12000 coppie di alunni aveva R. ‘Akivà e tutti morirono nei primi trentatré giorni, fino al Lag Baomer, che intercorrono tra Pèsach e Shavu’òt. I Maestri spiegano che il motivo di questa mortalità fu una epidemia di askerà, (forse difterite), una malattia che colpiva l’uomo alla gola e si estendeva in tutto il corpo fino a causarne la morte, che D-o mandò come punizione poiché essi non si rispettavano l’un l’altro.
Molti si sono chiesti: come può succedere che proprio gli alunni di Rabbì ‘Akivà, che pure aveva insegnato: Veahavtà lere’akhà kamòkha, ze klal gadòl batorà (Ama il prossimo tuo come te stesso, questa è la grande regola nella Torà), non si rispettassero l’un l’altro?
Vorrei provare a dare a questa domanda due brevi risposte e fare a riguardo alcune considerazioni.
La prima: Gli alunni di Rabbi ‘Akivà erano tzaddikìm, chasidìm e talmidé chakhamìm. Ognuno di essi, se vivesse oggi, potrebbe essere considerato il ghedòl hadòr, il grande Maestro della generazione. Non è perciò vero che tra loro non c’era rispetto, almeno nel senso comune del termine. Probabilmente il problema era un altro.
Rav Yehudà Klain così interpreta l’insegnamento di R. ‘Akivà:
“Il nostro amore verso l’altro si dimostra certamente nel rispetto e nella considerazione altrui, ma anche e soprattutto nell’impegno che mettiamo per portare l’altro, i nostri figli, i nostri amici, coloro che ci sono vicini e anche quelli che non conosciamo a sapere e a vivere la Torà. I Maestri che possono insegnare, non perdano tempo, insegnino! Chiunque può aiutare la vita ebraica della propria Comunità non rimanga fermo, aiuti! Questo è quanto voleva dire Rabbì ‘Akivà con il suo insegnamento:
“Ama il prossimo tuo come te stesso, questa è la grande regola nella Torà“. Nella Torà, in ciò che tu fai per aumentare l’amore della Torà nel tuo prossimo, si dimostra e si riconosce l’ amore che provi verso l’altro”.
Sicuramente, questo gli alunni di Rabbì ‘Akivà lo avevano capito, ma ognuno di loro, proprio perché tzaddìk, chassìd e talmìd chakhàm, era ben convinto che il suo modo per vivere e rispettare la Torà fosse quello giusto e che quello altrui fosse sbagliato. Per loro amare l’altro significava innanzi tutto correggere gli errori del compagno imponendo il proprio modo, l’unico considerato vero, per vivere le Mitzvòt e ciò generò antagonismo e inimicizia.
Forse in questo modo si può spiegare anche il pensiero dei Chakhamìm:
Kol hagadòl mechaverò, yitzrò gadòl hemènu, chi è più grande del suo compagno ha pure un istinto cattivo più grande del suo compagno. Più si è grandi e più ci si sente in grado e in dovere di imporre il proprio pensiero sugli altri, convinti di fare realmente il bene del nostro prossimo”.
Ma cercare di imporre il proprio pensiero, per qualsiasi motivo, non genera rispetto, al contrario, genera litigio e distacco e fu la disunione che portò la morte tra gli alunni di Rabbi ‘Akivà e che potrebbe portare (chàs veshalòm) la fine anche del popolo ebraico.
La seconda risposta che vorrei portare si trova in un commento alla Torà scritto nel 1912 da rav Shemuèl Borenshtein di Sokhatcew.
Per i Maestri, portare kavòd, onore, significa saper trovare nell’altro quella ma’alà, quel qualcosa in più che a noi ancora manca. Questo è quanto abbiamo letto nei Pirké Avot: Ezéhu chakhàm? halomèd mikòl adàm, Chi è saggio? Colui che impara da ogni uomo. Ma è facile trovare questa ma’alà nelle persone estranee, nelle persone che in definitiva non conosciamo veramente a fondo. È invece più difficile portare rispetto, riconoscere la superiorità di un amico, di colui o di colei che frequenti con assiduità, di chi consideri come un fratello o come una sorella.
Così pure, è facile mancare di rispetto al proprio fratello o al proprio consorte, proprio perchè l’abitudine alla loro vista e alla loro compagnia spesso ci fa perdere il valore del rispetto nei loro confronti. Tra gli alunni di Rabbì ‘Akivà regnava certamente un amore fraterno, erano amici ma forse proprio per questo non si sapevano portare veramente kavòd, o forse pensavano che tra amici non è necessario portare kavòd mentre a lungo andare, la mancanza di rispetto porta litigio anche tra amici più cari.
Portare kavòd significa in definitiva riconoscere che ognuno è unico. Il popolo ebraico ha questo compito, da un lato si deve essere uniti così come le membra tutte insieme danno origine ad un corpo completo, ma d’altra parte, così come ogni membro del corpo umano ha una sua funzione, ognuno deve capire la propria unicità e quella altrui. Stare tutti assieme e comunque sentire che ogni persona è particolare e proprio per questo importante e fondamentale, questa è la difficoltà ma questa è la necessità se si vuole andare avanti.
Il periodo che va da Pesàch a Lag Baomer si sviluppa in due mesi: il mese di Nissàn e quello di Iyar. Il segno zodiacale di Nissàn è l’ariete. L’ariete vive nel gregge, unito alle pecore, esso simboleggia l’uomo che sa vivere unito agli altri, l’ebreo che non si stacca dalla società, dalla sua Comunità. Il segno zodiacale di Yiar, invece, è il toro, un animale solitario, che ama stare lontano dagli altri, anche dai propri simili. questo animale rappresenta l’uomo che sa di essere unico, diverso dagli altri, sa che quanto può dare lui nessuno riuscirà a dare e, come abbiamo detto, ogni ebreo è unico. Gli alunni di Rabbì ‘Akivà sapevano stare assieme ma lo nahagu kavòd ze bazé non sapevano dare kavod, la troppa amicizia, forse il troppo amore impediva loro di vedere la grandezza dell’altro.
Tra gli alunni di Rabbì ‘Akivà si salvarono solo cinque persone. Uno di loro fu Rabbì Shim’òn Bar Yochài.
Di lui nel Talmud si riportano tanti pensieri. Fu lui che insegnò: gadòl onaàt devarìm meonaàt mamòn, è peggio offendere una persona con le parole che portarle via del denaro. Il denaro si può restituire, le offese invece lasciano un segno indelebile in chi le ha subite. Fu ancora Rabbì Shim’òn Bar Yochài che disse: Nòach lo laadàm sheyapìl ‘atzmò lekivshàn haèsh ve’àl yalbìm pené chaverò barabìm, è meglio buttarsi nel fuoco piuttosto che offendere una persona in pubblico.
Credo che in questi due insegnamenti si ritrovi il vero alunno di Rabbì ‘Akivà. Non fare onaàt devarìm, non offendere il singolo, se lo offendi non gli porti onore, vuol dire che non hai capito la sua importanza, che anche lui in qualche cosa è meglio di te e che per questo può essere un tuo Maestro. Non essere malbìm pené chaverò barabìm, non lo offendere in pubblico, porteresti la gente ad isolarlo o lui ad isolarsi dal pubblico, e un ebreo deve essere sempre assieme agli altri.
La tradizione vuole che Rabbì Shim’òn sia morto proprio di Lag Baomer, lo stesso giorno in cui terminò l’epidemia che uccise i suoi amici e compagni.
Lo Zohàr ci racconta che nel Lag Baomer in cui morì, egli radunò i propri alunni per dare loro gli ultimi insegnamenti. Sapeva, chi lo sa come, che con la conclusione della giornata sarebbe morto e radunò tutte le sue ultime forze per restare ancora con i suoi scolari, per poter fornire loro ancora qualche risposta e sentire qualche domanda. Il sole stava per tramontare e non aveva concluso la sua lezione. Fu allora che successe un miracolo. La giornata si allungò e la luce rimase sul mondo vincendo l’oscurità fino a che il suo ultimo insegnamento poté essere scritto. È in ricordo di questo fatto che ancora oggi noi accendiamo dei lumi nel Bet Hakeneset aumentandone la luce, e più lumi si accendono e più la luce aumenta, in segno di augurio ma anche di richiesta, che lo studio di Torà che in esso si svolge e le preghiere che rivolgiamo possano dare luminosità e allungare la nostra la vita e quella di tutto Israele, Amén.