli ordinamenti rivelati o creati da essa .
Abravanel risolve il problema statuale non nel senso monarchico, contrariamente ai suoi Auctores Maimonide ed Aristotele, ma segue attraverso Giuseppe Flavio la tradizione ebraica più genuina, che vede come regime ideale non una ierocrazia orientaleggiante, ma una Teocrazia, senza cadere tuttavia nell’assolutizzazione del Regnum Dei.
Volse l’idea del regno divino sulla terra verso l’aspetto positivo dell’utopia politica, colorandosi di sfumature teocratiche delle sette eretico-messianiche e della stessa dottrina della Chiesa Cattolica, che affermò di trarre il suo sistema dal testo biblico. Bisogna sottolineare che la grande differenza tra la Bibbia e la letteratura legislativa negli Stati d’Oriente ed in Grecia è che la prima non è e non vuole essere un diritto specificatamente e esclusivamente giuridico e politico. Come negli Stati antichi, anche in Israele l’origine del potere era ritenuta sovrumana: D-o è colui che fa regnare i sovrani. Dato che il concetto di Divinità ha subito nella Bibbia un processo di elaborazione e spiritualizzazione, anche lo Stato ed i suoi istituti acquistarono caratteristiche differenti da quelli degli Stati dell’antichità. La Toràh conosce molto bene la struttura politica egiziana, “la pentola di ferro” e la “casa di schiavitù” non solo per gli Ebrei stranieri, ma anche per i cittadini residenti, un regime basato sulla nuda forza, la forza del re sacralizzato come quello delle divinità o del figlio della divinità.
Anche in Israele la guida politica o il re è l’Unto del Signore, “l’Unto del D-o di Giacobbe” (II Sam. XXIII, 1) ed il suo trono “è il trono di D-o” (I Cronache XXIX, 23) come a dire che egli governa al posto di D-o, ed i profeti giustamente temono che il regno umano possa ridurre il governo di D-o ed il culto regale paragonato al culto divino, come è accennato nelle parole di Zephaniah (1,5) “coloro che si inchinano giurando nel Signore e nel loro Re”. Tuttavia la descrizione del re, anche nei paesi più “realisti” non è vicina mai all’immagine propria della divinità. Il problema dello Stato ebraico è così un problema particolare nella storia dei regimi politici, la ricerca di un Potere che includa valori , in pratica la stessa ricerca della filosofia della politica. Ciò che conta non è la forma costituzionale realizzata nel piano storico, ma il fondamento del potere e dell’obbligazione politica. Tutta la tradizione politica ebraica è concorde nell’affermare come base di tale obbligazione il libero consenso dell’uomo, creato ad immagine d D-o e proteso all’imitazione delle Sue Virtù.
Il potere che ha la sua legittimazione in un’entità sovrannaturale non assume però delle connotazioni conservatrici bensì garantisce contro ogni abuso di potere che possa mettere in pericolo le libertà, sia civile che politica, e le strutture statali costituzionali. Per questo motivo quindi l’esperienza politica d’Israele è concepita appunto come una dinamica continua ricerca di un valore stabile che giustifichi e legittimi l’organizzazione statuale e l’obbligazione politica.
Sin dalle origini della monarchia il testo biblico svela il forte sentimento antimonarchico assunto da Samuele, quale rappresentante dell’istituto profetico, nei confronti della richiesta popolare.
Il problema esegetico che si pone agli occhi del lettore è appunto conciliare tal passo (I Sam, VIII) con quello che prevede espressamente l’istituzione monarchica (Deut. XVII). Abravanel si trova quindi di fronte ad innumerevoli soluzioni interpretative del passo che non solo legittimerebbero il potere monarchico, ma secondo alcune correnti già presenti nel Talmud (9) imporrebbero giuridicamente l’istituzione della monarchia almeno come norma costituzionale programmatica. Lévy riassunse molto efficacemente le soluzioni proposte dalla tradizione orale ed esegetica nel corso dei secoli, perciò rimandiamo a quella sede (10), Abravanel tratta la questione sia nel commento a Deut. XVII,14 che in I Sam., VIII in termini non solo ideologicamente identici, ma gran parte del saggio è comune ai due commenti; mentre il Commento a Samuele è del 1483, la revisione del Commento del Deuteronomio avviene nel 1505 a Venezia.
Nel 1505 Abravanel interpreta il precetto del re come mera facoltà a causa dell’istinto cattivo, per eliminare l’arbitrio nella scelta, finché “Ti porrai un re che sceglierà il Signore tuo Dio, in mezzo ai tuoi fratelli”. (11) Abravanel viene quindi ad assumere un ruolo centrale nel pensiero politico, in quanto il suo lungo saggio (12) è senza dubbio la teorizzazione più completa del pensiero antimonarchico all’interno della tradizione politico ebraica o comunque legata alla Bibbia. Se rientrava nello spirito umanista l’ammirazione per la Repubblica Romana e l’aspra polemica contro la forma monarchica, lo spirito di venerazione che Abravanel nutrì per la Serenissima ha delle radici ben più profonde.
È veramente paradossale che il fidato consigliere di tanti sovrani, l’uomo cresciuto all’ombra delle corti più prestigiose d’Europa, rifiutasse così categoricamente la sua matrice politica e culturale per volgere l’attenzione ad un sistema statuale che aveva già esaurito la fase ascendente della parabola, per avviarsi irrimediabilmente dalla cristallizzazione verso la morte.
L’elemento fondamentale di tale sistema costituzionale è identificato da Abravanel nella garanzia della legittimità dell’esercizio politico, cioè la partecipazione dei cittadini al processo di formazione della volontà politica dello Stato e dell’esercizio della giustizia.
Mentre Ibn ‘Ezrà vede nel sistema mosaico un prototipo del sistema feudale, Abravanel che visse in epoca differente vide in esso il prototipo del sistema veneziano.
“La grande città di Venezia, la principessa tra le nazioni” questa espressione che appare ripetutamente (13) negli scritti di Abravanel rivela tutta la sua ammirazione per la Repubblica veneta, tipica della cultura rinascimentale.
Gli umanisti videro il segreto della floridezza economica e commerciale di Venezia nella qualità della vita delle città nel suo ordinamento costituzionale stabile ed equilibrato governo “senza un re e senza un governo ereditario”(14), molto simile alle costituzioni repubblicane di Roma e della Grecia. Abravanel visse a Venezia dal 1503 ed ebbe quindi la possibilità diretta di vedere con i propri occhi la saldezza delle istituzioni veneziane, nella catastrofe politica che travolgeva l’Italia. Secondo Nethaniahu questi avvenimenti biografici furono responsabili della modifica ideologica sulla costituzione ideale, così come era stata tracciata nel suo commento al Deuteronomio iniziato nel 1493 (15), mentre la redazione del brano ora esaminato va collocata intorno al 1505. Abravanel usò la costituzione veneziana come modello del “governo umano”. Tuttavia non lo copiò esattamente.
Il divario più importante dalla cornice della costituzione veneziana è la sua insistenza sopra l’elezione popolare dei quattro concili. Venezia non fu una repubblica democratica nel senso moderno della parola, ma piuttosto aristocratico – oligarchico, dal momento che il Gran Consiglio eleggeva le altre Assemblee, ma nessuno eleggeva il Gran Consiglio. “Mosè disse al popolo che loro stessi avrebbero nominato i capi”. È significativo che in questa interpretazione Abravanel si muove in senso esattamente inverso dell’Esodo (XVIII) che sta commentando, anzi preferisce abbandonarlo per seguire la versione deuteronomica (I, 13) (16).
Quando a Venezia compose il Commento all’Esodo sembra sostituire al modello tribunalizio quello di quattro consigli (Maiore, Pregadi, Quaranta, Dieci) invece secondo Nethaniahu non rifiuta il modello della corte di ventitré e settantuno, ne cambia il carattere, le funzioni o la composizione, ma semplicemente aggiunge i corpi politici dello Stato veneziano. Ciò però è provocato da un cambiamento ideologico. mentre nel modello tribunalizio ne rifiuta la base tribale-regionale, alla luce dell’esperienza politica spagnola, quando invece vive in Italia, ove manca uno Stato nazionale, ma si trova di fronte ad una moltitudine di stati regionali cambia appunto la sua dottrina affermando che i quattro consigli erano presente in ogni tribù. È possibile perciò supporre che ci troviamo dinanzi ad un tentativo di fondere organicamente i due sistemi. Rimane discutibile se Abravanel vedesse una differenza di autorità tra il Sinedrio ed i Quattro Consigli. Ciò coinvolge anche il problema dell’autonomia non solo amministrativa, ma anche politica delle singole tribù, con il potere per esempio di dichiarare guerra. In altre parole domanda Nethaniahu, abbiamo qui uno Stato all’interno dello Stato od una organizzazione politica unitaria? La risposta proviene dall’interpretazione di Abravanel nel periodo dei Giudici, ove troviamo tribù che combattono contro altre (XIX) tuttavia la situazione era ben diversa di quella tra le città-stato italiane del XV secolo. Le tribù erano unite in una federazione guidata da settanta anziani e dal giudice. Abbiamo così uno Stato federale con i propri parlamenti, ma tuttavia guidato da un Senato federale, cioé i Settanta Anziani o il Sinedrio, che nominava poi il leader politico-militare nella figura del giudice.
Riassumiamo quindi l’equilibrio costituzionale presentato secondo il Nethaniahu come modello di costituzione ideale:
a) Tribunale municipale di tre e ventitré membri nominati attraverso elezione popolare.
b) Quattro consigli con funzioni giudiziarie, politiche, militare, su base nazionale rappresenterebbe l’aristocrazia (pur sempre intellettuale); quindi non viene eletto dal popolo.
Forse Nethaniahu sottolinea un po’ troppo l’aspetto territoriale di tali suddivisioni: sicuramente se non vi fosse stata una base regionalistica Abravanel non avrebbe fatto a meno di sottolinearlo, in oltre come si può parlare di base regionalistica per delle istituzioni che apparvero originariamente nel deserto?
Ci sembra che quest’ultima prova possa confutare definitivamente la base regionalistica proposta da Nethaniahu. È chiaro che Abravanel a di fronte a sé il modello della Roma Repubblicana assieme a quello della Repubblica di Venezia, ma secondo Nethaniahu la sintesi è realizzata tra due assetti costituzionali ebraici, ma lontani nel tempo: quello del periodo dei Giudici è fuso con il sistema giudiziario del II Tempio.
Sicuramente c’è una forte componente democratica, proprio seguendo la prevalente teoria medioevale che la comunità sia la fonte di ogni autorità(43). Secondo Nethaniahu l’aspetto regionalista-federale sarebbe il più significativo nella sua dottrina politica, e ciò che maggiormente lo allontana da Cicerone, correggendo nel corso degli anni la visione centralizzata dello Stato. È per questo motivo che il metodo e le idee di Abravanel vennero utilizzate nei secoli per arginare la continua crescita dello Stato Nazionale e del suo Assolutismo, per difendere la libertà civile e politica dei cittadini affinché partecipassero sempre più profondamente e coscientemente alla gestione della cosa pubblica, alla vita dello Stato-Governo, specchio e prodotto della comunità statale.
Politica ed economia, l’esempio di Giuseppe
Un episodio di profondo valore politico amministrativo narrato dalla Bibbia, la carestia in Egitto e le misure prese da Giuseppe in favore non solo del paese ma anche delle popolazioni circostanti (Genesi XXXVI-XLV), è interpretato da Abravanel come la prima espressione di un potere politico statuale nel senso pieno della parola.
Stranamente tutti gli studiosi politici di Abravanel sorvolano su questo importante passaggio che fornì a Filone l’occasione per illustrare il suo pensiero politico nel De Iosepho . Abravanel esamina la realtà politica egizia con gli occhi di un politico privo di illusioni o inibizioni, ben avvezzo alle oscure trame presso le corti reali, oltre alla sua stessa esperienza politica il pensiero corre al Principe : “Quando al Faraone venne in mente con la guida di D-o di nominare Giuseppe ministro plenipotenziario su tutto l’Egitto, temette di porre, così facendo, odio tra i suoi servi, tanto da odiare il Faraone per questa (nomina), perciò tentò di discutere con loro, affinché essi stessi riconoscessero le virtù di Giuseppe, inoltre era consuetudine consigliarsi con loro riguardo un argomento così importante, come dissero i nostri Maestri: “Non si nomina Parnas (Amministratore) per il pubblico se non ci si è consigliati con il pubblico” così come è detto “Vedete che D-o ha nominato Bezal’el ( Es . XXXV, 30), perciò il faraone disse ai suoi sudditi: “Potremo trovar forse un uomo pari a questo (Gen. XLI, 38)… non c’è dubbio che i sudditi pensarono che il Faraone eseguisse da solo il consiglio (di Giuseppe) o nominasse degli impiegati e ne ricavassero grande vantaggio, perciò riconobbero che in lui (Giuseppe) c’era lo Spirito di D-o, poiché questo era ciò che il Faraone aveva domandato a loro e non se Giuseppe fosse saggio ed intelligente, non chiese nulla di ciò, perciò non venne loro in mente che il Faraone potesse nominare Giuseppe “incaricato di tutta la questione, poiché era ebreo, straniero per loro, ed il fatto di essere saggio ed intelligente ancora non era stato provato. In Egitto c’erano persone sagge ed intelligenti e dal fatto che possedesse lo Spirito divino per interpretare i sogni non discendeva necessariamente che fosse fornito anche di attitudine politica. Il Faraone tirò immediatamente le conseguenze delle loro parole…. E’ chiaro che non c’è nessuno saggio come te, dato che la profezia non si posa altro che su un saggio per capacità intellettuali e su una persona intelligente dotata di virtù morali, dato che il perfezionamento arriva gradualmente, ed un uomo non può arrivare alla massima perfezione se non dopo le perfezioni minori ed il livello profetico è la più grande delle conoscenze scientifiche che possono giungere con l’indagine perciò tu sarai proposto alla mia casa; cioè i vari tipi di conduzione, come ricorda HaMedinì (il Politico, Aristotele) sono di tre tipi: la conduzione individuale secondo coscienza, la conduzione domestica e la conduzione statale o del regno (o della città o del regno) , perciò dal momento che tu sei saggio ed intelligente ed integro per quanto ottiene al comportamento individuale, tu saprai dirigere la mia casa come si deve, (essa) dipenderà dal tuo ordine e governerai tutto il mio popolo, in modo che conoscerai la conduzione della città o del re, e si raduneranno in te questi tre tipi di governo. Per la dignità della Casa reale disse: “Tu sarai preposto alla mia casa, cioè ministro della Real Casa, tu stesso controllerai i suoi problemi e non ordinerai a nessun altro di eseguirli, ma per quanto attiene al regno, ove non potrai fare tutto da te, tutto il mio popolo dipenderà dalla tua bocca, con il tuo ordine ed il tuo comando verrà governato tutto il regno, ed a me non resterà che il nome di “Re”, solo il trono renderò più grande di te” cioè non riceverai solamente il nome di Re” .
Oltre alla già sottolineata coscienza degli intrighi di corte, Abravanel fa delle affermazioni che vale la pena di sottolineare:
I) l’organizzazione burocratica tende perennemente alla ricerca del tornaconto personale.
II) La classe politica precedente, la classe degli impiegati è storicamente contraria all’ascesa dell’ Homo Novus .
III) Tutte le cariche pubbliche devono essere accompagnate dall’approvazione dei futuri governanti.
IV) Viene ribadita la teoria classica del Re-filosofo-profeta, che assomma in sé le virtù intellettuali e le virtù profetiche.
V) E’ accolta la distinzione aristotelica delle scienze pratiche, la politica occupa il posto più alto dopo la morale e l’economia.
VI) Si sottolinea la distinzione tra potere formale, in base al titolo realmente esercitato dal detentore. Effettivamente Abravanel, come già fece Filone, vede in Giuseppe la guida politica ideale, dotata politicamente ed intellettualmente, ma sempre permeata di quello spirito divino che è nello stesso tempo il motore e l’obiettivo di ogni attività umana, che tenta di storicizzare la presenza di D-o nel popolo attraverso la guida politica dello Stato.
La partecipazione
“La genesi del problema della partecipazione dei cittadini al potere decisionale si può individuare facendo riferimento all distinzione fondamentale aperta dal pensiero filosofico-giuridico, prima, e dalla prassi politica, poi, tra la sovranità in astratto e la sovranità in concreto, cioè tra la titolarità e l’esercizio del potere sovrano dello Stato. Queste distinzioni fondamentali tra titolarità ed esercizio del potere sovrano e la correlata, altrettanto fondamentale distinzione tra Stato società e Stato governo corrispondono al passaggio dallo Stato assoluto allo Stato di diritto. E’ questa la forma di Stato in cui l’esercizio del potere sovrano spettante allo Stato governo, anziché essere assoluto è invece limitato formalmente, normativamente e sostanzialmente dai diritti pubblici soggettivi, dalle fondamentali garanzie formali e sostanziali, ossia dalle libertà politiche e civili conquistate dagli individui e dai gruppi sociali. L’inizio ed il progresso politico civile, ossia la possibilità concreta effettiva della partecipazione attiva libera responsabile del cittadino al potere decisionale, la si ha dunque esclusivamente con il passaggio dallo Stato assoluto e totalitario allo Stato di diritto. E già a questo punto risulta evidente come e perché la condizione anzi il concreto presupposto del problema della partecipazione del cittadino alla vita politica dello Stato, consista nella razionale risoluzione della distinzione, dell’equilibrio della bilancia dei poteri tra Stato governo e Stato-società. La partecipazione implica l’assunzione di responsabilità che diventa e deve diventare corresponsabilità del potere decisionale, dell’esercizio del potere pubblico, da parte degli individui, dei gruppi sociali; così come significa porre in relazione che la partecipazione non può di certo comportare la rivendicazione di semplici diritti ed il rifiuto di correlati doveri”.
Questo illuminante brano ci fa comprendere il ruolo centrale che assume la riflessione nel problema della partecipazione dei cittadini alla vita politica dello Stato nell’ambito della speculazione filosofico-politica.
Abravanel prende in esame il passo di Esodo XVIII in cui il suocero di Mosè, Yithrò consiglia di nominare capi di migliaia, centinaia, cinquanta e dieci con funzioni essenzialmente giudiziarie. Secondo Abravanel invece alla funzione giudiziaria era affiancata quella militare. Si potrebbe pensare ad una funzione simile ai pretori romani, giudici in tempo di pace e comandanti in tempo di guerra. Secondo Nethaniahu questa ipotesi è sbagliata, come Abravanel mostra questi governanti furono legislatori e statisti più che giudici e comandanti di campo. Questo concetto relativo alla natura della funzione di tali governanti viene chiarito dalla sua concezione relativa allo scopo o giustificazione della loro autorità. Secondo il testo capi di mille, cento, cinquanta, dieci sono evidentemente offici giudiziari limitati ad un certo numero di persone.
Sembrerebbe anche chiaro che il loro potere cresca con il numero del popolo sotto la loro giurisdizione e conseguentemente la più alta autorità nel sistema Mosaico sia il capo di molto. Abravanel dimostra il contrario e nella cornice della sua interpretazione del testo avanza la proposta di un sistema politico che rappresenta il governo ideale, un governo “mite” basato appunto sulla partecipazione democratica di tutta la popolazione alle decisioni fondamentali della vita politica.
“Per quanto attiene al gran numero di giudici che Yithrò consigliò (di nominare) e Mosè nominò, i capi di migliaia, di centinaia, di cinquantine e di decine, il cui numero ammonterebbe a 48.600, così come affermano i Maestri, Rabbi Abraham Ibn ‘Ezrà scrisse: “Quando il paese è colpevole sono molti i suoi capi” e non c’è dubbio che sia difficile e straordinario, perciò egli sosteneva che “Capi di mille” dovesse intendersi come dignitari che avevano in casa loro mille servitori alle dipendenze, così i capi di centinaia che avevano in casa cento persone per servirli. Io ritengo questa teoria già confutata, poiché Israele non aveva in Egitto principi e re che possedessero ognuno mille o cento servitori. Anche riguardo a Mosè il testo non ricorda che un solo aiutante che era Giosuè, figlio di Nun, “ragazzo”, cioè aiutante.
Come sarebbe stato mai possibile che uno di quelli che ieri erano stati sottomessi con calci e mattoni possedesse mille servitori o cento, o cinquanta anzi nemmeno dieci, poiché tutta la congregazione era santa e D-o era in mezzo a loro, perché mai una loro parte doveva essere schiava o salariata ad un’altra parte e perché questi si erano sottomessi agli altri? Se fosse per procurarsi gli alimenti, ognuno si affidava alla manna, ed anche il verso: “Quando il paese è colpevole sono molti i suoi capi, si riferisce a quando sono tutti sullo stesso livello, non una parte capi ed una parte sudditi, ma riguardo ai capi, tanto più il loro numero diventa grande, maggiormente sarà ordinato il governo del popolo, purché sia ordinato gerarchicamente e tutti facciano capo ad una sola guida come ha spiegato Abunzor nell’opera Hatkhaloth HaNimza’oth (Principi di cose pratiche), un esempio di ciò lo puoi trovare nelle membra umane, nel legame delle cose reali l’una all’altra, fino ad arrivare alla Causa Prima, D-o Benedetto, e che c’è di male ad affermare che anche qui è così, cioè i capi di decine sottoposte ai capi di cinquantine, questi sottoposti ai capi di centinaia e questi sottomessi ai chiliarchi. Ed è possibile interpretare così il consiglio di Yithrò, dato che l’accampamento era grande ed esteso che, Mosè nominasse capi e giudici, affinché ognuno fosse sottomesso a loro affidò ad ogni capo degli uomini sotto di lui per aiutarlo, affinché si recassero da questo in caso di bisogno per scendere in guerra o per la partenza degli accampamenti, o per riprendere e punire i giudici stessi. Tra quei capi c’era chi aveva un grado talmente elevato di avere mille uomini che lo custodivano ed eseguivano il suo comando, chi non era così tanto elevato aveva cento uomini, poi cinquanta, ognuno secondo il suo grado e la sua perfezione, ma quei capi erano pochi ed avrebbero periodicamente giudicato il popolo. Io ritengo che per quanto atteneva alla giustizia ed alle guerre le cose più generali per il popolo, Yithrò nella sua saggezza e Mosè capirono che qualora la nomina fosse più generale sarebbe tanto più disordinata, perciò non ipotizzarono di creare capi di diecimila e non capi di migliaia, poiché il circoscrivere molte persone confonde il potere ed era sufficiente che la carica più generale fosse di mille persone, poiché per l’esercizio della giustizia una sola persona è sufficiente a giudicarne mille, tanto più nelle guerre, la forza scaturisce dai pochi ed ognuno poteva condurre ed ordinare mille persone per andare in battaglia come si deve.
Per quanto ricava ai capi a loro sottomessi, i capi di centinaia, cinquantine, decine, ve ne sarebbe stato bisogno per l’esercizio della giustizia insieme ai chiliarhi e si sarebbero differenziati nella guida e nelle cariche in tre maniere differenti: il primo metodo è che si differenziassero nella qualità del governo, una parte avrebbe giudicato processi penali, una parte i processi civili, cioè una parte beni immobili, l’altra beni mobili, differentemente per ogni singola tribù, in modo che necessariamente i giudici dovevano essere molti. Il secondo metodo consiste nella qualità e nella quantità del caso da giudicare, tutti relativi al diritto civile, come a dire che tra loro vi erano giudici fino a dieci sicli, fino a cinquanta, cento, mille e il caso di maggior portata lo avrebbero presentato a Mosè, cioè questa sarebbe l’intenzione del testo che dice “capi di migliaia, centinaia, dieci, cioè capi che potessero giudicare cause relative a mille, cento, cinquanta, dieci sicli.
Il terzo metodo si basa sulla Politica generale. In una città popolosa, principessa tra gli Stati vi erano delle cose che non possono venir decise senza radunare mille persone, interessate al riguardo. Vi sono delle cose che vengono eseguite su consiglio e decisione di cento consiglieri, appositamente nominati, vi sono delle cose che vengono compiute su accordo e decisione di cinquanta o quaranta consiglieri.
Vi sono ancora questioni per le quali i consiglieri sono dieci solamente e secondo la loro decisione viene risolta ogni controversia giuridica. Sappi che tutti questi tipi di consiglieri che ho ricordato sono in carica qui oggi, nella città di Venezia. Tra loro c’è il Gran Consiglio che comprende più di mille persone, c’è un altro consiglio detto dei Pregadi (erroneamente scritto Pregahi ) composto solamente di duecento membri, c’è un’altra assemblea di quaranta membri, detta dei Quaranta e c’è un’altra assemblea di soli dieci membri detto Consiglio dei Dieci ; ed io non ho dubbi che il testo si riferisca proprio a ciò, dicendo “capi di migliaia capi di centinaia, di cinquanta di dieci”.
Capi di mille significa che vi saranno mille persone che si raduneranno in quel Consiglio e ciò in ogni tribù, poiché questo numero non si riferisce ai giudicati, ma ai giudici, ai capi secondo l’importanza degli argomenti discussi vi siano i consiglieri nominati per la loro gestione… ed (il testo) ha detto che gli uomini incaricati della gestione della cosa pubblica “giudicheranno il popolo in ogni tempo” ( Es . XVIII, 22) quando i contendenti verranno di fronte al giudice, in poco tempo verranno giudicati, ed andranno via ed in questa maniera ognuno starà in pace, poiché ogni uomo sapeva che era l’incaricato della sua famiglia e si presentava di fronte a lui, ed ogni giudice conosceva chi doveva governare e giudicare, ed avrebbero giudicato con verità e pace nelle loro porte, così come non sarebbe stato possibile se una sola persona fosse stata preposta a diecimila, dato il gran numero di questioni e di norme diverse ed il gran numero di popolazione, avrebbero confuso il suo intelletto e la sua coscienza. Da quanto ho spiegato noterai che Mosè apportò molti cambiamenti al consiglio di Yithrò suo suocero, il primo è che egli gli aveva consigliato di nominare lui stesso i capi secondo la sua volontà e la sua scelta, ma Mosè non fece così ma disse al popolo: “Portatemi uomini saggi ed intelligenti” ( Deut . I, 13)” .
E’ interessante notare come Abravanel sostenga il principio della nomina popolare dei capi ed il principio che una partecipazione allargata alla gestione della cosa pubblica sia di giovamento per l’ordinamento statuale purché venga mantenuta l’unità della guida politica affidata però non ad un solo singolo monarca, ma ad una istituzione ristretta di natura oligarchica.
Abbiamo evidentemente la forma del “Governo Misto” tipica della Repubblica di Venezia. Fondamentale è inoltre l’affermazione dell’uguaglianza sostanziale tra governati e governanti all’interno del popolo, con solo una differenziazione di funzioni, vuoi giudiziari vuoi politici. Potrebbe sembrare una contraddizione al suo concetto di Policrazia il rifiuto della tesi dei Maestri per cui i capi del popolo erano 48.600; nel sistema anacronisticamente proposto da Abravanel i capi si ridurrebbero a 1.160! E’ difficile superare questa contraddizione apparente, ricordando i diversi ruoli attribuiti dai due metodi: i Maestri attribuirono i loro 48.600 capi solamente funzioni giudiziarie e militari, mentre Abravanel conferisce ai suo 1.160 membri di assemblee e consigli il ruolo specifico di strumento politico di espressione della volontà popolare nella cui base è fondato l’indirizzo politico. Egli vide nel passato molto di quello che vedeva nel suo tempo.
Nel Medio Evo la gente trasferisce nel passato i termini della realtà corrente. Secondo il Nethaniahu anche l’interpretazione di Ibn ‘Ezrà confutata a Abravanel era in questo spirito: la nomina dei capi costituirebbe una punizione per il popolo da una situazione felice, in cui Mosè era l’unica guida del popolo ed una situazione di asservimento ad alcuni signori. Vivendo in un’epoca feudale Ibn ‘Ezrà vede nei pubblici ufficiali nominati da Mosè i conti i baroni ed i cavalieri del Medio Evo, differenti l’uno dall’altro nella misura del proprio potere e del numero di persone che sono loro vassalle, ma uguali nell’intento di soggiogare il popolo. Abravanel si oppose al feudalesimo non meno che Ibn ‘Ezrà, ma il suo sostituto non era necessariamente il “governo di uno”. Capi numerosi egli afferma sono una calamità quando sono di uguali rami, quando nessuno di essi è obbligato a tributare omaggio ed obbedienza all’altro. Quando invece c’è un ordine razionale nel rango dei preposti “una gerarchia che parte dal capo supremo” tanto maggiore è il numero dei pubblici ufficiali, tanto migliore è il governo dei pubblici affari. Un tale tipo di gerarchia, secondo Abravanel, rappresenta l’autorità di governo e non schiavitù, dal momento che questi pubblici ufficiali sono al servizio del pubblico e non dominatori. In breve mentre Ibn ‘Ezrà vede nel sistema mosaico un prototipo del sistema feudale, Abravanel che visse in epoca differente, vide in esso il prototipo del sistema veneziano. La grande città di Venezia, la “principessa tra le nazioni”, questa espressione che appare ripetutamente negli scritti di Abravanel, rivela tutta la sua ammirazione per la repubblica Veneta, tipica della cultura rinascimentale.
Gli umanisti videro il segreto della floridezza economica e commerciale di Venezia nella qualità della vita delle città nel suo ordinamento costituzionale stabile ed equilibrato governo “senza un re e senza un governante ereditario” , molto simile alle costituzioni repubblicane di Roma e della Grecia. Abravanel visse a Venezia dal 1503 ed ebbe quindi la possibilità diretta di vedere con i propri occhi la saldezza delle istituzioni veneziane, nella catastrofe politica che travolgeva l’Italia. Secondo Nethaniahu questi avvenimenti biografici furono responsabili della modifica ideologica sulla costituzione ideale, così come era stata tracciata nel suo commento al Deuteronomio iniziata nel 1493 , la redazione del brano ora esaminato va collocata intorno al 1505. Abravanel usò la costituzione veneziana come modello del “governo umano”. Tuttavia non la copiò esattamente.
Libertà sulle tavole
In conclusione potremmo tornare a formulare le eterne domande dell’Aggadà.
In Egitto si è formato “il popolo dei figli d’Israele” definito in forma politica dall’antisemitismo istituzionale il Faraone isola l’ebreo dal resto dei cittadini, anzi lo vede come eterno antagonista, secondo lo schema ” amico – nemico ” di Schmitt.
La prima domanda, quella che sostituisce il Qorban Pesach del Santuario è certamente legata alla dimensione della diaspora . Questa notte siano tutti sdraiati, assopiti; questa domanda si riferisce all’Ebreo disimpegnato, che si astiene dalla politica come dalla sua identità ebraica. Vive passivamente, in attesa che altri parlino in sua vece, fino a che qualcuno lo provochi, illudendosi di poter sopravvivere, sprofondando nelle comodità del Galuth.
La seconda domanda riguarda l’ebreo che si nutre di culture esterne, trovandovi un’illusione di identità ebraica. Tra il marxismo ed il liberalismo, tra destra e sinistra basta “intingere” in un po’ di ebraismo la propria vita, vissuta superficialmente, senza impegno reale, un tam sempliciotto come un bambino che si accontenta di gustare il succo esterno.
Il terzo tipo è molto diffuso: egli vive con angoscia la sua dimensione politica come quella ebraica e vede solo Maror amarezza dappertutto . Aspetta che qualcuno lo provochi per digrignare i denti e per escludersi dalla collettività, per uscire dalla comunità.
Il quarto tipo, il Hakham che vede solo “libertà”, pur nella notte dell’esilio, è il modello dei Maestri, da Rabbi Aqivà ad Abravanel, da Maimonide a Rav Quq. Solo partecipando alla vita della polis con ardore e fermezza, con lo stesso zelo con cui si producono le Mazoth, la libertà potrà sconfiggere il buio. La luce di spiritualità che emerge dal buio della Diaspora, dell’indifferenza, del “servire altre divinità” è superato da chi vuole a tutti i costi vivere il suo ebraismo come modello universale.
Offrire la Mazà della consapevolezza, sconfiggere in terra d’Israele la voglia di essere come tutti gli altri popoli. Per questo terminiamo con la stessa halakhà che si trasmette il figlio Hakham ” Non si termina con il dessert dopo il pesach ” .
NON VI SONO NE’ SURROGATI NE’ ALTERNATIVE ALLE MIZVOTH. NON C’E’ PERSONA LIBERA SE NON CHI SI OCCUPA DI TORA’ E DI MIZVOTH, SECONDO IL DETTO DEI MAESTRI: LIBERTA’ SULLE TAVOLE.
Ci poniamo la problematica di una analisi della realtà rispetto all’asserzione filosofica di una centralità e priorità della Legge. La vita giuridica dello Stato d’Israele non è basata sul diritto rabbinico, se non in caso di “Vacatio Legis”, oppure in settori specifici come nel diritto matrimoniale per i cittadini ebrei. Il Rav Shaul Israeli zl. si è confrontato con una vasta serie di problematiche di natura politico-istituzionale, svolte all’interno del sistema classico dei responsa che costituisce la vitalità del sistema giuridico ebraico. Negli stessi anni il Rav Emanuele Artom nel volume “La nuova vita d’Israele” affrontava le stese problematiche.
Analizziamo alcune domande poste negli ultimi due decenni: l’obbligo del Sinedrio, limiti d’età nelle cariche pubbliche, l’autorità del presidente della Repubblica e del Capo dell’esecutivo; la legge dello Stato ed il suo valore.
Ancora vengono discusse le norme relative alla fedeltà nelle coalizioni tra partiti politici, le azioni politiche contro gli avversari fino a richiedere l’intervento statale a difesa della validità legale di transazioni ed accordi di partito. Tutto ciò dimostra con le parole di Rav Quq che un “barlume di luce” può illuminare un buio profondo, questa luce è la Toràh, Legge eterna del popolo d’Israele ed anima vitale della sua esistenza.
Così sintetizza Dan Elazar un suo appello per la costruzione di una Civitas ebraica
L’umanità è sospesa tra il messianico ed il prosaico. Religione e politica debbono essere le linee direttrici, sulle quali si fondano nel loro punto d’incontro istituzioni e popoli.
Crescita e caduta delle istituzioni e civiltà dipendono dai cicli del successo o fallimento negli sforzi umani su questo punto. La civiltà ebraica ha avuto sempre la necessità di ricreare convinzioni ed istituzioni senza abbandonare la sua essenza originale. Le due sfere della politica e della religione sono state integrate nella vita della comunità. Filantropismo è l’esaltazione dello sforzo messianico per uscire dalla quotidianità della vita ebraica.
Il coinvolgimento nell’esperienza ebraica non deve essere inteso più come partecipazione ad una associazione filantropica ma come cittadinanza . Costruire il tipo di comunità che vogliamo.
La comunità non è un’istituzione, ma un tipo di entità politica, come politeia: l’interazione con le leggi e con lo Stato non è come quella di una chiesa o confessione religiosa né come minoranza etnica, ma come Kinship Group gruppo, centro di potestà. Non siamo uno Stato ma abbiamo uno Stato.
La comunità ebraica si propone come un modello di POLITEIA del futuro. Non è legata o limitata da un territorio. La politica ebraica trascende i limiti dello Spazio e del Tempo e ricerca un difficile equilibrio tra potere e consenso, ricercando il minimo di coercizione ed il massimo del consenso.
La lealtà alla tradizione è lealtà allo Stato, più spesso sistema di molteplici lealtà. La redenzione si realizza nella redenzione dell’Umanità. La base del consenso è dal patto del Sinai, patto tra il popolo e la divinità. Essere cittadino non è solo un diritto ma l’opportunità di sviluppare la propria cittadinanza attraverso la partecipazione, e la responsabilità di far continuare la comunità.
Con la libertà nella Legge, con la Toràh o meglio “dentro la Toràh” spetta a ogni ebreo vivere la polis come immagine della sua umanità come specchio della dimensione divina di unità, amore e misericordia.
Convegno del Dec dell’Ucei di Montecatini novembre 2003 “Re e Profeti”