Riccardo Shmuel Di Segni
La Rassegna Mensile di Israel – Vol. 78, No. 1/2, GLI ANIMALI E LA SOFFERENZA: LA QUESTIONE DELLA SHECHITÀ E I DIRITTI DEI VIVENTI (GENNAIO-AGOSTO 2012), pp. 157-165
La shechità, la macellazione rituale ebraica, è stata oggetto in questi ultimi anni di un attacco in varie sedi parlamentari europee. L’attacco non è una novità, sono piuttosto nuove le modalità e l’intensità con cui questo fenomeno si presenta.
1. Origini e significato della shechità
Giova ricordare che l’ebraismo pratica la macellazione rituale fin dalle sue origini. È uno di quei campi in cui il peso della tradizione orale è decisamente prevalente rispetto alla Torà scritta (come detto nel Talmud riguardo altri argomenti: «montagne appese a un capello»; Chagigà, Mishnà 1:8 e Gemarà 10a sgg.) ma questo non deve sorprendere, perché nel sistema giuridico ebraico queste situazioni non sono inusuali. Su certi temi è stata la tradizione orale a definire i particolari, ma questo non significa che le regole abbiano minore importanza. I Maestri hanno trovato un riferimento scritto alla macellazione rituale in un verso del Deuteronomio (12, 21), dove è detto «sacrificherai (vezavachtà) […] come ti ho comandato». Si faccia attenzione al fatto che qui non è usato il termine più tecnico «scannerai» (shachat-ta), ma quello che indica il sacrificio, e, ciò malgrado, a questo verso si appoggia la tradizione sostenendo che l’origine del rito è in un comando divino.
Il contesto in cui il verso compare spiega molte cose; è il brano nel quale si rappresenta un passaggio decisivo, simbolico e significativo della storia religiosa dell’ebraismo: l’entrata nella terra d’Israele con la conseguente dispersione del popolo in un territorio. Fino a quel momento gli ebrei stavano concentrati e vicini al tabernacolo nel deserto e se volevano mangiare carne dovevano prima offrire l’animale in sacrificio. Entrando nella terra, lontani dal luogo di culto centrale, la Torà consente il consumo di carne animale anche al di fuori dell’ambito sacrificale; ma ne conserva alcune forme rituali, come il divieto del sangue e di alcune parti di grassi, e la macellazione, che è la stessa del sacrificio. In altri termini, la macellazione rituale ebraica impiega la tecnica usata fin dalla remota antichità per i sacrifici, una tecnica definita nei minimi dettagli dalla tradizione orale. Questo rito stabilisce un valore aggiunto simbolico alla procedura di macellazione. Questo valore simbolico (sacralizzazione) assume anche maggiore importanza nel momento in cui i sacrifici sono finiti nell’ebraismo con la distruzione del Tempio.
Quest’associazione di idee è confermata da un’analisi linguistica: la radice z-v-ch, che indica il sacrificio e che è stata usata nel verso sopra citato dal Deuteronomio, è vicina alla radice della parola shechità, con la sostituzione della prima radicale zayn con un’altra consonante sibilante, la tet; la seconda radice, t-v-ch, indica la macellazione; l’ebraico moderno mitbach è semplicemente la cucina. Il messaggio è quindi che la macellazione di un animale, anche se per scopi di alimentazione quotidiana, non deve essere un evento banale. Mangiare carne, nell’ebraismo, non è un diritto scontato. L’umanità primordiale era completamente vegetariana. All’alimentazione vegetariana si tornerà nell’epoca messianica, quando cesserà la violenza nella natura e anche le bestie feroci, secondo la profezia di Isaia (11,6: «il lupo dimorerà con l’agnello») non divoreranno altri animali. Nella nostra epoca mangiare carne è un’eccezione tollerata, e non bisogna dimenticarlo.
Alla domanda perché gli ebrei pratichino «ancora oggi» la macellazione rituale, un ebreo osservante risponde che è una prescrizione religiosa particolare, di origini remote e intoccabile. Questo non vuol dire che l’ebraismo ignori la problematicità della questione e non si interroghi sul significato del rito. Una linea prevalente di interpreti sostiene che la shechità è il modo migliore per togliere o ridurre al minimo la sofferenza e il dolore. La sofferenza animale, tza’ar ba’alè chayim, va evitata ed è uno dei principi della legge ebraica in cui si consentono atti altrimenti proibiti per evitare le sofferenze (ad es. autorizzando la mungitura di sabato se l’animale altrimenti ne soffrirebbe).
La spiegazione umanitaria non è tuttavia esclusiva. Un altro argomento che viene addotto è quello che la shechità serve a far defluire il sangue: poiché il sangue è proibito, bisogna farlo uscire nella maniera più completa e abbondante possibile. È stato notato che la parola shechità (macellazione) è molto simile alla parola sechità che significa spremitura, come una sorta di spremitura dell’animale per fare uscire il sangue, che è la vita.
Le scuole mistiche hanno aggiunto ulteriori significati, interpretando simbolicamente tutti i dettagli del rito (la lama, le tacche che vanno rimosse, il taglio della trachea e dell’esofago ecc.). Tutto questo fa parte della tradizione, ma deve essere chiaro che la componente interpretativa è pur sempre aggiuntiva e marginale rispetto all’esistenza del rito e della sua indiscussa obbligatorietà.
2. L’opposizione alla shechità nella storia
In mezzo a popoli e culture che praticano sacrifici, o che, pur non facendo sacrifici, hanno modalità tradizionali e quasi rituali di macellazione (si pensi alla macellazione del maiale nelle culture rurali italiane fino a pochissimo tempo fa), l’esistenza di un rito ebraico particolare non determina di per sé forme di opposizione, a meno che non si voglia attaccare l’ebraismo e gli ebrei. Il conflitto con la macellazione rituale nasce o come pretesto per attaccare l’ebraismo o per un’opposizione culturale.
Uno degli esempi più antichi e documentati di opposizione culturale potrebbe essere la sensazione di abominio (to’èva) che gli egiziani provavano nei confronti dei pastori e dei sacrificatori di animali (Genesi 46, 34; Esodo 8, 22) e, in questa chiave, l’istituzione del qorban Pesach, il sacrificio pasquale, può essere letta come una rivolta culturale ebraica contro il sistema religioso egiziano.
In vari momenti della storia vi sono stati degli attacchi al rito ebraico. Nell’epoca dei ghetti non era proibito, ma spesso venivano emessi decreti per limitarne l’effettiva esecuzione. Qua si impone una spiegazione, che serve anche per capire una delle difficoltà attuali. L’esercizio della macellazione rituale ebraica ha bisogno di una collaborazione, una sponda nel mercato non ebraico. Se per qualche motivo il taglio non è andato bene, conformemente alle regole, l’animale non può essere mangiato. Inoltre, subito dopo la macellazione si procede all’ispezione degli organi interni. Se sono presenti alcune alterazioni (terefot) l’animale non può essere consumato. E ancora: un’altra regola prescrive l’eliminazione di certe parti, come tutto ciò che è collegato al nervo sciatico e alle sue ramificazioni; questo significa che bisogna disporre di «escissori» del nervo (menaqerim) molto esperti o direttamente rifiutare i quarti posteriori dell’animale.
In pratica questo significa che su cento quadrupedi macellati ritualmente, circa solo il 30% delle loro carni arriva nelle macellerie kasher, mentre il resto è costituito dai quarti posteriori e/o animali scartati per alterazioni o incidenti rituali. È evidente che con queste cifre non è possibile mantenere la macellazione ebraica se non c’è disponibilità del mercato generale a smistare le parti rifiutate. La cosa è possibile perché l’altra parte ne ha una convenienza (ad es. i quarti posteriori possono essere più pregiati); se questo salterebbe il sistema. Di solito la valutazione è economica, ma talvolta entrano in gioco altri fattori. Ad esempio nell’epoca dei ghetti, tra i cristiani, considerava disdicevole e indecoroso che i cristiani si cibassero di ciò che gli ebrei scartavano. Da qui una serie di decreti che proibivano ai macellai il riciclo delle parti scartate dagli ebrei. La conseguenza non poteva essere che quella della sospensione della macellazione ebraica, ma non sappiamo bene quanto queste norme, antieconomiche per il mondo cristiano, abbiano retto nel tempo e siano state effettivamente applicate.
Da più di un secolo l’opposizione nei paesi occidentali si basa formalmente su principi di difesa animalistica, partendo dall’idea che la modalità ebraica induca sofferenze per l’animale, evitabili con altri sistemi di macellazione. L’esempio classico è la normativa svizzera, dove la shechità fu proibita dal 1893, con successive conferme sia nella costituzione federale e nella legge per la protezione degli animali. Gli storici mettono in evidenza come nelle prime decadi del referendum (l’iniziativa fu approvata con una maggioranza del 60%) non fosse estraneo un sentimento antiebraico, dimostrato dalla distribuzione geografica dei voti (contrari al rito nei cantoni tedeschi, indifferenti nell’area francese, favorevoli nel Ticino). La Svezia proibisce la macellazione rituale con analogo procedimento dal 1937.
Un contributo decisivo contro la shechità è venuto dalle legislazioni francamente antisemite. In Germania la shechità fu bandita poco dopo la presa del potere da parte dei nazisti. L’Italia la seguì sotto le leggi razziali. È interessante notare che certe disposizioni naziste antiebraiche avevano una facciata di normalità e di difesa dei diritti. Per la shechità, si trattava della protezione degli animali. Nella Polonia appena occupata l’uso dei bagni rituali (miqwaot) fu proibito dai nazisti per motivi igienici.
3. Gli sviluppi recenti
Quello che sta succedendo negli ultimi anni in Europa è il risultato di complesse interazioni: i processi di trattamento delle carni subiscono una progressiva industrializzazione concentrata e controllata, con maggiore attenzione ad aspetti qualitativi e igienici e con un progressivo distacco del pubblico dall’abitudine e dalla visione diretta della macellazione; l’Unione Europea spinge a dispositivi legislativi comuni; il fenomeno migratorio da venti anni ha cambiato i connotati alla società europea e rinfocolato sentimenti xenofobi; i partiti «verdi» a protezione dell’ambiente e della natura, forti di un’ideologia molto spesso radicale, raccolgono sempre più consensi.
In queste condizioni nascono paradossi: si creano alleanze trasversali inusuali tra xenofobi e difensori dell’ambiente; e mentre l’Europa sembra piangere sempre di più il ricordo della Shoà, dichiarando di proteggere i diritti delle minoranze religiose, alcuni riti fondamentali che esprimono la religiosità ebraica vengono messi in discussione.
È interessante notare che i due riti sotto accusa (macellazione rituale e circoncisione) non siano solo ebraici ma condivisi dalla religione musulmana, per quanto le regole con cui li pratica non siano identiche. Talvolta l’attacco è diretto, senza mezzi termini, contro l’immigrazione musulmana. Nel Nord Italia hanno scatenato scandalo e reazioni i comportamenti di alcuni musulmani che durante la festa del Sacrificio scannavano capretti in balcone, o i modi incauti e pericolosi con cui è stata messa a rischio la vita dei bambini con circoncisioni praticate da inesperti. La reazione xenofoba e lo scontro di culture si alimenta con la inadeguatezza dell’altra parte, di recente migrazione e con scarsi strumenti culturali, di capire la sensibilità maggioritaria. In ogni caso l’attacco contro le pratiche islamiche si ritorce contro quelle ebraiche. In certe condizioni, in realtà, solo contro quelle ebraiche. Perché ad esempio alcune autorità religiose musulmane potrebbero permettere lo «stordimento» prima della macellazione rituale, mentre la halakhà, la legge ebraica, non lo consente. Quindi alla fine la legge penalizza solo il rito ebraico.
4. Stordimento ed etichettatura
L’attacco giuridico alla shechità impiega oggi due sistemi principali: l’imposizione dello stordimento e l’etichettatura. Il primo si sta diffondendo nei parlamenti nazionali, il secondo riemerge ciclicamente nel parlamento europeo.
Non potendo proibire semplicemente la macellazione rituale, perché potrebbe sembrare una limitazione eccessiva di un diritto religioso, si prescrive che questa possa essere fatta, purché preceduta da «stordimento». Così non si toglie un diritto, si proteggono due cose insieme, religione e diritto dell’animale. Stordimento (in inglese stunning) è in realtà un eufemismo, una piccola-grande truffa linguistica. Dovrebbe trattarsi di metodi sicuri e veloci che privano l’animale dalla sensibilità dolorifica prima della sua morte. I metodi sono diversi, a seconda delle specie animali e dell’organizzazione di cui si dispone. Possono essere l’esposizione a una forte scarica elettrica, o l’inalazione di gas (CO2) o più comunemente, per il tipo di bestiame che ci interessa, il colpo di pistola iniziale con chiodo «captivo» (che penetra e poi viene retratto automaticamente). L’argomento dei difensori dello stordimento è che con questi sistemi si eliminano immediatamente le sensazioni dolorifiche, a differenza della shechità che a loro dire è dolorosa di per sé e che comunque comporta un’attesa di alcuni secondi perché la sensibilità scompaia.
La risposta dei difensori della shechità senza stordimento si sviluppa su vari piani. Va preliminarmente chiarito che uno stordimento eseguito con uno dei metodi sopra descritti rende l’animale taref, inadatto all’alimentazione, ancora prima della shechità. Così come è, lo stordimento è una soluzione improponibile in termini halakhici. Contro l’imposizione, i difensori della shechità insistono prima di tutto sul principio che i metodi di stordimento non sono così sicuri, veloci e indolori come vogliono fare credere. L’esperienza di un elettroshock da svegli è terribile; le esecuzioni umane negli Stati Uniti con la «sedia elettrica» mostrano che ci vuole un bel po’ per togliere vita e coscienza ai condannati. L’esposizione ai gas è soffocante, terribilmente angosciante, per tutti i sistemi respiratori. Il colpo di pistola abbatte l’animale ma non lo rende insensibile totalmente. Inoltre frammenti di osso e tessuto cerebrale possono diffondersi nel corpo (con rischio di trasmissione di parti infette). La maggiore o minore sensibilità residua a queste procedure, a confronto con quella provocata dalla shechità, è oggetto di un grande dibattito scientifico.
Bisogna ricordare che, con la shechità, le regole che disciplinano la procedura (lama affilatissima, lunga e senza tacche, senza esercitare pressione) ne garantiscono la minima dolorabilità; il taglio di trachea ed esofago dissangua l’animale e la pressione crolla con disattivazione della coscienza cerebrale. Si tratta di vedere, dal punto di vista scientifico, chi arriva prima all’anestesia. I protettori dello stordimento portano degli studi scientifici che con lo stordimento il risultato è molto più precoce, ma si tratta di studi di discutibile rigore tecnico. Gli stessi sistemi di rilevamento, anche se fossero correttamente utilizzati, hanno margini di affidabilità limitati. Uno di questi studi è stato alla base della decisione di proibire la shechità nel parlamento olandese; ma l’analisi dei metodi impiegati (da chi stesso era stato commissionato ed eseguito lo studio) ha mostrato limiti di affidabilità. Ammesso poi, e non concesso, che si dimostrasse l’efficacia dello stordimento, si tratterebbe della differenza di pochi secondi (3-5 circa 30, con grandissima variabilità).
Il problema non è solo tecnico scientifico. Chi accusa la shechità rinfaccia agli ebrei una metodica che considera brutale e dolorosa. Noi rispondiamo che è una metodica che potrebbe essere antidolorifica, ma che è tecnicamente superata da sistemi migliori; quindi ci dicono che se è vero che noi vogliamo evitare sofferenze all’animale dovremmo utilizzare i metodi più recenti. Ma anche se si dimostrasse che effettivamente lo stordimento fa soffrire un po’ di meno, resta il fatto che noi abbiamo a che fare con una tecnica ritualizzata, codificata, presente da migliaia di anni e che rappresenta uno dei pilastri della nostra tradizione religiosa. Il rito si pratica non per le motivazioni antidolorifiche che la tradizione gli attribuisce, ma perché è prescritto. Il fatto che noi riteniamo che sia antidolorifico ci conforta e ci sostiene, ma comunque non lo possiamo sostituire. L’alternativa è semplicemente non mangiare carne. In questa chiave di lettura si tratta quindi di una contrapposizione di diritti: quello religioso di praticare i propri riti, e quello dell’animale di essere tutelato nella sua presunta sofferenza. Per noi il conflitto non c’è perché crediamo che l’animale sia già tutelato. Ma a parte questo, è evidente che c’è un conflitto di diritti, di ideologie e di religioni (in un certo senso lo è quella animalistica), che si pone con tutta la durezza e violenza propagandistica che un tempo caratterizzava le guerre di religione.
Tanta sollecitudine per un diritto dell’animale — quello di non soffrire morendo, che noi concordiamo debba essere difeso — stride con il ridotto o mancato attivismo in tanti altri campi di sofferenza animale nei quali sarebbe quanto mai opportuno un intervento legislativo, come ad esempio le modalità di allevamento intensivo e di trasporto. La durezza dogmatica su uno specifico tema da una parte e l’indifferenza su altre situazioni dall’altra denunciano una sostanziale incoerenza, o ipocrisia, sotto la quale si nascondono a fatica motivi ben diversi di opposizione.
Sul conflitto dei diritti c’è da riflettere perché si tratta di definire che cosa si intenda per libertà religiosa. Se la si misura con il parametro della propria cultura, chi difende la libertà religiosa tende a garantire agli altri quello che lui fa già: se si va in un luogo di culto, o si hanno i propri ministri, o si predica, anche l’altro ha diritto al suo luogo, ai suoi ministri e a predicare; ma se l’altra religione fa cose diverse come macellare o circoncidere, il concetto di libertà e di diritti religiosi va meglio definito. E questo è un problema che si apre stranamente proprio ai giorni nostri, dopo secoli di lotte per la libertà religiosa, forse perché c’è sensibilità per diritti «nuovi» per cui finora non si era combattuto mai o abbastanza. Ma non c’è solo un bel problema filosofico o giuridico; come nota giustamente rav Jonathan Sacks, l’antisemitismo degli ultimi decenni ha trovato un nuovo fondamento. Prima si basava sull’autorità della religione, poi si è basato su quella della scienza, ora parla la lingua dei diritti umani. I riti ebraici e/o i comportamenti degli ebrei calpesterebbero dei diritti umani. Agli ebrei, per carità, ma certi loro comportamenti non sono accettabili per la società civile. Insomma vecchie storie servite in abiti linguistici (quasi) nuovi.
L’altra modalità sofisticata di attacco alla shechità che si è manifestata nel parlamento europeo, dopo che gli altri metodi non avevano avuto successo, è quella dell’etichettatura. Il concetto di etichettatura nasce da necessità nobili, quella di difendere il consumatore, che deve sapere il più possibile sulla provenienza di un oggetto che acquista (che sia un abito, un cibo o un utensile qualsiasi), e quella di renderlo corresponsabile della sua scelta: sei libero di acquistare, ma devi sapere che per produrre quel bene è stato impiegato materiale di origine qualitativa o morale discutibile (ad esempio sfruttando il lavoro di minori o di manodopera malpagata).
In campo alimentare l’etichettatura dovrebbe raccontare all’acquirente che la fettina che compra deriva da un animale cresciuto in un certo paese, con certe tecniche di allevamento, poi trasportato e quindi macellato con certe garanzie. Se il principio è giusto, gli abusi non si escludono, perché l’informazione potrebbe essere deformata, allarmistica, a tutela solo di certi interessi. Nel campo della macellazione si tenta di chiedere di indicarne le modalità; in caso di macellazione rituale, alla fine la formula sarebbe «proveniente da animale non stordito prima della macellazione». E quale acquirente con un minimo di sensibilità, non altrimenti informato, non si scandalizzerebbe davanti a un’informazione del genere, e quale commerciante, grossista e al dettaglio, non eviterebbe di far circolare dei prodotti che la gente sarebbe riluttante a comprare?
C’è da chiedersi perché preoccuparsi se questo riguarda la carne che finisce nelle macellerie kasher. Ma come si è spiegato prima, di quanto sottoposto a macellazione rituale il 70% va nel circuito generale e se non ci andasse la macellazione sarebbe impossibile. Ecco allora che questo tipo di etichettatura diventa uno strumento indiretto ma non meno efficace per bloccare la shechità.
5. Conclusioni
La sicurezza in cui ci si illudeva come ebrei di vivere in Europa supertutelati nei nostri diritti religiosi ce la possiamo dimenticare. La frequenza degli attacchi ai riti ebraici è in crescita. Lo stesso sistema legislativo italiano, che è tutelato dalle Intese, potrebbe non dare garanzie sufficienti. In ogni recente legislazione nazionale è stato presentato un disegno di legge contro la macellazione senza stordimento, talora di fonte animalista, talora in funzione anti-islamica (ma che come si è visto fa pagare a noi le conseguenze), o di entrambe le forze associate.
Poi ci sono le iniziative locali, come quella presentata nell’ottobre 2011 dalla Lega Nord al Consiglio Regionale della Lombardia, annunciata all’ultimo minuto e fortunatamente bocciata con la stessa rapidità con cui era apparsa. E ancora ci sono le iniziative locali «fai da te» come le minacce di obiezione di coscienza da parte di operatori del settore come i veterinari addetti ai macelli. Insomma una situazione di continuo allarme in cui non bisogna mai smettere di vigilare.
