L’approfondimento di un giornalista sensibile ai rapporti tra religione e Stato laico sulla questione del matrimonio omosessuale (Kolot 1, 2, 3, 4)
Ernesto Galli Della Loggia
Nel XVIII secolo, nella sua battaglia contro le religioni ufficiali, equiparate senza tanti complimenti ad altrettante superstizioni, l’illuminismo francese, destinato a far scuola in tutta l’Europa continentale, non se la prese certo solo con il cattolicesimo. Anzi. L’ebraismo, per esempio, fu un suo bersaglio forse ancora più consueto: basti pensare alle tante pagine di Voltaire piene zeppe di contumelie contro la religione mosaica.
Poi però tra ‘700 e ‘800 le cose cambiarono rapidamente. Soprattutto perché cambiò l’ebraismo. Accadde infatti che nell’Europa (soprattutto occidentale) un gran numero di ebrei cominciasse a inoltrarsi su un percorso di radicale emancipazione-secolarizzazione che li portò ad integrarsi in pieno con le élites laico-liberali sulla via di prendere dovunque il potere: della religione dei padri conservando al massimo qualche vestigia rituale. Da allora la critica antireligiosa d’ascendenza illuministica cominciò a prendere di mira, in ambito occidentale, pressoché esclusivamente il cattolicesimo, quasi che esso fosse la sola religione rimasta sulla faccia della terra. Una tendenza andata sempre più affermandosi, specie in Italia, e molto spesso — bisogna dirlo — con il tacito assenso di molta intellighenzia d’origine ebraica, più o meno concorde nell’avvalorare implicitamente l’idea — bizzarrissima ma molto «politicamente corretta» — che in fin dei conti l’ebraismo non sia neppure una religione. Ovvero lo sia, ma così diversa da tutte le altre, così diversa, alla fine da non esserlo!
Specie in Italia, ho scritto. E infatti quando da noi si parla di temi che in qualche modo coinvolgono la fede religiosa l’ebraismo tenda a non avervi e/o prendervi alcuna parte. E quindi a non essere mai menzionato. Basta porre mente a tutta la discussione sulla liceità dell’ingegneria genetica, dell’eutanasia o del matrimonio tra omosessuali. Dibattendosi di queste cose è come se l’ebraismo fosse disceso nelle catacombe tanto la sua voce è tenue o assente. Con il risultato che la voce della Chiesa cattolica, invece, è facilmente presentata come la sola che in nome di una visione religiosa arcaica sia impegnata a difendere posizioni che la vulgata democratica qualifica come «reazionarie».
A ricordarci che le cose invece non stanno affatto così, e che proprio sui temi che citavo prima sono viceversa assai profondi i legami teologici e dottrinari tra l’ebraismo e il cattolicesimo (e il cristianesimo in generale, direi) soccorre un recente importante documento di un’autorità dell’ebraismo europeo quale il Gran Rabbino di Francia Gilles Bernheim, dal titolo «Matrimonio omosessuale, omoparentalità e adozione».
Bernheim inizia con il punto decisivo, e cioè contestando che tali temi abbiano come vera posta in gioco un problema di eguaglianza dei diritti. In gioco invece, scrive, è «il rischio irreversibile di una confusione delle genealogie, degli statuti e delle identità, a scapito dell’interesse generale e a vantaggio di quello di un’infima minoranza». In un modo che a me sembra condivisibile anche dal punto di vista di un non credente egli smonta uno ad uno gli argomenti abitualmente usati a favore del matrimonio omosessuale: dall’esigenza della protezione giuridica del potenziale congiunto, all’importanza del volersi bene («non si può riconoscere il diritto al matrimonio a tutti coloro che si amano per il solo fatto che si amano»: per esempio a una donna che ami due uomini); alle ragioni affettive che giustificherebbero l’adozione di un bambino da parte di una coppia omosessuale. «Tutto l’affetto del mondo non basta a produrre le strutture psichiche basilari che rispondono al bisogno del bambino di sapere da dove egli viene. Il bambino non si costruisce che differenziandosi, e ciò suppone innanzi tutto che sappia a chi rassomiglia. Egli ha bisogno di sapere di essere il frutto dell’amore e dell’unione di un uomo, suo padre, e di una donna, sua madre, in virtù della differenza sessuale dei suoi genitori». Ancora: «il padre e la madre indicano al bambino la sua genealogia. Il bambino ha bisogno di una genealogia chiara e coerente per posizionarsi come individuo. Da sempre, e per sempre, ciò che costituisce l’umano è una parola in un corpo sessuato e in una genealogia».
Bernheim non solo prende di petto il proposito caro a molti militanti omosessuali di sostituire al concetto sessuato di «genitori» quello asessuato e vacuo di «genitorialità» e di «omoparentalità», ma sostiene che non può parlarsi in alcun modo di un diritto ad avere un figlio: «la sofferenza di una coppia infertile non è una ragione sufficiente per ottenere il diritto all’adozione. Il bambino, sottolinea, non è un oggetto ma un soggetto di diritto. Parlare di diritto a un figlio implica una strumentalizzazione inaccettabile».
Naturalmente le pagine più dense del documento sono quelle in cui opponendosi all’idea sempre più diffusa che il sesso, lungi dall’essere un dato naturale, rappresenti una costruzione culturale, il Gran Rabbino, forte del racconto della Genesi, afferma viceversa «la complementarietà uomo-donna come un principio strutturante del giudaismo» corrispondendo essa al piano più intimo della creazione. «La dualità dei sessi — egli scrive — appartiene alla costruzione antropologica dell’umanità» ed è voluta da Dio anche come «un segno della nostra finitezza». Nessun individuo può pretendere di essere autosufficiente, di rappresentare tutto l’umano, dal momento che con ogni evidenza «un essere sessuato non è la totalità della specie».
Il lettore avrà notato la forte somiglianza di molte delle cose dette da Bernheim con quelle sostenute dal magistero cattolico (non a caso di recente Benedetto XVI ha citato calorosamente il documento del Gran Rabbino francese). In realtà le voci congiunte dell’ebraismo e del cattolicesimo, nel momento in cui evocano ciò che è effettivamente in gioco in questo caso — vale a dire le basi stesse della società in cui vogliamo vivere, l’esistenza ontologica di due sessi distinti, l’alleanza dell’uomo e della donna nell’istituzione chiamata a regolare la successione delle generazioni, nonché il rischio di cancellare in modo irreversibile tale successione — nel momento in cui fanno ciò, sembrano confermare quanto sostenuto a suo tempo da Jurgen Habermas circa l’importanza che ha e deve avere il punto di vista della religione nel discorso pubblico delle nostre società. Tale punto di vista, infatti, è spesso prezioso per comprendere — da parte di tutti, credenti e non credenti, di ogni persona libera — ciò che queste società hanno oggi il potere di fare. E dunque, per misurare la rottura che le loro decisioni possono rappresentare rispetto alle radici più profonde e vitali della nostra antropologia e della nostra cultura.
Ma dal Gran Rabbino Bernheim viene anche un’altra lezione. E cioè quanto è importante che la discussione pubblica sia condotta con coraggio, sfidando il conformismo che spesso anima l’intellettualità convenzionale e il mondo dei media. Quanto è importante che personalità autorevoli (per esempio gli psicanalisti) non abbiano paura di far sentire la loro opinione: anche quando questa non è conforme a quello che appare il mainstream delle idee dominanti. È una lezione particolarmente essenziale per l’Italia. Dove è sempre così raro ascoltare voci fuori dal coro e provenienti da bocche insospettate, dove è sempre così forte la tentazione di aver ragione appiccicando etichette a chi dissente invece di discuterne gli argomenti, dove sono sempre pronti a scattare spietatamente i riflessi condizionati delle appartenenze. Dove — in specie quando si tratta di certe questioni — non manca di farsi puntualmente sentire il pregiudizio che tende a fare del cattolicesimo la testa di turco più adatta per essere additato alla pubblica esecrazione dalle vestali dell’illuminismo e per vedersi piovere addosso tutti i colpi (e tutte le presunte colpe) del caso.
Corriere della Sera, 30 dicembre 2012
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