Cresciute nell’ex ghetto di Roma, festeggiano il bar (bat NdR) mitzvah, cucinano kosher e celebrano le tradizioni religiose. Perché senza identità non c’è memoria
Marta Ghelma
Come ogni anno, il prossimo 27 gennaio si celebrerà la Giornata della memoria in commemorazione delle vittime della Shoah. Noi di Elle siamo andati nel quartiere ebraico di Roma, uno dei più antichi ghetti del mondo, per conoscere ‒ attraverso le interviste a 8 donne ‒ la comunità ebraica romana che, con i suoi 13.500 membri, è la più numerosa d’Italia. Una storia fatta di fede, coraggio e resilienza che, dalla sua fondazione nel 161 a.C., è passata anche dalla deportazione di 1.259 ebrei romani ad Auschwitz (a cui sopravvissero in 16) in seguito al rastrellamento nazista del 16 ottobre 1943, e dall’attentato alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, in cui perse la vita il piccolo Stefano Gaj Tachè. Perché siamo convinti che la conoscenza sia il miglior antidoto contro la preoccupante recrudescenza dell’antisemitismo. Ecco chi abbiamo incontrato.
Micaela Pavoncello 43 anni, tre figli, guida turistica di Jewish Roma
«Mia madre è un’ebrea libica sefardita (il nome dato agli ebrei emigrati in Spagna all’epoca della diaspora e ai loro discendenti, ndr), anche lei fuggita da Tripoli a Roma nel 1967, mentre la famiglia di mio padre è ebrea romana probabilmente fin dai tempi di Giulio Cesare. Sono una guida turistica laureata in Storia dell’arte e, per prima nella Capitale, da quasi vent’anni racconto con passione le vicende della comunità ebraica di Roma attraverso la mia pagina web Jewish Roma Walking Tours (jewishroma.com) e le visite guidate a piedi nell’ex ghetto, un quartiere della città rimasto vivo e autentico nonostante la gentrificazione. Tra le tante curiosità che lo rendono simile a uno shtetl, il tipico villaggio ebraico dipinto da Chagall e descritto nei romanzi di Isaac B. Singer, ci sono il vociare dei suoi personaggi leggendari e le “zie” (le anziane della comunità) sedute a chiacchierare sulle panchine, le uniche a Roma che si possono spostare in base alla traiettoria del sole».
Alessandra Di Castro 52 anni, quattro figli, imprenditrice
«Da piccola sognavo di aprire una pasticceria tutta rosa. Prima di inaugurare Kosher Cakes a Roma (koshercakes.it, con due punti vendita nell’ex ghetto e uno in zona Portuense) fino ai 40 anni ho lavorato nell’ufficio stile dell’azienda di abbigliamento della mia famiglia, ebrea romana da generazioni, frequentando corsi di pasticceria e coltivando la passione per il cake design. I nostri dolci, tutti certificati kosher cioè conformi alle norme dietetiche ebraiche, sono al 90 per cento senza latte e derivati, nel rispetto della Torah e del precetto “non cuocerai l’agnello nel latte di sua madre”: carne e latte nella dieta ebraica non possono essere mescolati né serviti sulla stessa tavola. I nostri clienti impazziscono per i dolci di tradizione ebraica romana: tra i più richiesti ci sono le piccole torte di ricotta e visciole o cioccolato, la pizza dolce e la challah, il pane dello Shabbat, specialmente nella versione con cioccolato».
Scherly e Micòl Guetta sorelle di 33 e 38 anni, wedding planner di Wedding Made
«I nostri genitori nel 1967 furono costretti a fuggire a Roma dalla Libia di Gheddafi. Abbiamo ricevuto un’educazione ebraica e celebriamo con orgoglio le tradizioni religiose, soprattutto il venerdì quando tutta la famiglia si riunisce per la cena dello Shabbat, il giorno sacro agli ebrei. Undici anni fa con Nicola Carlo Benedetti (nella foto Scherly e Micòl, ndr) abbiamo creato Wedding Made, un servizio di wedding planning per matrimoni ebraici e cattolici. Nelle nozze ebraiche si dà molta importanza alla musica e alle danze e la cerimonia può essere celebrata anche al di fuori della sinagoga purché ci siano il rabbino e la chuppah, cioè il baldacchino matrimoniale. La Capitale resta la location preferita dagli ebrei romani ma negli ultimi anni molti scelgono Tel Aviv, o altri Paesi. Questo ci consente di viaggiare e avere uno sguardo aperto sul mondo, senza i pregiudizi di cui è spesso vittima la nostra comunità. A chi si stupisce per i rigurgiti di antisemitismo dico che gli ignoranti ci sono sempre stati. Ma l’utilizzo del linguaggio dell’odio in politica e nei media li ha sdoganati, soprattutto sui social».
Micòl Piazza Sed 42 anni, due figli, fotografa freelance
«Come molti ebrei romani, la mia famiglia vanta una lunga storia nel commercio di abbigliamento. Io invece, fin da bambina, giravo nell’ex ghetto con una fotocamera della Fisher-Price al collo, perché la mia passione è sempre stata la fotografia. Dopo aver vissuto per un periodo a Boston ed essermi laureata in Storia e critica del cinema, vent’anni fa ho deciso d’intraprendere la carriera di fotografa freelance specializzandomi in ritratti di famiglia e di bambini. Oggi, in sella alla mia Vespa, raggiungo le case dei clienti per immortalare i momenti più importanti delle loro vite come i matrimoni, la maternità e le cerimonie religiose ebraiche quali, ad esempio, la circoncisione, la mishmarà (la veglia di studio) o il bar e bat mitzvà (la maggiore età). Credo che la documentazione fotografica, privata e pubblica, sia uno strumento fondamentale nel mantenere vive la memoria e le tradizioni della mia comunità. Di recente sono stata nel Marais, il quartiere ebraico di Parigi, e vedere così tanti esercizi commerciali chiusi mi ha fatto male».
Clorinda Pavoncello 46 anni, due figli, ingegnera gestionale
«La famiglia di mio padre è originaria del ghetto ebraico, dove la nonna aveva un negozio di biancheria all’ingrosso. Ricordo ancora la sua enorme bilancia rossa, carica di indumenti da vendere a peso. La famiglia di mia madre, invece, era di fede cattolica e lei, pur non essendosi mai convertita ufficialmente all’ebraismo, ha sempre partecipato con interesse e curiosità alla vita della comunità osservando insieme a noi anche le ricorrenze religiose come lo Yom Kippur. Oggi sono un’ingegnera gestionale e, dopo 15 anni di lavoro tra Milano e la Spagna, sono tornata a Roma dove vivo con mio marito, anche lui di religione ebraica, e i nostri figli. Anche se per loro abbiamo scelto le scuole pubbliche e non viviamo nel ghetto, a casa manteniamo vive le tradizioni ebraiche, soprattutto grazie ai nonni. Personalmente non ho mai subito episodi antisemiti e nell’educare i miei figli sono molto attenta all’uso di un linguaggio inclusivo e rispettoso della diversità come ricchezza».
Ariela Piattelli e Raffaella Spizzichino 43 e 48 anni, un figlio ciascuna, ideatrici del festival Ebraica
«Entrambe le nostre famiglie sono di origini ebraiche e in particolare i Piattelli sono presenti a Roma fin dai tempi di Tito. Tredici anni fa, insieme a Marco Panella abbiamo ideato Ebraica (ebraicafestival.it), il festival internazionale di cultura ebraica che quest’anno si terrà dal 14 al 18 giugno nell’ex ghetto e affronterà il tema della felicità. Fin dalla sua prima edizione, quando con nostra stessa sorpresa accorsero nell’ex ghetto ben 25.000 persone, Ebraica per noi equivale a una rivincita della storia, perché celebra e fa conoscere la cultura ebraica a livello internazionale proprio lì dove gli ebrei sono stati segregati per secoli. Ancor più di questi tempi, la nostra convinzione è che l’impegno a perpetrare la memoria debba camminare di pari passo a una maggiore conoscenza dell’identità culturale ebraica in Italia. Finché continueremo a raccontare, nulla potrà essere dimenticato».
https://www.elle.com/it/magazine/women-in-society/a30621144/giornata-della-memoria-2020/