LA RASSEGNA MENSILE DI ישראל ISRAEL già diretta da DANTE LATTES
Elul 5726-Tishri 5727 – Settembre-Ottobre 1966 – NEL PRIMO CENTENARIO DELLA SCOMPARSA DI SAMUEL DAVID LUZZATTO – VOL. XXXII – N. 9-10 (Terza serie)
Trasposizione elettronica a cura di Morasha.it
Yoseph Colombo – La polemica col Benamozegh
La posizione di Samuel David Luzzatto verso la Kabbalà, le ragioni per le quali egli non considerava le dottrine kabbalistiche parte essenziale dell’Ebraismo, anzi le riteneva perniciose alla retta comprensi della civiltà ebraica, rappresentano indubbiamente un aspetto importante della sua personalità e del suo insegnamento. A lumeggiarle e a coglierle nella loro precisione, serve molto bene l’esame della polemica intercorsa fra lui ed Elia Benamozegh e sviluppatasi, un secolo fa, nell’ultimo periodo della vita del Luzzatto. Questa polemica si svolse, non tanto su riviste o periodici, quanto attraverso un nutrito scambio di lettere fra i due dotti e attraverso la pubblicazione, da parte di ognuno dei due, di monografie sull’argomento.
Il dibattito scende talora a questioni di dettaglio; tuttavia esso investe sempre questioni di principio, sì che, al di là dei particolari sui quali i due Maestri sono in disaccordo, si intravvede, e spesso appare ben chiaro, il loro differente punto di vista nel concepire e intendere l’intero Ebraismo, nonché il loro diverso temperamento di uomini e di studiosi.
Questo dibattito che, per la gravità dell’argomento, per l’autorità dei due partecipanti e per la vivacità delle due posizioni, non esito a considerare il più importante, fra quanti sono sorti fra dotti o rabbini del secolo scorso in Italia, io feci oggetto di studio trentatre anni fa, quando il Circolo di cultura ebraica di Padova organizzò un ciclo di su la figura e l’opera di Samuel David Luzzatto e affidò a me la trattazione di questa polemica. Il mio studio, nella forma originale di conferenza al pubblico, fu pubblicato nel fascicolo di febbraio-aprile 1934 della Rassegna, che ospitò, in diversi fascicoli, tutti i contributi degli oratori partecipanti a quel ciclo, e certo tutti più autorevoli di me per dottrina. Non mi risulta che da allora su questo tema siano state fatte ulteriori ricerche, o siano venuti alla luce nuovi elementi, anche se verso ognuno dei due dotti fra cui si accese il dibattito non è mancato né l’interesse degli studiosi, nè, specie per il Benamozegh, quello dei giovani, avidi di accostarsi alle voci più calde e agli interpreti più vivaci dei nostri valori ideologici. D’altra parte, il fascicolo del ’34 in cui fu pubblicato il mio studio è ormai, come tutte quelle annate lontane, diventato raro o comunque non facilmente reperibile, e certo quel che esso conteneva è sconosciuto ai lettori della nuova generazione. Per questo, il riprodurre qui le mie pagine nelle loro parti essenziali, con qualche lieve ed opportuno ritocco e con qualche aggiornamento nelle note, mi pare omaggio doveroso alla celebrazione del centenario di Samuel David Luzzatto.
La questione particolare su cui il dibattito si svolse si può così formulare: La Kabbalà, non già nel senso più esteso e più letterale di tradizione, ma nel senso più ristretto e più comune della parola, usata a designare quella particolare parte della tradizione che contiene una interpretazione metafisica e mistica della Torà, che è quanto dire della storia e della legge ebraica, in che rapporto trovasi con la parte decisamente e senza dubbio genuina e autorevole dell’Ebraismo, cioè con la Torà stessa e con la tradizione ufficiale, iniziatasi con Ezra al ritorno dalla Babilonia e proseguita ininterrottamente attraverso le schiere dei Tannaìm, o dottori della Mishnà, degli Amoraìm, o dottori del Talmùd, è dei Gheonìm? E, per conseguenza, è o non è tale filosofia parte vera ed autentica dell’Ebraismo?
Che tale questione sia qualche cosa di più che una questione di dettaglio, appare subito da alcune lettere giovanili di Luzzatto. Già in una lettera diretta a Isac Samuel Reggio il 30 giugno 1820[1] egli dice di meditare da più di un lustro, pensate che non ha ancora vent’anni, un piano per medicare i mali che affliggono l’Ebraismo e che consiste nel ripristinare la religione sul piede in cui vigeva diciassette o diciotto secoli sono, togliendone tutti quei dogmi che nelle età posteriori vi si introdussero». In una seconda lettera di circa un mese dopo al medesimo Reggio, si esprime forse più energicamente:
«Nostra cura sia di non tanto abbattere, quanto edificare; puntelliamo e consolidiamo il massiccio del vasto monumento… Non sia il nostro scopo, nell’impugnare i pregiudizi, che divier più autenticare con ciò i veri cardini della religione e di dimostrare quanto augusta ella sia, qualora depurata verga dalle inezie che ministri interessati vi introdussero»[2].
E finalmente, in una lunga lettera scritta in ebraico il 4 settembre 1820 a Samuel Vita Lolli, parla di una operetta già composta, intitolata Discussione intorno alla Kabbalà, in cui ha messo in evidenza cito testualmente:
«il danno che viene all’Ebraismo dalla Kabbalà, onde io mi propongo, per la gloria di Dio e per l’amore che porto al mio popolo, di demolire completamente e sradicare questa mala pianta»[3].
Quando Luzzatto scriveva queste lettere, Benamozegh non era ancora nato, ma Leopoldo Zunz aveva fondato da appena un anno a Berlino, insieme col Moser e col Gans, quella Società per la cultura ebraica, Verein für Kultur und Wissenschaft der Juden, a cui si iscrisse anche Enrico Heine e che ebbe presto il suo organo nella Rivista per la scienza del Giudaismo; in quello stesso anno 1820 a Vienna, Shalom Coen fondava un periodico celebre, dal titolo promettente, Bikkurè Ha’ittìm («Le primizie dei tempi») ove collaborerà Salomone Rapoport, dotto di Polonia. Con lo Zunz e col Rapoport forma il Luzzatto la triade che caratterizzò la ripresa della scienza del Giudaismo in Europa al principio del secolo passato. La seconda metà del secolo a loro precedente aveva veduto l’opera e la propaganda di Mendelssohn che tendeva, come è noto, ad avvicinare gli Ebrei alla cultura europea; ma a cinquant’anni circa di distanza dalla morte di Mendelssohn si potevano ormai considerare e valutare con esattezza le conseguenze a cui l’idea mendelssohniana, unita nel filosofo di Dessau ad una fede sincera[4], aveva portato gli animi dei suoi amici e dei suoi immediati discendenti. Le numerose apostasie di Berlino avevano dimostrato a quale pericolo si vada incontro quando si cerchi la soddisfazione al bisogno intellettuale di scienza fuori dell’Ebraismo; per cui l’intento di Zunz, di Rapoport, di Luzzatto e di tanti altri grandi della prima metà del secolo scorso fu quello di creare una attività scientifica nel seno stesso dell’Ebraismo che sottomettesse i testi dell’Ebraismo stesso ad uno studio critico da compiersi secondo i metodi moderni. Zunz creò così la storia della letteratura ebraica, Rapoport riprese lo studio critico della storia stessa di Israele, Luzzatto, secondo la felice espressione di uno storico moderno, «elevò presso gli Ebrei gli studi biblici alla dignità di vera e propria specialità scientifica»[5], mentre Reggio e Krochmal[6], per tacere di altri, cureranno la parte filosofica. Naturalmente, se anche è possibile determinare tra questi dotti questa specie di divisione del lavoro, è chiaro che la loro attività scientifica presupponeva il possesso, ovvero la conquista da parte di ciascuno di essi, di un chiaro e personale concetto di quel che fosse l’Ebraismo. Ognuno ebbe nella scienza dell’Ebraismo il posto cui meglio lo invitava il suo temperamento di studioso, ma l’Ebraismo è, sia pur nella poliedricità dei suoi lati, un che di unico, di modo che qualunque parte se ne studi, anche quando ci si voglia restringere ad uno studio puramente filologico, è necessario possederne un’idea complessiva e generale. Orbene, come vedemmo, quest’idea dell’Ebraismo è già chiara, anche se non completamente formulata, nel Luzzatto del 1820. E per il nostro argomento interessa prender nota che fino da quell’anno egli, che pur non ha scritto finora che giovanili composizioni non dottrinali, ha già scritto un Dialogo sulla Kabbalà: segno che, sulla sua strada egli aveva trovata questa dottrina, segno che, per determinare il vero concetto dell’Ebraismo, egli dovette ben presto chiedersi che conto fare della dottrina cabbalistica, segno che domandarci che cosa Luzzatto pensasse della Kabbalà è ricerca non particolare e sporadica, ma essenziale per conoscere o almeno intravvedere l’idea luzzattiana dell’intero Ebraismo.
Nel Bikkurè Ha’ittìm la collaborazione del Luzzatto cominciò nel 1825 del 1829 è la sua prima lettera al Rapoport (27 agosto), di lui più anziano di dieci anni, una lunga lettera in un ebraico limpidissimo, nella quale dice di essersi deciso a scrivere al già famoso Maestro polacco, poiché, quand’era passato da Gorizia diretto a Padova, il Reggio gli aveva mostrato uno scritto appunto del Rapoport con elogi per lui[7]. In questa lettera dice del Rapoport: «È sorto in Israele un uomo dei miei sentimenti col quale infatti si apre e si confida, e gli dà notizia di avere tra l’altro già composto un libro sulla Kabbalà per dimostrare la tardiva composizione dello Zòhar. Questa seconda opera sulla Kabbalà, composta certo fino dal 1826, rimase nel cassetto fino al ’52, anno in cui, per le nozze di Graziadio Isaia Ascoli, fu pubblicata dall’autore, quale omaggio augurale, col titolo ebraico di Vikùach ’Al Hakabbalà e col titolo francese di Dialogues sur la Qabbale (Gorizia, 1852)[8].
Luzzatto non ritiene la Kabbalà parte costitutiva della dottrina ebraica. Scrive nella sua Teologia: «La religione – notate qualche debole eco mendelssoniana – non è una dottrina speculativa, ma una disciplina pratica, che non comanda di credere, ma di ubbidire alla ragione ed alla naturale umana costituzione»[9].
Fonti della dottrina ebraica sono per lui la Bibbia e il Talmùd, niente altro perché non c’è bisogno di altro. Che cosa manca al Talmùd e alla Bibbia perché ci debba esser bisogno di qualche altra cosa? I libri kabbalistici contengono una interpretazione metafisica e mistica sia della Bibbia che del Talmùd. Ora tale interpretazione è per Luzzatto completamente fuori del vero spirito dell’Ebraismo il quale è una religione e non una filosofia, né tanto meno una metafisica. I libri kabbalistici non hanno quindi alcun valore ufficiale; sono una superfetazione che forse è stata utile o almeno giustificabile in tempi di persecuzione (i primi kabbalisti, egli dice, furono al tempo della prima Crociata) ma della quale conviene depurare l’Ebraismo. Il Reggio riteneva, come già ai suoi tempi Maimonide, che filosofia e religione potessero insieme disposarsi verso un unico fine, che la filosofia potesse suffragare col ragionamento i dogmi della religione, e scrisse appunto un’opera intitolata Hatorà Vehaphilosophia (Vienna, 1827), ma Luzzatto non è di questo avviso e all’amico che gliene dava notizia rispondeva che la pacificazione vera tra filosofia e religione può aversi soltanto con la netta demarcazione dei reciproci confini e col depurare la religione da ogni intrusione e infiltrazione filosofica[10]. La Kabbalà pretenderebbe di essere la filosofia dell’Ebraismo, più che filosofia una metafisica, una dottrina continuamente preoccupata di interessi metafisici e metapsichici, volta cioè a chiarire i rapporti tra Dio ed il mondo, tra Dio e le creature, tra Dio e l’uomo. Queste esigenze esulano, l’abbiamo visto, dagli interessi mentali di Luzzatto ed egli perciò ripudia la Kabbalà. Tutto il pensiero di Luzzatto intorno a questo argomento oscilla fra la dimostrazione di queste due tesi: prima, essere la dottrina cabbalistica fuori della religione ebraica, proprio per essere filosofico-metafisica; seconda, essere i testi ove tale dottrina è contenuta lo Zòhar specialmente di composizione relativamente recente, non prima di Dante, scrive esplicitamente, che è quanto dire alla fine del Medio Evo, e perciò privi di ogni autorità[11].
Il Vikùach è un libro interessantissimo, diviso in quattro parti e contenente una serrata conversazione fra due interlocutori, designati l’uno coll’epiteto di hamechabbèr–il compilatore) e l’altro di haorèach–l’ospite. L’esordio dice tutto. I due si incontrano in una yeshivà, la sera di Hosha’anà rabbà, settima di Sukkòt, durante il Limmùd che in certe comunità, a Livorno per esempio, si usa ancora compiere in tale sera. Non è a caso che l’autore collochi in tale occasione l’incontro tra i due interlocutori, perché proprio intorno al significato della giornata di Hosha’anà Rabbà i kabbalisti hanno molto scritto e il Limmùd stesso che si suole tenere in tale nottata, o almeno nella serata fino a mezzanotte, è giustificato e voluto da ragioni kabbalistiche. L’ospite è un polacco sconosciuto che, di passaggio per la città, capita al Limmùd, ma dopo un po’ si addormenta, ovvero prende parte attiva finchè si leggono brani biblici e tutto il libro dei Salmi, poi si mette a dormire; e svegliatosi solo alla fine del Limmùd, pretenderebbe di avere ragione, giustificandosi col dire che la notte è fatta per dormire e traendo da ciò motivo per criticare l’istituzione del Limmùd a cui aveva assistito, anzi la stessa tradizione rabbinica che considera il giorno di Hosha’anà Rabbà la fine del ciclo penitenziale cominciato a capo d’anno. Da ciò il discorso scivola sulla questione dell’autorità e della autenticità dei libri kabbalistici, e sull’antichità della dottrina stessa contenuta in tali libri. L’ospite si rivela uomo colto, e a mano a mano che la conversazione si sviluppa, in quattro giornate, al Tempio, fuori, e in casa dell’autore, con la consultazione di opere di ogni genere, il mechabbèr stesso mostra di aderire sempre più alla tesi dell’ospite decisamente anti-kabbalistica.
La tesi principale è quella di negare autorità ai libri kabbalistici. Il mechabbèr crede dapprincipio di poter sostenere l’autenticità dello Zòhar, in quanto lo Zòhar stesso riporta la sua dottrina sotto i nomi dei dottori della Mishnà e del Talmùd. Ma il contradditore non è convinto, e oppone che, mentre per le altre fonti la tradizione ininterrotta ce ne attesta e garantisce l’autenticità, ciò non avviene per la dottrina contenuta nello Zòhar. L’autore non è alieno dall’ammettere un misticismo antico nei Talmùdim e nei Gheonim e ritiene anche che i dottori del Talmùd abbiano avuto una dottrina segreta non esplicitamente contenuta nelle loro pagine; ma pensa che tale dottrina, se pur c’era, è andata dimenticata e non si è tramandata per tradizione; tanto è vero che alcuni kabbalisti, come Arabad, dicono di avere ricevuto la loro dottrina per rivelazione diretta da Elia profeta.
Luzzatto riconosce che del Sèfer Yetzirà, l’altro grande monumento kabbalistico oltre lo Zòhar, c’è notizia esplicita nel Talmùd e ha perciò per il Sèfer Yetzirà un concetto diverso di quello che ha per lo Zòhar, ma, dice, il Sèfer Yetzirà non è tutta la Kabbalà. V’è certo nel Sèfer Yetzirà la dottrina fondamentale delle sefiròt; ma esse non hanno per lui niente più che un significato matematico. Per i kabbalisti, invece, le sefiròt sono bene altro: sono vere ipostasi metafisiche, emanazioni dell’attività creativa di Dio nel Suo discendere verso le creature e verso l’uomo.
Con le questioni che direttamente riguardano l’antichità e l’autenticità della dottrina kabbalistica vera e propria, è strettamente unita, per Luzzatto, un’altra questione che inevitabilmente viene associata alle prime nel Vikùach: quella dell’antichità della vocalizzazione e della accentazione dei testi biblici. Le due questioni sono legate, perché spesso e volentieri lo Zòhar fonda le sue interpretazioni non solo sulle lettere del testo che commenta, ma anche sulle vocali e sui te’amìm o accenti musicali. Ora Luzzatto ritiene, come è noto, che i punti vocali siano stati introdotti piuttosto tardi, nel 500 dell’E. V. cioè molto più tardi di quando vuole la tradizione, che li attribuisce a Ezra[12]. E così i te’amìm, certo dopo la chiusura del Talmùd. E furono introdotti da scuole di dottori desiderosi di evitare la corruzione dei testi e fissarne la lettura. Come potere allora basare interpretazioni esoteriche delle locuzioni bibliche, sui punti vocali e sui te’amìm, se gli uni e gli altri sono opera umana e opera tardiva, compiuta per uno scopo pratico e didascalico che nulla sa né vuole sapere dei misteri della Kabbalà? E d’altra parte, se il libro dello Zòhar spesso si riferisce ai punti vocali, segno che li conosce, segno dunque che è tardivo anch’esso, più dei punti vocali stessi.
Questo libro, che reca la dedica a Graziadio Isaia Ascoli del dicembre 1851, fu pubblicato nei primi mesi del ’52[13]. Proprio con questo libro si inizia il dibattito che ci interessa perchè l’autore ormai non è più il giovane delle prime affermazioni del 1820 e della prima timida lettera al Rapoport; è invece uno scienziato di 52 anni, che da 23 anni è al Collegio di Padova e ha già pubblicato opere di larga risonanza europea in italiano e in ebraico. E perchè già a Livorno, in un ambiente del tutto diverso, è sorto ormai e si è nutrito di buoni studi tradizionali e filosofici un giovane che alla meditazione dell’Ebraismo si è già avvicinato da un pezzo con la luce brillante dell’ingegno e con l’ardore dell’animo sacerdotale, innamorato del Divino, Elia Benamozegh.
Nato a Livorno nel 1823, di 23 anni dunque più giovane del Luzzatto, Benamozegh aveva avuto tutta altra formazione spirituale. Nato quando il padre aveva già 71 anni, era stato educato dallo zio materno Rabbino Curiat di una famiglia di dotti marocchini emigrati da Feż. Ma era stato soprattutto un autodidatta che a Livorno aveva trovato ricco materiale e una tradizione fiorente di studio, consacrata e conservata nelle opere di dotti celebri come Malakhì Hakoèn, Abraham Castello, Yacob Ergas, H.I. David Azulài[14]. Questa tradizione era tutta cabbalistica! Con lo zio materno Curiat, Benamozegh giovanetto aveva letto due volte da cima a fondo tutto lo Zòhar. A sedici anni aveva scritto una prefazione ebraica all’opera Maòr Vashèmesh del Curiat stesso; a 18 e 19 anni aveva composto la prima opera polemica in difesa della Kabbalà, contro uno scritto di Leon da Modena, allora allora pubblicato[15]. Il Da Modena, il conosciuto e strano scrittore veneziano del 600, aveva intitolato l’opera sua antikabbalistica Arì Noèm («il leone che rugge«) e Benamozegh intitolò la sua confutazione Emàt Mafghia’ («il timore di chi lo affronta«) (Livorno, 5615). Aveva 20 anni appena, quando Adolfo Frank pubblicò la sua celebre opera La Kabbale, ou la philosophie religieuse des Hebreux (Paris, 1843). La pubblicazione di quest’opera era stato un vero avvenimento per Benamozegh, in quanto egli aveva trovato nelle pagine francesi di uno scienziato moderno e contemporaneo, libero da obblighi di scuola, le sue convinzioni stesse sulla importanza della Kabbalà e sulla autenticità dello Zòhar. Ricavo da appunti inediti di mio Padre venerato, che avvicinò à lungo il Benamozegh, che pochi anni dopo la pubblicazione di quest’opera, essendo il Frank passato da Pisa, il Benamozegh andò a fargli visita con la timidezza con cui un giovanotto già convinto della bontà di una tesi si presenta ad un Maestro già celebre; ma il biografo aggiunge che al Benamozegh fervorosamente convinto, parve invece il Frank assai freddo e desideroso di star d’accordo con la scienza ufficiale, piuttosto che di contrastarla. Nell’ammirazione dunque sentì il Benamozegh la differenza fra il suo temperamento e quello del Frank e forse fino da allora sentì il suo compito di difensore della Kabbalà dagli attacchi cui era fatta segno da parte dei più autorevoli ebraisti. È su questa strada, affrontata da lui con la consapevolezza di un dovere preciso e con l’entusiasmo di chi sente di essere in possesso della verità, che Elia Benamozegh si incontrò con Samuel David Luzzatto.
Quando dunque uscì il Vikùach di Luzzatto, Benamozegh aveva appena 29 anni, ma già aveva una completa mentalità kabbalistica e una ferma convinzione che la Kabbalà sia parte essenziale e costitutiva dell’Ebraismo.
La prima lettera che si conosca del Benamozegh al Luzzatto, è del novembre 1857[16]; non è certo la prima scambiata tra i due Maestri, essa ne presuppone altre precedenti non conservate negli epistolari ma, certo, è una delle prime. Chi legga però questa lettera con l’aspettativa di trovarci già la tensione della polemica accesa, può rimanere deluso; non v’è ancor la polemica, v’è anzi l’accordo su una questione fondamentale: la lotta contro il razionalismo germanico; e v’è il consenso che il giovane studioso di Livorno è lieto di esprimere all’atteggiamento del Maestro padovano[17].
«Ho letto con piacere, con grande piacere la bella e savia magnanima lettera ch’Ella ha diretto, al “Maghid” di Prussia[18]. Il signor Thiers, Ella se ne ricorda, diceva nel ’48 dalla tribuna francese, volgendo il discorso a Pio IX: “Courage, Saint père, courage”. Io lo dico a Lei, con quanto ho fiato in petto, e con l’aspettativa lo dico di un successo cento volte più prospero dell’esempio citato. Molte verità Ella ha dettato in quella lettera. Che dico? Che cosa non vi è “verità”? Una però mi ha fermato ed è tale che io ho avuto l’onore di pensare come Lei anco prima di leggerla, ed è quel punto ove Ella, ponendo il dito sulla piaga, addita l’epoca del tanto, del troppo celebrato Mendelssohn, come l’era iniziale del razionalismo germanico e forse l’esempio di lui come il primo conato di un movimento che ci ha recato tanto oltre. Insomma, mi permetta di dirglielo. Ella è stata magnifico in quella lettera. È un cartello di sfida, ardimentoso, ma di un poderoso atleta. Nestore non era men prode nell’armi perché maturo avesse il senno e savio il consiglio»[19].
Questa lettera è dedicata ad altre numerose questioni di studio; tra l’altro, è notevole il fatto che B. annunzia di por mano alla Storia degli Esseni, che sarà pubblicata soltanto nel ’65 da Lemonnier, e chiede a Luzzatto: «Mi indichi qualche fonte da consultare, mi accenni le sue idee sulla setta, specialmente sul silenzio degli antichi nostri… mi scriva e creda alla venerazione e all’affetto del suo devotissimo E. B.»[20].
Purtroppo questa lettera resta come documento isolato nei rapporti fra i due dotti nel ’57. I due epistolari non sono completi; né quello italiano del Luzzatto, né quello ebraico, e nemmeno l’indice ragionato della corrispondenza sua contengono tracce di risposta a tale lettera; anzi non contengono nessuna lettera di Luzzatto a Benamozegh anteriore al 3 novembre 1859[21]. Né completa deve ritenersi la raccolta di lettere che B. stampò, come inviate a Luzzatto, nel ’90 dopo la pubblicazione dell’epistolario luzzattiano. Abbiamo invece altre lettere del B. che ci documentano indiscutibilmente di una corrispondenza che almeno dal ’57 in poi si andò facendo sempre più vivace e frequente.
28 aprile del 1858. Benamozegh non riceve da un pezzo il Maghid, e se ne duole:
«Nello stato mio di isolamento dai paesi dotti, il non ricevere il Maghid è poco meno che malkùt[22]. Ella poi me ne ha resa più spiacevole a privazione col dirmi che vi erano altre sue lettere che tanto volentieri avrei letto»[23].
Ma questa lettera rivela già tra i due dotti un dibattito iniziato o almeno latente. Si notino le espressioni di grande deferenza e rispetto con cui B. scrive al Luzzatto, pur sentendo di averlo avversario. «Io le proposi alleanza offensiva e difensiva, qual si propone ad un uomo della sua scienza e della sua buona fede: cioè con l’intento unico di servir meglio la causa a cui serviamo. Però il declinare ch’Ella fa la mia proposta non può certo non dispiacermi; ma non lascio per questo la minima parte dell’affetto e della stima che ho per Lei. Io sono troppo certo di me stesso che, quando anche ci fossimo trovati come Ercole al bivio in un punto in cui avessimo di opinione discordato, io non avrei mai smentito me stesso e quella venerazione che Le ho sempre professato, anche allora che solo di fama La conoscevo, e avrei soddisfatta la coscienza e rispettato l’amico e il sapiente … Havvi una dote a cui apertamente aspiro ed è la lealtà»[24].
La lettera conclude:
«So quanto sono preziose le sue ore; ma, nonostante, non dimentichi, La prego, che le Sue lettere non solo sono per me un fausto avvenimento, ma mi fanno un gran bene e giovano non poco a fortificarmi nelle mie disposizioni studiose. Per cui nello scrivermi Ella sia certo non solo di farmi un piacere ma di fare anco una buona azione. A questa ultima ragione un uomo come Lei non sa resistere»[25].
Il 1859 ci presenta uno scambio di lettere di grande interesse. Il primo febbraio Luzzatto in una lettera al Rabbino Israel Costa di Livorno[26], col quale per la comune attività filologico-poetica era in frequente corrispondenza, scriveva testualmente così:
«Io vorrei veder sorgere un nuovo organo del Giudaismo italiano, un organo che non fosse un vile adoratore degli oltremontani, che avesse un colore deciso, che sapesse quello che vuol essere e lo lasciasse vedere apertamente, che fosse sinceramente yehudì, che la rompesse schiettamente cogli atei e coi deisti e che in tutto il resto ammettesse la libera polemica. Livorno mi pare potrebbe essere il centro del Giudaismo italiano e io non mancherei della mia cooperazione attiva, energica, sino a tanto che mi fosse permesso di dire altamente: io credo in Dio ed in Mosè. Disputerei amichevolmente con i Misticisti, ma vorrei porre a nudo l’empietà e falsità di molti oltremontani. Insomma ho emesso l’embrione della mia idea. Spetta al giovani a prenderla o lasciarla perire. Nel caso che l’idea venisse abbracciata esprimerei una condizione indispensabile per la mia collaborazione»[27].
Costa, naturalmente, comunicò tale idea al B. e questi pochi giorni dopo scriveva a Luzzatto:
«Ella sa quanto io abbia desiderato e desideri di stabilire maggiori e più intimi rapporti con la sua stimabile persona, e se tanto lo desidero è perchè sono profondamente convinto che mentre vi sono alcuni punti in cui con dolore mi trovo in disaccordo con Lei, è tale e tanta la mia vera stima per Lei, e tale oserò anche dire la nostra conformità di pensare su altri punti, è tale e tanta la guerra che oggi si dichiara a questi punti da noi comunemente accettati; è tale infine l’amore che al vero professiamo, che spero Ella non avrà mai a pentirsi di aver posto in comune i nostri sforzi»[28].
Benamozegh si preoccupa però di fissare un programma concreto, di trovare i collaboratori, di avere dall’autorità il permesso di stampare il giornale, o a Livorno o a Padova, e si preoccupa poi di conoscere quale sia la condizione che Luzzatto intende porre. Una lettera del Luzzatto del 3 marzo 1859 esprime esplicitamente tale condizione ed è un vero peccato che tale lettera non figuri in nessuno degli epistolari. Ma dalla risposta del Benamozegh si capisce a sufficienza che si trattava di escludere assolutamente la collaborazione alla rivista da parte di uno scrittore che col Luzzatto non era stato in rapporti troppo buoni. E Benamozegh ne dà promessa solenne. Ma la lettera affronta la questione dei principi, su cui è pur necessario che, volendo fondare un giornale, i due dotti si intendano, almeno nel senso di chiarirsi reciprocamente le loro idee. Benamozegh scrive:
«Io credo che la teologia cabbalistica sia la tradizione filosofico-teologica dell’Ebraismo come la Mishnà e il Talmùd nella parte loro rituale ne sono la tradizione cerimoniale pratica esteriore»[29].
Egli non ignora che, per armonizzarla col restante Ebraismo, occorre liberare la Kabbalà da tutta una ruggine secolare che la scienza vi ha deposto sopra, occorre cioè vederla nella sua purezza. Nuoce alla Kabbalà la nomea che si è creata di essere superstiziosa, razionalistica e panteistica, ma occorre liberarla da tutte queste false opinioni.
«Forse Ella apprezzerà maggiormente il mio opinare e forse farà meno il viso dell’arme al Misticismo, quando Le dicessi che come io lo intendo non è superstizione perché è scienza, non è razionalismo perchè teologia rivelata, non è panteismo perchè è emanatismo e come tale ha tutto lo specioso ed il poetico del primo senza averne la immoralità e l’immanente ateismo»[30].
Teologia rivelata! Benamozegh ritiene dunque che la dottrina cabbalistica risalga alla rivelazione sinaitica e ne derivi per tradizione. Nel chiudere la lettera, chiede al Luzzatto che voglia apporre la sua firma al programma della rivista.
«Quando il giornale si annunzierà al mondo, conviene che il nome di S. D. L. figuri sotto il programma, per tutte le ragioni. Noi andiamo a tentare impresa difficile, ed è inutile dissimularlo, sarà una lotta. Avremo forse qualche alleato anche nel giornalismo, ma avremo molti avversari. Dunque ci vuol cannoni di grosso calibro ed il suo nome è già promessa di valoroso battaglione. Oltre a ciò bisogna introdursi con certo credito, quando si tratta di riabilitare una causa in discredito e per far ciò non è troppo tutta l’autorità del suo nome. E poi, francamente parlando, noi siamo disposti a rinunciare a tutti per Lei»[31].
I mesi di primavera e d’estate passarono senza scambio di lettere; ma nell’ottobre 1859 Benamozegh ha un cumulo di cose da domandare al suo dotto corrispondente: almeno una mezza dozzina di domande di interpretazione talmudica. Del giornale invece si parla appena.
«Che pensa Ella finalmente del giornale di cui era questione fra noi? Quanto bene si potrebbe fare uniti che non si fa! Ho riveduto il Suo nome dell’Educatore[32]. Che segno è?»[33].
Luzzatto, rispose prontamente con due lettere una dopo l’altra, la prima del 3 novembre, l’altra del sabato sera 5 novembre. La prima si chiude così:
«Credere il Zòhar anteriore a Dante è voler chiudere gli occhi. Mi creda che il Zòhar è nato con Dante e ch’io sono il suo affezionatissimo S. D. L.»[34].
Della rivista, a quanto risulta, non se ne parlò più, e salvo una sola lettera del Benamozegh del 4 ottobre 1862 la corrispondenza tace fino al ’63, l’anno più importante nei rapporti tra i due Maestri. Interessante però anche la lettera del ’62. Luzzatto ha negato al Benamozegh un favore, forse il prestito di un libro, e lui ne è rimasto male:
«Il suo rifiuto, scrive, mi lasciò un dubbio molesto, ch’io non avessi in Lei quella corrispondenza di affetto che pur Le professo. Non voleva però credere a me stesso, continuamente io stesso reagivo contro questo pensiero molesto; Ella accorre adesso in mio aiuto e mi dà segno, con la cordiale ambasciata di cui incaricò il pregiatissimo Costa, che i suoi sentimenti non cessano di essere verso di me, come sempre, benevoli. La ringrazio dunque di avermi liberato da uno stato troppo per me increscioso e sin da ora Le stringo di cuore le mano con quella affezione, con quel trasporto che ho sempre provato per i Suoi meriti e le Sue virtù, e che leali dissensi non valgono né varranno in nulla a diminuire»[35].
Si arriva così fino al ’63, l’anno, come ho già detto, più importante per il nostro argomento, l’anno in cui il dibattito divenne vivace polemica e anno assai importante nella storia dell’Ebraismo italiano per il Congresso delle Comunità tenutosi nel maggio a Ferrara. Che il 1863 sia stato l’anno in cui il dibattito si accese maggiormente, si intende facilmente, quando si sappia che subito nei primi mesi di quell’anno il Benamozegh si decise a pubblicare una confutazione completa del Vikùach del Luzzatto, uscito, come dicemmo, più di dieci anni prima. A questa confutazione diede anch’egli la forma di dialogo, i due personaggi chiamò, con reminiscenza biblica, Chofni e Pinechas e il libro, più voluminoso ancora del dialogo luzzattiano, cioè duecento pagine di fitta stampa ebraica, intitolò argutamente, con altra reminiscenza biblica, Tà’am Leshàd, titolo nel quale il primitivo significato di sapore di pasta molle, attribuito dal testo alla manna del deserto, è volto, mediante il segno di abbreviazione, nell’altro evidente di Argomenti in risposta a S. D. L.[36] L’opera, dopo una prefazione piena di deferenza per la grandezza morale e scientifica di S. D. L., passa.in rassegna tutti gli argomenti che nel Vikùach erano serviti a Luzzatto per la sua tesi; e tende invece a dimostrare la perfetta concordanza tra lo Zòhar e il Talmùd, l’antichità della Kabbalà, nonostante il silenzio di antichi autori e soprattutto la necessità della Kabbalà, come fondamento dottrinale dell’Ebraismo. Nel Vikùach, contro l’ospite che negava l’autenticità dello Zòhar, Luzzatto aveva messo in bocca al mechabbèr il noto argomento per il quale la autenticità stessa sarebbe provata dal fatto che lo Zòhar riferisce la sua dottrina col nome dei dottori del Talmùd. Ma l’argomento, a cui del resto l’ospite non aveva dato importanza ritenendo lo Zòhar una compilazione tardiva, non basta al B. che ne sente tutta la debolezza.
«Noi – egli scrive – non crediamo nella dottrina dello Zòhar perchè è riferita col nome dei dottori antichi, ma riteniamo autentica la citazione come dei dottori per la forza e la bontà di quel che dicono»[37].
Che è, certo, uno strano e insolito modo di far della critica dei testi; ma è proprio questo metodo che fa di Benamozegh non uno studioso di Kabbalà ma un kabbalista. Quanto poi all’altro argomento fondamentale, mancare per la Kabbalà tutta la catena della tradizione ininterrotta che rende invece autorevole la dottrina talmudica, risponde il Benamozegh essere caratteristica d’ogni dottrina segreta il mantenersi integra, attraverso i secoli, nella sua primitiva formulazione, senza arricchirsi del contributo dei secoli come avviene per la parte giuridica o morale della religione, essere anzi una ragione di più per accettare la Kabbalà proprio questo suo essersi mantenuta scevra da ogni tradizione palese.
Naturalmente, l’apparizione di questo libro, di cui Benamozegh si affrettò a mandare copia a Luzzatto, rese vivace la discussione fra i due. Ma il Congresso, che si tenne in quello stesso anno 1863 a Ferrara, diede anch’esso occasione e schermaglie polemiche non prive di interesse. Mi sia lecito accennarvi di sfuggita. L’ordine del giorno del Congresso recava tra l’altro una proposta di cercare un sistema per risparmiare le spese di viaggio e le provvigioni dei missionari (shelichìm) di Terra Santa[38]. Solo all’annunzio di tale proposta Benamozegh scrisse un opuscolo, oggi assai raro, in cui sostenne non doversi affatto abolire tale storica istituzione che rappresenta un anello di congiunzione «fra i figli dispersi e la madre lontana»[39]. Di tale parere era già stato cinque anni prima, cioè nel 1858, Leone Ravenna[40] che sul medesimo argomento aveva scritto così:
«Non vedendo più gli inviati che da Terra Santa giungono rivestiti di un carattere ufficiale e circondati per lo più da un certo prestigio derivante dalla loro vasta erudizione sacra e dalle città che rappresentano, né trovandosi più in contatto con loro, corriamo rischio di perdere sempre più l’antica affezione per la Palestina e il secolare interessamento per i suoi abitanti»[41].
Orbene, nel trattare questa questione, la penna del Benamozegh aveva anche in tale opuscolo polemizzato col Luzzatto, circa l’opportunità di contatti tra europei ed orientali, contatti che Luzzatto non considerava necessari e Benamozegh invece riteneva opportuni e utilissimi.
Comparve allora, siamo sempre nel ’63, sull’Educatore Israelita di Vercelli un lungo e irato articolo del Maestro Mosè Soave, allievo credo, del Luzzatto, il quale, criticando la tesi benamozeghiana circa i missionari e deplorando la polemica col Luzzatto, si metteva a difendere il Maestro inopportunamente con elogi e parole di cui certo Luzzatto non aveva bisogno.
«S. D. Luzzatto è una mente vasta e profonda. Ad onta di mille contrarietà incontrate nella sua fanciullezza ed adolescenza, si fece con i suoi scritti linguistici, esegetici, poetici tale un nome che durerà onorato finchè avrà vita il Giudaismo»[42].
E scagliandosi contro Benamozegh:
«S. D. L. pubblicò nel ’52 il suo Vikùach o dialogo contro la Kabbalà, e voi ci avete impiegato non meno di dieci anni per confutarlo. Ci siete poi riuscito? Veniamo assicurati che no»[43].
Ma il numero seguente dell’Educatore ospitava una lunga risposta, tanto lunga che il giornale era costretto ad aggiungere un supplemento di sei pagine, di un discepolo di Benamozegh, Enrico di Castro, risposta tutta piena di fine ironia. Non l’ironia ci interessa, ma, poichè troppo chiaramente tale articolo rivela l’ispirazione se non addirittura penna del Maestro, ci interessano certe frasi che vi leggiamo intorno al Luzzatto e che hanno tutt’altro tono di quello che il Soave aveva adoperato verso il Maestro livornese.
«Chi mai pensò a vilipendere, a denigrare l’uomo onorato che Voi innalzate a vessillo? Forse il Rab. Benamozegh che non è elogio, riverenza, simpatia, che non gli profuse in tutti i suoi scritti e più in quelli che sono diretti contro le sue dottrine? Il Rabbino Benamozegh certamente non soscrive ciecamente a tutti i suoi giudizi… Vorrete fare una colpa al Benamozegh di non giurare in verba magistri, su quanto dice od insegna il Prof. Luzzatto? Se così faceste, voi non sareste nè amici nè seguaci del Prof. L., il quale vi insegnò con le dottrine e con l’esempio a scuotere ogni vil giogo d’autorità. E vero amico e seguace del Luzzatto sarebbe invece proprio Benamozegh che, mentre non lascia di amare, di rispettare in Luzzatto la vasta scienza, la virtù, l’amor del sapere, non crede che si chiami onorarlo il farne, come ne fate voi, un vile idolo, un abietto fetisso, non potendosi mai credere che uomo di altissimi sensi come il nobile professore si compiaccia di un ossequio che non sia razionale»[44].
E poichè Soave, come vedemmo, aveva osservato che Benamozegh aveva impiegato ben dieci anni a scrivere il Tà’am Leshàd, il Di Castro risponde che furono dieci anni bene impiegati, perché proprio in quel decennio Benamozegh aveva composto tante importanti opere e che comunque tale lungo intervallo stava a dimostrare che la risposta non era uno sfogo bizzoso od improvvisato, ma il frutto di una convinzione lungamente meditata. E poiché infine il Soave aveva scritto: «Si guardi bene il B. da confutare ancora il mio Maestro Luzzatto», Di Castro chiude l’articolo con queste parole che per il loro tono oggi ridicolo val la pena di riportare:
«In risposta di cara Vostra Benamozegh solennemente e formalmente promette, dichiara e si obbliga ché tutte le volte che il crederà opportuno risponderà, confuterà il Prof. Luzzatto, in ebraico, italiano, francese, inglese, greco, latino o sanscrito, in Italia, in qualunque parte dell’orbe terracqueo e in altri siti: senza né temere né consultare né far conto delle vostre spavalderie, ma augurandosi anzi che, scendiate in campo a dargli ben bene sulla voce, per conoscere almeno la forza dei vostri polmoni. Giacché egli non conosce in Italia né Cesari del basso Impero, né Sultani di Bisanzio; e non teme Pretoriani, Giannizzeri, o Mammalucchi»[45].
Questi, gli echi giornalistici del dibattito fra i due Maestri. Ma seguiamo piuttosto i loro rapporti diretti. Quando Benamozegh gli inviò il Tà’am, Luzzatto lasciò passar dei mesi senza rispondere. Viceversa, era giunta agli orecchi di Benamozegh una frase che non era certo un complimento, scritta dal Luzzatto ad un comune amico forse il Costa: penso lasciarlo ragliare. Ond’egli il 16 agosto 1863 scriveva a Luzzatto:
«Per informazioni che io ho luogo di credere al disopra di ogni sospetto, so di certa scienza come qui si vociferi, da chi non so, né mi curo sapere, che Ella, avendo avuto luogo di esprimersi per iscritto sul conto della mia polemica, si sia valsa di questa precisa frase: lasciatelo ragliare. S. D. L. sente troppo nobilmente di sé, è troppo scevro di meschine passioni, ha tale fama che niuno può oscurare, perché possa avere usato siffatte indecenze: per cui starei mallevadore che Ella non ne è l’autore. Non è men vero però che corrono in nome suo e forse sono poste al servigio di passioni e di mene tutt’altro che nobili. Ciò non può essere e non sarà. Il suo nome non può servire d’istrumento di denigrazione, né io merito contro la sua volontà essere ripagato con tal moneta della osservanza invariabile dimostratale e che le dimostrerò. Credo dunque aver provveduto alla di Lei dignità dandogliene avviso e reclamando dalla sua lealtà una esplicita dichiarazione che stia a paralizzare gli effetti di una denigrazione che si ammanta del suo reputatissimo nome[46]».
Passa poi a parlar di cose di studio e precisamente degli Esseni, sui quali chiede ancora notizie al Luzzatto:
«Se di questa scuola Ella sapesse darmi taluna di quelle peregrine notizie che Ella sa dare intorno ogni così fatto argomento, non solo mi farei un pregio di adornarne la mia Storia, ma gliene tributerei tutto l’onore, riconoscendomene suo debitore»[47].
Ma, chiudendo la lettera, non può dimenticare il raglio e scherzosamente avverte l’illustre contradditore:
«Per oggi fo punto, pregandola di rispondermi e di aver d’occhio, quando mi vuol fare qualche brutto complimento, di trattarmi almeno da behemà tehorà».[48]
A tale lettera non potè non rispondere il Luzzatto:
«Ho ricevuto a suo tempo il Tà’am Leshàd e non Le scrissi per non entrare in dispute inutili. Fui interrogato se penso rispondere, e dissi che no. E così è. Il poco di vita e di forze che mi rimane voglio impiegarlo in procurare di lasciare alla posterità qualche verità di più e qualche errore di meno, e non in controversie infruttuose. Mi combatta chi vuole, mi maltratti chiunque a suo piacere: non perderò il mio tempo in difendermi mancherei alla mia missione, che è di scoprire cose nuove. Finché esiste un versetto nella S[acra] S[crittura] che non sia esattamente inteso, io non devo pensare alla difesa dei miei scritti. La verità, il tempo, li difenderanno. D’altronde io non posso credere che Ella creda di avermi confutato. Io non la credo accecato. E se Ella crede utile di difendere il misticismo, io non mi ci oppongo. Recentemente ho veduto il suo opuscolo sui missionari e vi osservai una pagina, scagliata contro di me senza alcun bisogno, con insinuazioni calunniose, quasi io mi fossi un ipocrita. Qui io avrei dovuto rispondere. Ma Dio mi fé forte, e dissi e scrissi in lettera confidenziale: Penso lasciarlo ragliare, non mai pensando che queste mie parole potessero venire usate quali armi contro di Lei. Né mai ho pensato di attribuire a Lei la natura del quadrupede ragghiante, animale da me sempre più stimato di quanto comunemente si suole. S. D. L., come Ella dice nella cara Sua, sente nobilmente di sè, è scevro di meschine passioni, ed ha tale fama che nessuno può oscurare; quindi vedendosi pubblicamente trattato da intollerante per mancanza di ortodossia, lascia altrui ragghiare. Il vocabolo sarebbe stato meno indecente se detto avessi cani, latrare. La Crusca mi avrebbe offerto esempi di latratori che non sono mentre non mi dà esempio di ragliatori che non siano micci. Eppure il ragliare parve a me meno odioso, meno offensivo ch’il latrare. Ad ogni modo, Ella non ha bisogno che io Le dichiari che Ella non fu mai un miccio agli occhi miei, ma che usato ho il verbo ragliare per similitudine come la Crusca ha latrare per similitudine… Viva felice e mi creda amico degli uomini, ma senza sperarne e senza temerne. Suo dev.mo S. D. L.»[49].
Interessante più di tutto quella frase: «Finché vi sarà un solo versetto della Scrittura che non sia esattamente inteso…» che stabilisce il compito preciso di Luzzatto esegeta ed interprete della Bibbia. Due giorni dopo, B. rispondeva così:
«Se non consultassi che l’amor proprio, non dovrei rispondere alla Sua lettera. Non solo l’offesa è affermata, ma ribadita e svolta con compiacenza che non voglio qualificare. Però sotto l’ira sua, credo immeritata, vedo sempre le virtù e la abnegazione che l’onorano e ciò mi fa risponderLe. Che a Lei non piaccia rispondere al Tà’am Leshàd e nemmeno privatamente è cosa che la riguarda e mi risparmia il dispiacere di trovarmi nuovamente in opposizione con Lei. Altra cosa è quand’Ella dice: mi maltratti chi vuole. Nella mia confutazione ho forse dimenticato alcuno dei riguardi dovuti? Questo credo che Ella non possa dire. Quanto al credere o no di averLa io confutata, tolleri che Le dica che non sta veramente nè a Lei nè a me giudicarne; con questa differenza però che Ella può credere senza slealtà che io non l’abbia confutata, ma io non potrei, come Ella dice, non credere di averLa confutata, senza essere un ciarlatano e uno scrittore di mala fede. Io me ne appello al Suo buon senso. È cosa da invidiarsi oggigiorno, la difesa di certi principi abbandonati ? È ella così in voga la teologia mistica da invogliare a prenderne le difese, se una convinzione che supera tutti i riguardi non obbligasse a farlo?… Io La compatisco perché non conosce la mia vita, i miei studi, il mio passato: nè sa come dopo avere amato da giovanetto i libri kabbalistici, cominciassi anch’io a dirne male vedendo che tutti ne dicevano, e come solo altre riflessioni mi abbiano portato a credere il Mosaismo senza quella teologia mancare assolutamente di base… Infine sarebbe inconcepibile che, avendo io tanto largo campo da inveire nella polemica cabbalistica nel Ta’am lesciad, mi sia mostrato rispettoso in un volume, e irriverente in quattro parole incidentali. Ciò non può essere e non è. Non parliamo della minuta disquisizione sul latrare, ragliare ecc… è questa una specie di filologia comparata di cui non mi sono mai dilettato e vorrei che Ella pure non se ne ingerisse. Queste armi non sono da Lei…» E chiude; «mi dica qualche cosa di meglio che devotissimo e mi creda suo affezionatissimo E. B.»[50].
V’è un punto degno di nota. B. dichiara di essere stato in un certo momento antikabbalista o per lo meno di avere avuto un momento di crisi. E sfido io tutta l’Europa dotta era contraria. Ma dichiara anche di essersi poi convinto della necessità della Kabbalà perché senza la teologia cabbalistica il Mosaismo stesso manca di base. Ecco il punto; Luzzatto si ferma al peshàt e non cerca sensi reconditi nella Scrittura, non cerca interpretazioni metafisiche delle mitzvòt: lo vedremo tra poco. B. invece ha troppo presente quel passo, arditissimo invero, dello Zòhar, ove si legge che, se nella legge non vi fosse che il solo peshàt, meglio a cento doppi avrebbero operato tanti umani legislatori[51]; e perciò non concepisce le mitzvòt senza una base teologica, e perciò ancora sente la nobiltà della Kabbalà. Di questa opposizione fra i due metodi si potrebbero citare esempi a piene mani traendoli dalle pagine di esegesi biblica dei due Maestri, ma essa è chiaramente espressa nella risposta che l’8 settembre il carteggio si fa ormai più frequente e più rapido L. spedì a B.
«Le sue riflessioni l’han portata a credere che il Mosaismo senza quella teologia manchi assolutamente di base. Or vegga Ella se noi possiamo essere amici. Io ho consacrata la mia vita e me tutto alla difesa del Mosaismo semplice, qual è è quale fu sempre inteso da tutta l’antichità ed Ella non tende a meno che di farlo apparire assurdo e vano. Non è egli questo un terribile abisso che Ella scava tra Lei e me? Non siamo noi due contrapposti poli? Del resto, Ella può credere di avermi confutato? Senza volerLa un ciarlatano, o scrittore di mala fede, io posso crederLa persuaso d’aver fatto opera pia difendendo alla meglio una dottrina che Ella può credere salutare e necessaria a correggere l’attuale materialismo… io non sono disgustato con Lei; nè con persona mai disgustato per motivi personali. Ma i principi da Lei professati, l’assurdità del Mosaismo materiale, che io adoro e per cui mi sacrifico, da Lei sostenuta, non mi permette di dichiararmele (senza ipocrisia) amico».
La lettera finisce così: «viva felice per molt’anni è mi creda suo devotissimo S. D. L., fedele ai veri schietti a favole non misti; amico della pace anche coi mistici, anche coi gesucristi»[52].
Ognuno vede come la questione sia ormai nel suo punto più acuto e forse più importante. Qui non si parla più di questioni particolari, qui sono in opposizione ormai due vedute intorno al Mosaismo. È naturale la risposta che la coppia di lettere che prenderemo ora ad esaminare di B. e la contro risposta di L. siano ancor più lunghe e più precise e circostanziate. Che cos’è questo Mosaismo semplice alla cui difesa L. dichiara di essersi dedicato ? Scrive B., il 12 settembre 1863:
«Se devo giudicare da certe frasi della sua lettera, come dal ravvicinamento che Ella fa di ciò che ultimamente Le scrissi, mancare il Mosaismo senza la Kabbalà assolutamente di base, col suo Mosaismo semplice che Ella contrappone al mio assurdo e vano, parrebbe che io mi fossi nientemeno che cristianizzante; che voglia derogare da ciò che tutta l’antichità intese per fede mosaica. Ma qual’è questa antichità di cui Ella si riserva il privilegio? È ella l’antichità mosaica? E l’antichità mosaica chiamerà Ella semplice ? Certo, che la semplicità talenti in religione alle teste frivole che non hanno né tanta fede per credere, né tanta mente per capire più di un dogma, questo si intende di leggieri. Ma allora bisogna ripudiare il Pentateuco, che è tutt’altro che semplice e starcene a puro deismo che è, più che non sembra, in fondo alle dottrine antitradizionali ed anticabbalistiche… Il Mosaismo materiale, come Ella lo chiama, Le pare che sia semplice?… Le leggi religiose, cerimoniali, rituali, che regolano i rapporti fra l’uomo e Dio e che sono il precipuo criterio per giudicare sanamente della natura di una religione, Le pare che siano semplici?… Può Ella negare nella tradizione eziandio talmudica una scienza esoterica? S. D. L. è troppo di buona fede per attentarsi a negarlo… Chi sono i novelli Gesucristi che tendono ad abbattere la Sinagoga? Chi è che proclama l’abolizione della legge come Gesù od i suoi hanno proclamato? Non certo i novelli cabbalisti, i quali anzi chiudono l’adito ad ogni innovamento, preoccupando il campo del dogma, ed elevando la pratica da una mera esteriorità, da un insulso cerimoniale che è nel sistema opposto, ad una necessità di ordine assoluto, a un bisogno cosmico, eterno, universale… Se per Mosaismo Ella intende la sola legge scritta, mai questa specie di Mosaismo sarà sufficiente per appagare il sentimento religioso, se ad esso non si unisce la tradizione nel suo doppio ordine, pratico (Mishnà-Talmùd) e speculativo (Kabbalà), Anzi la Kabbalà rende inutile e impotente la propaganda cristiana perché riempie il vuoto immenso che lascia il Mosaismo materiale»[53].
B. parla poi dei rapporti tra Cristianesimo e Kabbalà, argomento di attualità per lui che proprio in quei giorni aveva avuto il premio della Alliance Israélite Universelle per un suo lavoro sull’origine dei dogmi cristiani. Ma poi riprende l’argomento che più ci interessa.
«Chi ha mai pensato né sostenuto che nello Zòhar non vi siano interpolazioni ed anche grandi e copiose? Non vi sono, secondo il Talmùd, interpolazioni anche nel Pentateuco e nella Mishnà?… Ma perchè vuole avere due pesi e due misure quando si tratta dell’uno e dell’altro?… Sa Ella che io sarei capace di concederle che lo Zòhar è falso da cima a fondo, e nonostante obbligarla a convenire che la Kabbalà è antica? Che cosa ha che fare lo Zòhar con la Kabbalà, la questione bibliografica con la questione critica e teologica?… Signorsì; ci sono interpolazioni nello Zòhar; e che perciò? E se mi forza veim thaqnitèni aggiungerei, signorsì, lo Zòhar è falso; e che perciò? La Kabbalà esisteva prima di lui negli Amoraìm, Gheonìm, Rabbanìm; esisterà anche dopo di lui»[54].
«Perché dunque non vuol Ella dirmisi amico? Crediamo in Dio ambedue, nella rivelazione Mosaica: posso dire anche nella tradizione? Per l’amor del cielo non mi dica di no. Allora che cosa resta fra noi di diverso? Che Ella non crede la Kabbalà parte del Mosaismo ed io la credo. Siamo di buona fede tutti e due, ma guardiamoci dall’essere intolleranti; scusi il termine e non lo prenda a male parte… Se vivesse Nachmanide, non si getterebbe Ella fra le sue braccia e non gli bacerebbe la mano ? Gli direbbe anche a lui che non gli è amico? Figuriamoci poi che cosa direbbe ad Arambam che aristotelizza il Mosaismo; e quello si davvero che ne sfigura in parte il bel volto. Mi turo gli orecchi per non udirlo. Ah! non faceva così il Santo Nachmanide che, gran kabbalista (anche egli gesucristo ?), prendeva contro tutti le difese di chi? di quello che come Lei stava al polo opposto del kabbalismo, di Arambam, e, già vecchio e morente, andava errando di città in città a salvare Arambam dall’infamia e i suoi libri dal rogo. E il gesucristo Benamozegh, lo giurà a Dio, saprebbe fare altrettanto per S. D. L. se un altro Philippson[55] si attentasse di macchiarne la reputazione e se lo calunniassero gli ortodossi per colpe che Ella non ha. E lo farebbe più degnamente e meritoriamente che non la greggia di approvatori che giurano sul suo verbo e che non sanno dire che amen. Io aggiungerò Yehè Shemè Rabbà Mevoràkh in tutto ciò (ed è molto) che Ella ben disse»[56].
Ma sentite la chiusa. È la vigilia di Capo d’Anno. B. vive le ore di preparazione alle grandi giornate penitenziali in uno stato d’animo tutto disposto al bene, alla pace, oltre che tendente come sempre alla verità.
«Domani Ella udrà lo shofàr ed io lo udrò. A Lei che cosa dirà quel suono ? Il suo Mosaismo materiale che cosa Le dirà? Certo, nient’altro che una di quelle mille graziose ma.puerili ragioni che ne furono date fuori della Kabbalà; e per sentirlo con devozione, per dare importanza a teki’à, shevarìm, terù’à, le ci vorrà uno sforzo di fede non ordinario. Per me, Lei lo sa, la cosa è ben diversa. Ogni nota ha la sua importanza, come ogni atomo della materia è un mistero, come ogni corpo ha il suo posto e il suo valore nella creazione. Per me, la Torà è il tipo del mondo, è il mondo nella mente di Dio, è il vero verbo incarnato nelle mitzvòt hamma’asiòt. Cosa gliene pare? Sono o non sono amico adoratore del mosaismo materiale? Ma un po’ diversamente da Lei. E quando udrò domani il shofàr dirò anch’io: viva S. D. L. molti e molti anni felici… Ma non aggiungo la restrizione del devotissimo; anzi dico, con un amore che prego da Iddio l’eguale per me quale provo per Lei, o forte e buon Luzzatto, in questo momento, amorosissimo suo E. B.»[57].
Che cosa si ricava da questa lettera ? Che per Benamozegh il Mosaismo, semplice o no, presuppone una filosofia, una metafisica non espressa nelle pagine del Pentateuco, ma parte vera dell’Ebraismo, qualunque giudizio si dia dell’autenticità dello Zòhar, e costituente il significato delle mitzvòt. Le mitzvòt non sono soltanto istituzioni sociali, nazionali, igieniche, consuetudinarie, né hanno solo valore pratico, ma hanno un valore cosmico, trasportano l’uomo fino a Dio, sono, nella azione, una continuazione della preghiera dell’animo che innalza l’uomo e lo eleva a compiere un atto superiore a sé stesso, un vero atto cosmico. Luzzatto non è di questo avviso. Nel testo sacro egli spiega il peshàt (ricordate: Finché ci sarà una frase della S.S. che debba essere spiegata, ecc.); nelle mitzvòt egli vede istituti del popolo, la sua risposta infatti comincia proprio dall’ultimo argomento, quello significantissimo del shofàr.
«Le dirò che i trilli del shofàr furono (a mio credere) da Dio comandati per porre a pubblica notizia (quando non si stampavano calendari) il principio dell’anno; nella stessa guisa che nel decimo giorno dell’anno si portava ad universale conoscenza, col medesimo shofàr, l’arrivo dell’anno del Giubileo. Se in oggi tali suonate hanno perduto il loro scopo, conservano sempre, come tante altre cerimonie. l’immenso valore di ricordarci l’antica nostra esistenza politica, e ravvivare in noi il sentimento di nazionalità, il quale, senza tanti e tanto piccoli ma ripetuti ricordi, forse sarebbesi estinto in noi, come lo fu in tutte le altre antiche nazioni. Quei trilli eccitano in me idee chiare, sensi profondi, riflessioni edificantissime… quella buccina è per me il tamburo della nazionalità, dell’esistenza di un popolo che fu nazione e che in oggi non vive che in Dio e che cesserà di esistere allora soltanto che cesserà di credere in Dio… Costoro che chiamano senza base il Mosaismo letterale coi suoi precetti non motivati ma ghezeràth mélech, « decreto di Dio», hanno eglino qualche cosa di meglio? Ammessi tutti i loro misteriosi motivi dei mosaici precetti, hanno essi fatto un passo più in là, hanno eglino qualche teoria più avanzata di quella che tutti sappiamo, cioè che Iddio ha comandato ciò che ha voluto ? Insensati! Non sanno che l’ultima ragione di tutte le cose è il divino beneplacito… Se i nostri trilli elettrizzano e mettono in movimento i mondi più eccelsi, ciò non accade che per divino beneplacito; una ragione più in là non c’è e non ci può essere. Dunque inventinsi tanti misteri che si vogliono, non si andrà mai più in là della ghezeràt mèlekh»[58].
La questione, come è chiaro, si va spostando di lettera in lettera, ma a mano a mano che si sposta dai suoi termini primitivi si fa, è inutile negarlo, sempre più interessante. B. non concepisce mitzvot senza un significato cosmico; L. parla invece di ghezeràt mèlekh e tale concetto pare a lui insuperabile e imbattibile, perchè quand’anche si faccia capo a ragioni cosmiche, anch’esse presuppongono la volontà imperscrutabile di Dio, il divino beneplacito. Anzi direi di più: B. non concepisce religione senza un corredo di dottrina esoterica che ne costituisca il fondo, la base, il sostrato, la spiegazione. L. invece, vede l’essenza della religiosità nell’ammettere, al di sopra di tutto, laghezeràt mèlekh. Luzzatto è esplicito nella lettera che abbiamo sott’occhio.
«La mia avversione alla Kabbalà non è incredulità, non è eterodossia, ma è profondo sentimento religioso»[59].
Ed invero chi di noi non sente la profonda religiosità di questo concetto di ghezeràt mèlekh (decreto imperscrutabile della volontà di Dio) che è superiore le mille miglia alla nostra povera capacità di comprensione? È, questo, un tanto alto concetto di religiosità che malamente si riesce a connetterlo e a disposarlo con l’altra concezione luzzattiana, quella del fine contingente e pratico delle mitzvòt.
B. coglie questa contraddizione. C’è infatti un’ultima lettera del B.; (altre due, stampate anch’esse, più brevi e dedicate ad altri argomenti, mi sembrano ormai fuori della polemica). Intanto, uno scambio di arguzie assai pepate. L. aveva concluso la lettera precedente dicendo che le pagine iniziali del libro di B. sono così poco convincenti che sembrano dire al lettore, «lasciate ogni speranza, voi ch’entrate, di trovar qui sode ragioni e belle; ma sofismi e menzogne imbellettate e falso giorno e notte senza stelle».
E B. risponde piuttosto seccamente:
«Se leggendo il Tà’am Leshàd si lasciano le speranze alla porta, come Ella dice, leggendo il Vikùach si lasciano all’uscita»[60].
Che il shofàr sia un istituto di così poca importanza pratica non gli va assolutamente giù.
«Ma via» scrive: «quando disse giorni fa; Benedetto tu, o Eterno, che ci comandasti di udire il suono del shofàr, non le tremò la voce nel rispondere Amen?[61] Ella crede che i trilli del shofàr sostituiscano i calendari… Era proprio necessario che Dio si rivelasse per scoprire questo bel trovato?»[62].
Nè, i precetti sono, per B, mezzi di conservazione nazionale, ma viceversa la nazione è un mezzo per la perpetuazione e l’incremento della religione.
«Ridurre i precetti rivelati a meri preservativi nazionali, è far loro perdere un tre quarti del loro valore, è abbassare Dio al rango di un Licurgo o di un Romolo, è rendere solidale la religione, che non può morire, della nazionalità nostra che lo può, è esporre la verità religiosa a tutti quei mutamenti e vicissitudini e pericoli a cui è esposta la nazionalità, è dire all’uomo ebreo se a te non cale più di vivere nazionalmente separato, cessa per te ogni motivo di osservare; è fare dell’eternità un satellite del tempo[63]».
B. sente tutto il pericolo di una posizione come quella che L. sostiene e gli sussurra all’orecchio il caso di Mendelssohn.
«Rammenti ciò che Le dissi… che quando si stabilisce quale premessa che nel Mosaismo non v’è che il peshàt, quando si negano motivi assoluti ai precetti, indipendenti dai tempi e dai luoghi, le conseguenze presto o tardi sono inevitabili. Questo fece Mendelssohn e, se non con tanta solennità quant’Ella fece, certo che le di lui tendenze relativamente al sod, [cioè all’esoterismo], non erano dissimili dalle sue… L’esempio di Mendelssohn pare fatto apposta per Lei… Lo scudiere di Serse ogni mattino svegliandolo gli diceva: Sire, ricordatevi dei Greci. Ed io vorrei sussurrarle all’orecchio: si ricordi di Mendelssohn[64]».
E sì, aggiungiamo noi, che col Mendelssohn il Luzzatto non era certo tenero, né ignorava le gravi conseguenze della posizione del filosofo di Dessau[65]. E sì che proprio contro il deismo voleva L. nel ’59 fondare con B. una rivista. Ora invece è B. che lo mette in guardia. Che ogni precetto sia ghezeràt mèlekh, sta bene: beneplacito divino; ma la somma volontà di Dio non è scompagnata dalla sua somma sapienza e per conseguenza dire ghezeràt mèlekh non significa negare uno scopo, un fine ai precetti.
«Di che sa la sua declamazione: Insensati! non sanno che l’ultima ragione di tutte le cose è il Divino beneplacito. Sicuro, dicono questi insensati; ma, aggiungono, questo beneplacito non è senza dei gran perchè, in altri termini la sapienza di Dio non si scompagna dalla volontà, e insensato sarebbe davvero chi si formasse della volontà Divina una idea simile al bon plaisir dei despoti francesi»[66].
A tale concezione finalistica della vita e del cosmo non è alieno certo neppure Luzzatto. Basta leggere le sue continue critiche allo Spinoza, appunto perché Spinoza non ammette, o pare che non ammetta, cause finali.
«Povero Spinoza! – scriveva nel ’52 allo Jellinek[67], in occasione di un viaggio a Lipsia del figlio Filosseno – egli non vedeva le cause finali. Egli vedeva che l’occhio vede perchè è organizzato così e non vedeva che fu organizzato così acciocché vedesse. Egli vedrebbe che Frankel divenne mio amico perché Filosseno è passato per Dresda. Io invece vedo che, innanzi alla creazione del mondo, nella biblioteca privata di Domeneddio era scritto l’articolo di Frankel e nei registri della polizia segreta del Creatore era registrato tutto il viaggio di Filosseno, e vi era registrato l’orario della strada ferrata da Dresda a Lipsia, fatto in modo che Filosseno dovesse trattenersi alcune ore (contro il suo progetto) nella capitale della Sassonia»[68].
Come vedemmo, la prima lettera di Benamozegh a Luzzatto suonava consenso all’atteggiamento di quest’ultimo verso i dotti critici stranieri; l’ultima, che è del febbraio ’64, esprime anch’essa il pieno consenso del Benamozegh al Luzzatto in una polemica che questi, ormai urtato con l’Educatore che sospettava di razionalismo, aveva intrapreso sul nuovo Corriere israelitico col prof. Giuseppe Levi, condirettore appunto dell’Educatore[69] In quest’ultima lettera la Kabbalà è chiamata scherzosamente da B. la nostra Elena; e chi «di noi, sia Menelao e chi sia Paride, lascio a lei la scelta»[70]. Per questa Elena più tardi, dopo la morte del Luzzatto, Benamozegh avrà ancora da combattere: alludo alla polemica con Eude Lolli[71].
In questo dibattito i due Maestri si impegnarono ognuno col proprio metodo, ognuno col proprio particolare temperamento: temperamento filologico quello del Luzzatto, temperamento teologico quello del Benamozegh, ma ambedue con l’ardore che ad entrambi veniva dalla convinzione di essere nel vero e di servire e di difendere, con la difesa della propria tesi, il più vero Ebraismo.
Certo, talora il linguaggio dei due polemisti può sembrare privo di complimenti e, specie quello del Luzzatto verso il più giovane studioso livornese, è spesso troppo severo. Ma chi nelle polemiche fra dotti attendesse complimenti e delicatezze di linguaggio mostrerebbe di ignorare da quale forza il polemista, convinto della bontà della sua tesi, sia spinto a parlare[72]. A Benamozegh l’età più giovane e il diverso temperamento, ispirarono un linguaggio meno severo, e sempre riguardoso, sì che nella Prefazione alle Lettere potè in piena coscienza scrivere:
«… questa giustizia credo poter rendere a me stesso, che mai venni meno, nè coll’affetto nè colle parole, a quella osservanza e anche a quell’amore che l’insigne uomo si meritava»[73].
Egli tuttavia era tanto convinto, da una parte, del diritto che la verità ha di farsi strada, e dall’altra del diritto dei contradditori di sentirsi dire la verità, che nel Proemio alla Storia degli Esseni, scriverà:
«La vera reciproca tolleranza è quella che sa amare e stimare gli altri, pur serbando intatto il culto delle proprie dottrine. Anzi, vero amor fraterno non si dà quando alto non proclamasi ciò che vero si crede. Il primo diritto dei nostri simili è quello di udire da noi la verità[74]».
[1] Epistolario italiano, francese, latino di SAMUEL DAVID LUZZATTO da Trieste, pubblicato dai suoi figli. Padova, 1890, pag. 4. Il Reggio (1784-1855) rabbino di Gorizia seguace e propugnatore delle idee di Mendelssohn, fu autore di una traduzione italiana commentata del Pentateuco (Vienna, 1821) e di un’opera sui rapporti fra religione e filosofia (Hatorà Vehaphilosofia, Vienna, 1827). È tra i fondatori del Collegio rabbinico di Padova (1829).
[2] Epistolario, pagg. 8-9.
[3] Epistolario ebraico di S. D. L. (S. D. LUZZATTO’s Hebräische Briefe, gesammelt von seinem Sohne Dr. ISAIAS LUZZATTO, herausgeber EISIG GRAEBER, Przemysl, 1882, pag. 78). Già nell’autobiografia egli aveva scritto: Io trovava la credenza alterata e corrotta dai cabbalisti.
[4] Oggi, dopo altri cento anni, la figura di Mendelssohn può venire altrimenti valutata. Si veda in Rassegna, V, pag. 438 il mio studio: Mendelssohn apologeta dello Ebraismo.
[5] MARGOLIS e MARX, Histoire du peuple juif, Paris, Payot, 1931, pag. 589.
[6] Nachman Krochmal (1785-1840), è autore di un’opera, pubblicata postuma, La guida dei perplessi dei nostri giorni (Lemberg, 1851). Luzzatto polemizzò con lui. Si veda in Kerem Chemed, VII, 224 una lettera di S. D. L. a Rapoport. Cfr. A. I. KATSH, N. Krochmal a the German idealist in Yivo Ann. of Juv. Science, I (1946).
[7] Ep. ebr. cit., pag. 165.
[8] Per i rapporti con G.I. Ascoli si veda in Epistolario italiano, I, pag. 485 una lunga lettera del 1846 di Luzzatto all’Ascoli, giovinetto già promettente negli studi linguistici, e, a pag. 639, l’altra del 16 settembre 1851 nella quale gli annunzia il proposito di pubblicare qualche cosa per le sue nozze.
[9] Vedi Lezioni di teologia dogmatica israelitica, Trieste, Coen, 1864, pag. 13, § XXVI.
[10] Epist. italiano, pagg. 7, 8.
[11] Come è noto chi ammette l’antichità dello Zòhar lo attribuisce a Shim’on ben Yochài, dottore del 2o secolo e a suo figlio El’azar. Chi invece attribuisce a tale opera un’origine più tardiva ne fa autore Mosè di Leon, che è del 1200.
[12] Cfr. LUZZATTO, Prolegomeni ad una grammatica ragionata della lingua ebraica, Padova, 1836, pag. 16 e segg.
[13] Data la presenza del nome dell’Ascoli in quest’opera intorno alla Kabbalà, può essere interessante sapere che nel 1899 a Roma, in quello stesso XII Congresso internazionale degli Orientalisti, in cui fu presentato un volume di studi a Graziadio Isaia Ascoli, nel settantesimo anno di età, Fausto Lasinio lesse una memoria di David Castelli su Gli antecedenti della Kabbalà nella Bibbia e nella letteratura talmudica, Cfr. Il Vessillo Israelitico, febbraio 1900, pag. 43 e Actes du XII Congrès intern. des Orientalistes, Florence, 1902, pagg. 57-109.
[14] Cfr. A. TOAFF e A. LATTES, Gli studi ebraici a Livorno nel secolo XVIII, Livorno 1909.
[15] Lipsia, 1840, a cura di J. Fürst.
[16] Nel 1890, dopo la pubblicazione dell’Epistolario luzzattiano, B. credette opportuno stampare in un volumetto le lettere da lui mandate, durante il dibattito, al Luzzatto, ma il volumetto in formato 32, oggi rarissimo, non fu da lui completato. (Lettere dirette a S.D. Luzzatto da Elia Benamozegh, Livorno, presso l’autore, 1890).
[17] Sarebbe molto interessante studiare le affinità di pensiero fra i due Maestri le quali forse possono emergere anche fra le righe della polemica di cui ci occupiamo.
[18] Era un periodico settimanale edito a Lyck (Prussia) dal Rabbino dott. L. Silbermann nel 1857. Luzzatto vi fu collaboratore assiduo. La lettera cui allude Benamozegh comparve nel primo numero del 9 ottobre 1857.
[19] Lettere citate, pagg. 2-3.
[20] id. id., pag. 4.
[21] Nell’epistolario del L. v’è bensì una lettera del 5 novembre 1849, diretta al B., ma chi la confronti con quella recante la data 3 novembre 1859, si accorgerà che ne è, nella parte sostanziale, una copia. Del resto l’Index raisonné delle lettere del L. (Padova, Sacchetto, 1878) non la registra.
[22] Cioè è grave penitenza.
[23] Lettere, pag. 5.
[24] Id. id.
[25] Id., pag. 7.
[26] Nato nel 1819 e morto nel 1897, Israel Costa successe, nel 1864, a Rav Piperno nella direzione spirituale della Comunità di Livorno; pubblicò, con tipografia propria, traduzioni italiane di Machazorìm e alcune opere poetiche, una grammatica e un vocabolario ebraico. Ha lasciato fama di grande dolcezza d’animo, e di viva affettuosità verso i discepoli.
[27] Epist. it., pag. 938.
[28] Lettere, pag. 9.
[29] Lettere, pag. 14.
[30] Lettere, pag. 16.
[31] Lettere, pag. 19.
[32] È il periodico che dal 1852 pubblicano a Vercelli Giuseppe Levi e Esdra Pontremoli.
[33] Lettere, pag. 29.
[34] Epist. it., pag. 950.
[35] Lettere, pag. 33.
[36] Tà’am Leshàd, Nouveaux dialogues sur lá Qabbale, par ELIE BENAMOZEGH, Livorno, 1863.
[37] Tà’am Leshàd, pag. 32.
[38] Vedi il programma del Congresso in Educatore israelita, 1863, pag. 148.
[39] V. Corriere Israelitico, 1853, pag. 104.
[40] Giurista e avvocato principe a Ferrara, allora giovanissimo, fu a lungo Presidente di quella Comunità e personalità di primo piano, per vivacità d’ingegno e profonda consapevolezza religiosa, nella vita ebraica del suo tempo (1839-1920).
[41] Educatore Israelita, 1858, pag. 142.
[42] Educatore Israelita, 1863, pag. 233.
[43] ibid., pag. 235. Nelle parole «veniamo assicurati» si legge l’incompetenza personale di chi scrive, ma anche la sincerità nel dichiararla.
[44] ibid., pagg. 296, 297.
[45] ibid., pag. 300.
[46] Lettere, pagg. 49, 50.
[47] Lettere, pagg. 50, 51.
[48] Lettere, pag. 51.
[49] Epist. it., pagg. 1027, 1028.
[50] Lettere, pag. 52 e segg.
[51] Cfr. Lettere, pagg. 90, 91.
[52] Epist. ital., pagg. 1029, 1030
[53] Lettere, pag. 57 e segg.
[54] Lettere, pag. 66.
[55] È, probabilmente, il dott. Ludwig Philipssohn, direttore già dal 1857, dell’Allgemeine Zeitung des Judentums, di Magdeburgo, cui Luzzatto collaborò fino al 1854. Una recensione critica dell’opera del Philipssohn, Le developpement de l’idée religeuse pubblicò il Luzzatto nell’Univers Israélite del 1850, pagg. 445-449.
[56] Lettere, pagg. 69, 70.
[57] Lettere, pagg. 73, 74.
[58] (58) Epist. ital., pag. 1032 e segg.
[59] Epist. ital., pag. 1035.
[60] Lettere, pag. 96.
[61] Lettere, pagg. 77, 78.
[62] Lettere, pag. 76.
[63] Lettere, pag. 78.
[64] Lettere, pagg. 102, 103.
[65] Si veda, per es., quel che ne dice nelle lettere al MORTARA (Epist. ital, pagine 805, 886, 887).
[66] Lettere, pag. 84.
[67] Adolfo Jellinek (1821-1893) pensatore e scrittore copiosissimo, tradusse in tedesco l’opera di Adolf Frank sulla Kabbalà.
[68] Epist. ital., pagg. 672, 673. Filosseno è il figlio di Luzzatto, morto a 25 anni nel 1854, dopo essersi affermato come orientalista e linguista. Questo doloroso dato biografico avvicina Luzzatto a Benamozegh, anch’egli orbato di un figlio giovanissimo, Alessandro, alla cui memoria dedicò nel 1885 l’Introduzione ad Israel et l’Humanité.
[69] È una interessante discussione circa l’interpretazione del testo di Deut. XVIII, 20. Vedila in Corriere Israelitico, 1863, pagg. 293, 328, 347, in due note del Luzzatto e in una risposta del Levi.
[70] Lettere, pag. 108.
[71] Si vedano in Corriere Israelitico, 1868 gli articoli di Eude Lolli, pagg. 96, 217, 328 e quelli, in polemica con lui, del B., a pagg. 129, 153, 281, 296. Il Lolli è un discepolo del Luzzatto, a lui legato anche da vincoli di famiglia. Fu Rabbino maggiore a Padova.
[72] Cfr. a questo riguardo, le acute osservazioni di E.S. Artom nell’articolo II della serie S.D. Luzzatto e il suo epistolario, in La Settimana Israelitica, Anno I, n. 39.
[73] Lettere, pag. 3.
[74] Storia degli Esseni, Firenze, Le Monnier, 1865, pag. IV. È concetto democratico che precorre di molti decenni voci autorevoli di filosofi contemporanei!