Intervista a Louis Nirenberg, uno dei giganti della matematica del ventesimo secolo. L’università dell’Insubria e la Riemann International School of Mathematics gli hanno dedicato un simposio che si terrà a Villa Toeplitz dal 10 al 13 giugno
Michele Mancino
«Buongiorno, capisco l’italiano». Louis Nirenberg, uno dei giganti della matematica del ventesimo secolo (è un Erdos numero 3), in Italia si sente come a casa perché qui c’è quella che lui chiama «la grande famiglia dei matematici» che si riunirà a Varese per dedicargli tre giorni di studio. Come tutti i grandi uomini di pensiero che conoscono la complessità del mondo, si esprime con semplicità e quando sa di non sapere, lo ammette con tranquillità. Aver ricevuto nel 2010 la medaglia Chern, una sorta di Nobel per la matematica, è stato il coronamento di una splendida carriera e nonostante Nirenberg sia già presente nelle più importanti pubblicazioni del pensiero matematico contemporaneo, a 89 anni non si considera ancora un pezzo di storia. Dice, infatti, di non aver mai desiderato cambiare il mondo con la matematica, ma di soddisfare un bisogno astratto ancora molto presente.
Professore, qual è la principale differenza tra chi fa il matematico di professione e l’appassionato di matematica?
«Il talento, che nei matematici è sempre precoce e speciale. La passione non basta, ci vogliono una determinazione e una forza di volontà notevoli»
In Italia le statistiche dicono che gli studenti sono piuttosto scarsi in matematica.
«Lo dicono le statistiche di tutti i paesi. Dipende sempre dalla qualità dell’insegnante»
Lei come ha iniziato?
«Mio padre insegnava ebraico e visti gli scarsi risultati del figlio decise di mandarmi a ripetizione e il professore di ebraico mi faceva risolvere puzzle matematici. L’ebraico, non l’ho imparato, ma la matematica, sì»
Quanto l’informatica e le nuove tecnologie hanno cambiato il modo di studiare e indagare i problemi matematici tra i giovani studiosi?
«Ci sono due risposte: la prima è che oggi i ricercatori risolvono problemi che a livello teorico sembrano impossibili grazie alla potenza di calcolo dei computer. Mentre altri partono direttamente dal computer per fare ricerca. Nel primo caso è uno strumento nel secondo è un campo di ricerca».
Secondo lei Andy Wiles avrebbe trovato la soluzione dell’ultimo teorema di Fermat senza l’aiuto dei calcolatori?
«Non saprei»
Nel 1956 lei suggerì al futuro premio Nobel John Nash di occuparsi del XIX problema di Hilbert. Perché scelse proprio quel problema?
«In realtà fu il matematico italiano Guido Stampacchia a segnalarmelo, come una questione ancora aperta e interessante. Così a mia volta lo segnalai a Nash che era in cerca di nuove idee»
Quel problema fu risolto da Nash e dal matematico italiano Ennio De Giorgi, ma in tempi diversi e per strade differenti. La matematica si crea o si scopre?
«De Giorgi lo risolse prima di Nash, che ci arrivò a un anno di distanza con una diversa dimostrazione, tanto che oggi si parla del teorema De Giorgi-Nash. Sulla seconda questione alcuni dicono che la matematica scopre nuovi modi di fare le cose mentre altri sostengono che si scoprono nuove cose. Per quanto mi riguarda non saprei, dipende dai giorni: un giorno credo che sia così e quello dopo credo l’esatto contrario. Non Penso che tutto il mondo sia matematico, ad esempio le emozioni non possono essere espresse in matematica. Credo invece che ci sia uno stretto rapporto tra matematica e musica»
In che rapporto stanno invece la matematica e la metafisica?
«Questa è una questione filosofica a cui rispondo con una storiella: ci sono due rettori universitari, il primo dice al secondo di avere la soluzione del problema, ovvero assume matematici perché hanno solo bisogno di carta, penna e cestino. L’altro risponde che è riuscito a fare di meglio: assume esclusivamente filosofi perché hanno bisogno solo di carta e penna»
In “Apologia di un matematico” Godfrey Hardy dice che non esiste matematica brutta se si parla di matematica pura. Lei ha mai visto matematica brutta?
«Hardy non amava la matematica applicata e faceva una netta distinzione. Però non poteva sapere che alcuni dei suoi studi oggi hanno trovato un’applicazione. Io non vedo una linea così netta di demarcazione. E se uno studente non pensa mai che alcune dimostrazioni siano brutte, vuol dire che è senza speranza. Io sono un allievo di Richard Courant che aveva una visione unitaria della matematica».
Come si svolge la giornata di un matematico?
«Lavoro soprattutto di notte e a volte sono convinto di aver dimostrato un teorema o di aver trovato qualche soluzione, ma mia moglie mi dice sempre che sicuramente troverò un errore la mattina».
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