Jonathan Pacifici
Ho letto con interesse da Jerushalaim l’ultimo intervento di Rav Somekh e le conseguenti risposte. Pur vivendo in Israele sono molto interessato alle sorti della Comunità Italiana e nel mio piccolo cerco di contribuire attraverso il sito www.torah.it.
Io sono nato e cresciuto a Roma, erede di quello stesso Ghetto di cui l’Avv. Fubini ricorda la miseria. Sono nipote della generazione della Shoà, ed ho avuto il privilegio e l’onore di studiare alla Scuola Ebraica ed al Collegio Rabbinico dove ho appreso tra l’altro l’ebraico, la lingua che oggi in Erez Israel, uso non solo per studiare e pregare come vorrebbe la Redazione di Hakeillah, ma anche per lavorare, mettere benzina, ed andare al mercato. Non “è così da sempre”, come scrive la Redazione. C’era un epoca nella quale il nostro popolo era un popolo indipendente in Erez Israel, circa duemila anni fa, ed i nostri bambini giocavano a nascondino in ebraico. C’era un epoca ancora precedente nella quale eravamo schiavi del Faraone, ma non avevamo smesso di parlare in ebraico, e questo è uno dei meriti per i quali siamo stati redenti. L’ebraico insegnano i Maestri è la lingua con la quale Iddio ha creato il mondo, ed è lo strumento che a noi è stato affidato, ben prima che ci venisse data la Torà, per essere soci di D. nell’edificazione di un mondo migliore. Il risorgimento nazionale ebraico e la costituzione di una società fedele alla Torà in Erez Israel è l’obbiettivo della Torà stessa. Ogni attimo della vita ebraica anela a questo momento che oggi, con l’aiuto di D., si sta realizzando in Israele. E si sta realizzando in ebraico.
In quegli stessi ghetti che il risorgimento avrebbe “redento”, si parlava una reminescenza di ebraico. A Roma il giudaico romanesco. Certo non era l’ebraico, ma era senz’altro almeno il tentativo di rimanere attaccati alla cosa che prima di ogni altra ci caratterizza come popolo. Questa reminescenza è stata la prima cosa che l’emancipazione ha distrutto. Rav David Prato zz’l scrive nella sua introduzione a “Tefillà LeDavid lamentandosi per la necessità stessa di un Siddur tradotto: ”Il nostro insopprimibile ottimismo ci fa sperare che giorno verrà nel quale, sotto l’impulso vigoroso dello sviluppo della vita nel nuovo Stato d’Israele, gli ebrei tutti, in qualsiasi paese saranno destinati a vivere, abbiano riacquistato il pieno possesso della lingua nazionale…” Non è di certo un caso che il Risorgimento nazionale ebraico e la fondazione dello Stato d’Israele abbiano avuto come pietra miliare l’opera di Eliezer ben Jeudà che ha riportato l’ebraico parlato nelle strade dell’Yshuv.
La lingua ebraica non è un opzione perché l’ebraismo non è solo Tanach, Tefillà e nemmeno Halachà quando con ciò s’intende il volume ben rilegato nella biblioteca. L’ebraismo è tutto ciò quando viene applicato, vissuto, parlato in ogni giorno ed in ogni momento. L’ebraismo non è un circolo di studi, è una famiglia dove la Torà la si vive prima ancora di studiarla.
“Yom Huledet Sameach”, non è una scopiazzatura moderna, per quanto la musica possa ingannare. Nella Torà il termine “Yom Huledet” compare nella Genesi (XL,20) per indicare quel compleanno del Faraone, i cui eventi porteranno poi alla liberazione di Josef ed alla sua incoronazione a governatore dell’Egitto. Quello stesso Josef che è stato sì simbolo di grande successo nella società non ebraica arrivando alla carica di vicerè, ma anche padre capace di insegnare l’ebraico ai propri figli come insegna Rashì. Suddito fedele del Regno (salvo poi essere discriminato, schiavizzato e sterminato dopo appena una generazione), ma educatore che ha saputo spiegare ai propri figli che la loro vera patria è altrove.
La stessa domanda su come vada festeggiato un compleanno ebraico è ampiamente discussa dai poskim di tutte le generazioni. Le idee sono certo variegate, ma mi pare possano essere riassunte in un fondamentale concetto: che sia un occasione piena di Torà. Questo c’è dietro il cantare Yom Huledet Sameach in ebraico. Il riaffermare che non è un evento svincolato dalla Torà perché nulla lo è. Rav Somekh scrive in un suo articolo su Hakeillah sui Farisei che gli ebrei Alessandrini “ Pregavano in greco, amavano i dibattiti dei sofisti, ne sposavano le figlie e allevavano i loro “bambini instillati di amore per l’Ebraismo” alla Maslin. Sono durati un paio di secoli o poco più. Giusto il tempo di quietare la vanità di qualche coscienza tormentata. Poi non ne abbiamo saputo più nulla.”
Mi chiedo se qualcuno abbia colto il profondo messaggio educativo che c’è nelle parole di Rav Somekh ed allo stesso tempo l’angoscia di un Rav che è costretto a chiedersi in occasione di un evento Comunitario: “Non so, francamente, quanti dei presenti di quella sera o dei loro discendenti, saranno ancora presenti in Comunità fra quarant’anni”. Mi chiedo se qualcuno si renda conto a Torino del privilegio che ha una piccola Comunità della diaspora che lotta per non essere cancellata, ad avere un Rav come Rav Somekh, che ha il coraggio di parlare chiaro e di fare (e credo farsi) domande scomode.
Mi chiedo se io stesso mi renda conto fino in fondo quanta gheulà ci sia nel fatto che in Erez Israel, un ebreo romano come me stia per sposare una ragazza francese di origine algerina…in ebraico. Che un ebreo cresciuto per le strade di quello stesso ghetto che faceva inorridire d’Azeglio abbia scelto il giudaico ed abbia lasciato il romanesco . Abbia lasciato Piazza Giudia, ed abbia ritrovato Erez Israel dopo duemila anni.
Ed allora penso alla lungimiranza di un Maestro di nome Rabbì Mattjà ben Cheresh, che costituendo il suo Bet Midrash a Roma duemila anni fa, ha reso possibile tutto ciò.
Penso a quanta lungimiranza e senso della storia dovremmo avere per amministrare degnamente questa occasione di redenzione che si chiama Stato d’Israele.
Penso a Rav Somekh, alla avodat kodesh che fa a Torino, ed a tutti coloro che mesharetim bakodesh nella diaspora italiana, a quante energie si investono.
Penso a quanti ragazzi della mia età oggi fanno matrimonio misto in Italia e condannano all’estinzione ebraica le loro famiglie
Penso a quanto sarebbe utile qui Rav Somekh e tutta la sua Kheillàh, a quanto bene potrebbe fare qui ogni ebreo italiano.
Penso a quante opportunità avrebbe qui ogni ragazzo ed ogni ragazza della mia età.
E mi sale sulle labbra una sola parola in ebraico: Chaval! Che peccato!
E vi chiedo: ha veramente senso oggi una diaspora ebraica in Italia?
Shalom,