Riporto di seguito le affermazioni del Rabbino Riccardo Di Segni riguardo le Leggi universali di Noè e il dialogo Ebraico-Cristiano.
2. Veniamo ora al nostro tema, che è quello di Noè. C’è veramente da chiedersi in che modo abbia a che fare con l’universalismo e con i rapporti tra ebrei e cristiani. Potremmo dire con una battuta che, a prima vista, l’unica cosa di universale nella storia di Noè è il diluvio. La Bibbia racconta l’umanità era arrivata ad un tale punto di degenerazione che D. decise di distruggerla completamente, salvando soltanto una famiglia, quella di Noè, che si era distinto rispetto ai contemporanei per un comportamento giusto e corretto. Mentre tutti perivano sommersi da un diluvio, Noè si salvò con i suoi e con ogni specie animale dentro un’arca. L’intera umanità discende dunque dalla famiglia di Noè; per questo tutte le genti vengono chiamate, nel linguaggio rabbinico, Noachidi, figli di Noè. L’interpretazione rabbinica si è a lungo soffermata a riflettere sui messaggi che il testo biblico manda sulla persona che diventa il nostro comune patriarca e sulla storia della sua salvezza. Di Noè il testo dice, presentandolo, che era giusto e integro nella sua generazione e che procedeva con Dio. Il fatto che il testo precisi che era giusto nella sua generazione, fa pensare che se la generazione fosse stata moralmente un po’ al di sopra, forse Noè non avrebbe fatto quella figura di giusto eccezionale. Ma almeno ai suoi tempi lo era. Quanto a quella che potremmo definire la sua « religiosità », il testo specifica che « Noè procedeva con D. ». Per capire il valore e il limite di quest’ espressione dobbiamo fare un salto in avanti. Di Abramo, il giusto che compare dieci generazioni dopo Noè, il testo dice che ricevette il comando divino di procedere davanti a Lui. Un conto è andare insieme, un conto è precedere. Praticamente Noè faceva il suo dovere, seguiva onestamente le regole, ma non si spingeva oltre con slanci d’entusiasmo. E ancora, sempre a confronto con Abramo: quando gli viene annunciato che l’umanità sarà distrutta e che per scampare dovrà costruirsi un’arca, Noè reagisce come sempre, obbedendo senza fiatare. Abramo, quando gli viene annunciata la distruzione imminente di Sodoma e Gomorra, intraprende un’estenuante trattativa con D. cercando di salvare le città peccatrici. Ci sono persone normali, e ci sono persone speciali. Abramo è il prototipo delle persone speciali. Noè di quelle oneste ma comuni e senza slanci. Il dato notevole è che secondo la Bibbia è bastato essere comune e senza entusiasmi particolari per salvarsi e fondare una nuova intera umanità.
3. E’ noto che la dottrina religiosa ebraica costruisce intorno al nome di Noè e dei suoi discendenti una dottrina di doppia legge e doppia salvezza. L’umanità intera non può sfuggire al giogo della legge divina, che si esprime in almeno sette principi essenziali. Questi principi sono espressi in tradizioni orali rabbiniche che si basano, con maggiore o minore evidenza, su riferimenti scritturali. Nella famiglia umana esiste però un gruppo particolare, quello dei figli d’Israele, anch’essi originariamente Noachidi, ma che in virtù della discendenza da Giacobbe –Israele, nipote e prosecutore di Abramo, si distinguono in quanto devono osservare una normativa molto più estesa, fatta anche di altre regole, in parte religiose cerimoniali. E’ una condizione che potremmo definire sacerdotale e di servizio: « un regno di sacerdoti e un popolo distinto ». Il fatto che gli uni siano sacerdoti con rigori e leggi speciali, e gli altri non lo siano, non preclude agli altri i premi e la salvezza. La grande novità di questa dottrina rabbinica è che non è necessario sottoporsi alla dottrina speciale del sacerdozio Israelita per ottenere i premi futuri che sono promessi agli Israeliti. Universalismo ebraico significa due strade parallele verso la salvezza; è sufficiente che ognuno segua la strada in cui si trova dal momento della sua nascita e ne rispetti le relative norme. Il Noachide, che segue le sue sette regole e ne riconosce l’origine divina, viene definito « il fervente delle nazioni del mondo » e ha parte nel mondo futuro.
4. Queste regole sono: il divieto di ogni culto estraneo a quello monoteistico, il divieto della bestemmia, l’obbligo di costituire tribunali, il divieto dell’omicidio, del furto, dell’adulterio e dell’incesto, il divieto di mangiare parti strappate ad animali in vita. Rappresentano il rispetto imposto sulla creazione, sugli altri uomini e in rapporto con D. Se trasferiamo questi principi dalla teoria alla realtà possiamo vedere che la parte sociale delle sette leggi è patrimonio comune di tutta l’umanità civile; che la normativa sessuale è più o meno condivisa nelle legislazioni civile, ed è certamente è prescritta in quelle religiose; che la norma di rispetto degli animali è raramente trasgredita. La bestemmia è certamente proibita nei sistemi religiosi. Quanto al culto monoteistico, apparentemente non ci sono dubbi per le grandi religioni. Per i cristiani in particolare, poi, il fatto che riconoscano sacralità alla Bibbia vale come riconoscimento dell’origine divina delle norme. Arrivati a questo punto parrebbe che non c’è alcun dubbio sul fatto che ognuno per la sua strada, cristiani ed ebrei osservanti, si possa arrivare alla salvezza promessa. Detto questo, potremmo aver finito, ma le cose non stanno proprio così. E sarà bene spiegarlo, perché i chiarimenti su questo problema illuminano sulle difficoltà attuali del confronto ebraico cristiano e danno gli strumenti per definire gli scenari futuri.
5. E’ necessario a questo punto un chiarimento sulla teologia ebraica, che sul tema del monoteismo e di come sia vissuto dal cristianesimo si dibatte in un dilemma essenziale. Si discute se la divinità di Gesù possa essere compatibile, per un non ebreo (perchè per l’ebreo non lo è assolutamente), con l’idea monoteistica. La risposta a questa domanda nella teologia ebraica, come c’era da aspettarselo, non è univoca: c’è chi la nega fermamente, c’è chi l’ammette a certe condizioni. La conseguenza è che secondo l’opinione rigorosa il cristiano potrebbe non essere nella strada per la salvezza.
6. Posso immaginarmi quale sia la reazione di ogni cristiano davanti a queste analisi. Posso immaginarlo, perché il senso di incredulità, di protesta, di ribellione che si provano sono gli stessi che possono provare gli ebrei quando viene loro detto da autorità cristiane che la loro fede è incompleta, e non può condurre, se non per caso imperscrutabile, alla salvezza. E’ incompleta, perché non coronata dalla fede nella salvezza in Gesù. Molti ebrei hanno protestato lo scorso anno quando un documento ufficiale e notissimo della Chiesa ha ribadito questo concetto. Ma il problema non è tanto quello della convinzione della Chiesa nella necessità per gli ebrei di salvarsi attraverso Gesù. Il vero problema è che cosa si fa di questa convinzione. Se si dovesse applicare alla lettera il sistema delle leggi Noachidi, si dovrebbe fare di tutto perché i Noachidi le osservino, anche per ciò che riguarda il divieto di culti estranei. Ognuno dovrebbe diventare un missionario della fede pura. Eccoci dunque al nodo attuale del dialogo e del confronto. A che cosa serve parlarci? Ciò che veramente da’ fastidio agli ebrei è che sia stato detto in documenti ufficiali cattolici che lo scopo del dialogo è quello di convertire l’interlocutore alla propria fede. E se facessimo anche noi lo stesso, se usassimo ogni occasione di confronto per convincervi che state sì sulla buona strada, ma che dovete « purificare » la vostra fede eliminando ciò che per voi invece è essenziale?
7. La domanda che allora si pone è se vi siano alternative a questo dialogo tra sordi, che rischia di diventare irrispettoso e indecoroso per la dignità di ognuno. Posso provare a immaginare due scenari, diversi ma non necessariamente contraddittori. Il primo è di tipo essenzialmente teologico, il secondo prevalentemente politico. La prima soluzione si riferisce alla possibilità di elaborare in entrambe le parti una dottrina che potremmo chiamare, con un nome indicativo, di salvezza parallela. I cristiani dovrebbero arrivare ad ammettere che gli ebrei, in virtù della loro elezione originaria e irrevocabile, e del possesso e dell’osservanza della Torà, possiedono una loro via autonoma, piena e speciale verso la salvezza che non ha bisogno di Gesù. Non basta dire, come si è fatto proprio recentemente e con un lodevole sforzo di elaborazione dottrinale, che la nostra « attesa non è vana » perché serve a stimolare i cristiani; bisogna dire che noi valiamo in quanto tali e nessuno deve giustificare la nostra fede in funzione di altre. Le conseguenze sarebbero, in concreto, la fine di ogni tentazione cristiana di trasformare il dialogo in un sistema di dolce persuasione, demotivando le diffidenze ebraiche. Da parte ebraica a questo movimento dovrebbe corrispondere l’affermazione del principio che la fede in G. non sia incompatibile, beninteso per i cristiani, non per gli ebrei, con il culto del D. unico. Principio che è accettato in tradizioni autorevoli dell’ebraismo, ma che dovrebbe diventare prevalente e maggioritario. Ne deriverebbe da parte ebraica una maggiore comprensione della spiritualità cristiana. Ora, chiunque abbia una minima esperienza sulle modalità di sviluppo delle teologie in ognuno dei due campi potrà comprendere le difficoltà ad arrivare a questi risultati, almeno in tempi brevi e contestuali tra i due mondi.
8. E allora si propone l’altro scenario, che potrebbe essere definito politico, e che consiste essenzialmente nella volontà di una sorta di moratoria, di una sospensione e di un rinvio all’imperscrutabile volontà superiore alla fine dei giorni. Due grandi ebrei, a distanza di undici secoli, e schierati in campi opposti hanno forse detto la stessa cosa. Il primo, Saul di Tarso, l’apostolo Paolo, davanti al dato per lui inesplicabile dell’incredulità ebraicha, ha formulato in Romani 10:25 l’idea dell’ostinazione di Israele che durerà finchè tutti gli altri popoli non arriveranno alla salvezza, e solo allora « tutto Israele sarà salvato ». Il secondo, Mosè Maimonide, nelle norme sui Re del suo codice (cap. 11), dopo aver denunciato l’invalidità della fede di G., ha comunque formulato un’interpretazione sul significato provvidenziale della diffusione del cristianesimo, « per preparare la strada per il re Messia, e aggiustare il mondo intero al servizio di D. insieme, come è detto ‘perché allora riverserò sui popoli una lingua chiara perché tutti invochino il nome del Signore e lo servano unanimamente’ « (Zef. 3:9). Forse il pensiero parallelo dei due suggerisce la soluzione, che non può essere immediata, ma escatologica. Entrambi abbiamo il diritto di sperare che l’altro riconosca in noi la vera fede, ma lasciamo che la cosa si svolga in tempi lunghi e incontrollabili.