La forza straordinaria del film è che a prima vista sembra non contestare in alcun modo i precetti religiosi, anche quando impongono a una ragazzina di sacrificare il suo futuro e i suoi sentimenti. Eppure, dietro questo sguardo di accettazione, i silenzi, le esitazioni e i comportamenti dei protagonisti compongono un ritratto meno schematico e semplicistico. Insinuano dubbi, insomma, su ciò che sia veramente giusto. E questo è merito della regista – nata a New York e diventata molto religiosa solo dopo il diploma – che usa il cinema proprio per far conoscere la comunità ultra ortodossa al mondo. «Conoscere Rama è stato conoscere l’intera comunità – dice Hadas – Tutti i venerdì sera durante la lavorazione del film andavamo a cena a casa sua, abbiamo assistito di persona a tutte le cerimonie che si vedono nel film: un matrimonio, una circoncisione e abbiamo parlato con un importante rabbino di Gerusalemme. Tutto quello che si vede nel film noi lo abbiamo vissuto per cercare di calarci nei nostri personaggi e nella storia».
Ma lei Hadas, giovane e laica, cosa ne pensa di questo mondo di femmine remissive in una società che non tiene conto dell’evolvere dei tempi?
«Chi guarda da fuori la comunità chassidica pensa che le donne siano messe in un’angolo, che non abbiano diritto di parola. Ma quello che ho imparato dalla regista Rama e dalle altre ortodosse che ho conosciuto sul set è che queste donne sono molto forti, prendono decisioni e scelgono».
In effetti le donne hanno un ruolo predominante come madri (quindi anche trasmettitrici dell’ortodossia) e consigliere. Ma, va ricordato, il matrimonio è quasi un obbligo e spesso è combinato dalla famiglia. Inoltre, le donne non possono studiare la Torah nelle yeshivah (scuole religiose) e dall’ infanzia fino, in età adulta, vivono competamente separate dagli uomini proprio perchè è vietato ogni contatto fisico prima delle nozze. «Grazie a questo filma ho scoperto che esiste una grande comunità di ultra otrodossi a Tel Aviv di cui io non sapevo quasi nulla – ammette la protagonista – Vivono in centro, in una zona molto frequentata, piena zeppa di centri commerciali, negozi e locali. Dopo le riprese, un giorno stavo passeggiando per la strada principale con indosso i vestiti di tutti i giorni e ho incontrato la figlia della regista, una ragazzina molto bella che fa parte della comunità. Lei mi aveva conosciuto solo con gli abiti di scena, simili a quelli che portava lei. Ci siamo salutate, ma l’incontro è stato davvero strano e interessante. Adesso che so dell’esistenza di questa comunità ci farò molto più caso e la guarderò con occhi diversi».
La cronaca di questi giorni impone una riflessione più ampia. Il film racconta una minoranza ma è anche un esempio di convivenza, sottolinea principi e valori che a prima vista si contraddicono e poi trovano una sintesi. E’ questa la chiave del dialogo tra Israele e Palestina? «Non so, mi piacerebbe poter avere la risposta. Quello che è accaduto sul set è che persone diverse, laiche e religiose, hanno lavorato insieme e si sono rispettate a vicenda. Nessuno ha cercato di indottrinare gli altri. Abbiamo capito che ci trovavamo di fronte esseri umani come noi e c’è stato un dialogo profondo» ricorda Hadas.
«Forse è questo il segreto: riuscire a dialogare e a rispettare gli altri, a guardarli sempre come semplici esseri umani, al di là della loro religione o in altri casi la fazione politica o il paese d’origine. Se questo succedesse ovunque, se noi guardassimo il prossimo come un essere umano degno del nostro rispetto, forse riusciremo cambiare le cose per davvero. Almeno è quello che spero».
http://27esimaora.corriere.it/articolo/donne-e-religione-la-lezione-di-shira-giovane-sposa-promessa/